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The Pleasure of Pain II - La meccanica della violenza: Burgess, Kubrick, Warhol [Simona B]

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Se c’è qualcosa che caratterizza la società umana fin dai suoi albori, quella è la violenza. Diverso è il concetto di sadismo, perché presuppone alla base una pulsione/tensione erotica, sessuale; in parole povere, il sadico è sempre un violento, ma non sempre il violento è anche un sadico. Tuttavia, si tende spesso a confondere le due cose, e per questo ritengo un classico moderno come Arancia meccanica il punto di partenza ideale per riallacciarsi al tema cardine di questo speciale. Anthony Burgess pubblicò il suo romanzo distopico (o meramente sociologico, se preferite) nel 1962, anche se a onor del vero la prima edizione italiana, di sette anni successiva, portava il titolo di Un’arancia a orologeria. Solo in fase di ristampa il titolo venne modificato in Arancia meccanica, per sfruttare al meglio, dal punto di vista commerciale, l’eco del film di Stanley Kubrick che nel frattempo (nel 1971) aveva ottenuto un successo planetario. Mai prima di allora (o forse mai in assoluto, perlomeno non con questa potenza) due opere artistiche dal diverso linguaggio, come quello letterario e quello cinematografico, erano divenute tanto complementari da costituire quasi un unicum. La storia parla di violenza a più livelli, non solo fisica e mentale, ma anche sociale e politica e anche se conoscete tutti la trama, immagino, vale la pena tratteggiarla ugualmente, perlomeno nelle sue linee generali.

Il protagonista, Alex (con il volto dell’immenso Malcom McDowell), è un giovanissimo teppista a capo di una gang dedita al furto, ai pestaggi e agli stupri. Un bel giorno viene arrestato dopo essersi introdotto nell’abitazione di una vecchia gattara, che in seguito all’aggressione muore. Alex viene condannato a una lunga pena, ma finirà per uscire dal carcere dopo appena un paio d’anni grazie alla nuova, sperimentale, cura Ludovico.

La cura Ludovico è una forma di condizionamento mentale con cui lo Stato intende eliminare nei delinquenti la propensione al crimine. Il lavaggio del cervello viene completato in quindici giorni durante i quali Alex subisce l’iniezione di un farmaco che provoca un’intensa nausea e poi, legato alla sedia e con le palpebre tenute aperte a forza, viene costretto a una totale immersione nella violenza. La violenza viene “somministrata” tramite dei film incentrati su stupri, omicidi e altre amenità che lui è costretto a visionare, uno dopo l’altro, per ore, il che crea un curioso cortocircuito nel lettore e, nello spettatore del film di Kubrick, anche una riflessione metacinematografica (poiché il suo Arancia meccanicaè un prodotto del linguaggio cinematografico stesso).


In seguito, ogni volta che Alex sarà sul punto di esercitare violenza fisica o verbale, o anche solo immaginerà di farlo, si ritroverà di riflesso in preda a un malessere così intenso che dovrà abbandonare i suoi propositi. Non si può dire quindi che il suo istinto criminale sia stato soppresso, ma gli è ora impossibile metterlo in pratica. La cura però ha anche un effetto collaterale, perché provoca in lui una profonda idiosincrasia per tutto ciò che la sua mente ricollega anche vagamente ai film; innanzitutto il sesso, che nei film era ovviamente esercitato sempre in modo coercitivo, e poi la musica, dato che le immagini ultraviolente erano spesso accompagnate da un sottofondo musicale. In particolare, Alex non riesce più ad ascoltare la Nona di Beethoven, il suo compositore preferito, che ironicamente porta anche il nome della cura che ha subito (in originale si parla proprio di cura Ludwig).

Il trattamento ha reso Alex un’arancia meccanica¹, una sorta di automa fatto di carne e sangue, incapace di esprimere qualunque pensiero o comportamento socialmente inaccettabile; in questo modo, però, lui ha anche perso la propria umanità, intesa come volontà e capacità di scelta. Condizionare la sua mente significa privarlo della possibilità di cambiare, privarlo insomma del suo stesso futuro. Secondo Kubrick, questo sarebbe una metafora del processo di civilizzazione volto a trasformare l’uomo “naturale” in un nevrotico rappresentante della comunità, un processo inevitabile ma da tenere sotto controllo².

Uscito di prigione, Alex si ritrova in balia di alcune delle sue precedenti vittime. A nulla valgono le proteste che ha già pagato il suo debito con la legge e che ora, così avulso dalla violenza, non è neppure più in grado di difendersi: la società non sembra pronta a dimenticare i suoi peccati. Ma Alex diviene anche la vittima di un gruppo di attivisti politici contrari alla cura Ludovico e decisi a sfruttare la sua esperienza per rovesciare un governo in odore di totalitarismo…

Per riallacciarci un momento all’incipit del post, sono sadici i teppisti protagonisti di Arancia meccanica? Forse sì e forse no: una volta esaurito lo stimolo sessuale il sadico perde interesse per la violenza, mentre per questi personaggi questa sembra essere più che altro uno stile di vita. Ciò che accomuna il sadico e il violento, comunque, è la mancanza di empatia per il prossimo; la stessa empatia che il nostro Alex chiede però al lettore quando, nella terza parte del libro, gli narra le sue tribolazioni. Benché provenga da un quartiere popolare, Alex ha due genitori normali e dimostra perfino una minima cultura e un certo gusto (la musica classica); dobbiamo quindi supporre che sia malvagio perché ha scelto di esserlo e non per via di qualche tara mentale o induzione del suo ambiente natale/della sua educazione, il che vuole smentire un certo darwinismo, o lombrosismo, che dir si voglia.

È dunque preferibile il male al bene quando quest’ultimo viene imposto e non è il frutto di una libera scelta?
Che cos’è che Dio vuole? Dio vuole il bene o la scelta del bene? Un uomo che sceglie il male è forse in qualche modo migliore di un uomo cui è stato imposto il bene? si chiede il cappellano della prigione, ma è una domanda di cui nessuno conosce la risposta. Qualcuno, non ricordo più chi, una volta disse che il mondo senza il male sarebbe un luogo orribile; ecco, ci ho pensato a lungo, ma mi riesce difficile coltivare dentro di me simili certezze.


Spesso il male è anche una conseguenza diretta del voler far del bene a tutti i costi (vi dice niente l’espressione “bugia a fin di bene”?). Ma naturalmente, oltre a questi sono ben altri i significati che qui si intende trasmettere. La prima riflessione da fare riguarda il ruolo dell’Autorità, quella sì, davvero sadica, se per perseguire il bene ritiene lecito istituire un clima repressivo e lesivo della libertà personale, che tollera la violenza quando proviene da se stessa (tanto è vero che uno degli ex accoliti di Alex finirà con l’arruolarsi in polizia). Si apre poi una riflessione sull’effettiva pratica del perdono, anche e soprattutto in quelle società permeate, o così sembra in superficie, dal sentimento religioso. In passato, fu dall’assunto secondo cui il fine giustifica i mezzi che nacque la persecuzione su “eretici” e “streghe/stregoni”; e non dimentichiamo che in Inghilterra e negli Stati Uniti la fustigazione, anche privata, fu legale perlomeno fino agli anni ’30 del Novecento, il che significa che bastava trovare una finalità alla violenza per renderla moralmente accettabile. Qual è dunque, se esiste, il confine tra punizione e tortura? Chiamatela come volete, ma la cura Ludovico è una vera e propria tortura di stato: che le sofferenze inflitte siano fisiche o morali, comportano comunque dolore e disperazione. Da qui al tema della pena capitale il passo è breve, ma non è questa la sede adatta per parlarne.

Ci sarebbe poi da affrontare la misteriosa questione dell’ultimo capitolo, presente nella versione inglese e italiana del romanzo ma assente in quella americana. Un capitolo che lascia intuire i germi del cambiamento o “redenzione” di Alex, non si sa bene se inserito da Burgess di sua volontà o, chissà, a seguito di pressioni del suo editore. Sorvoliamo, invece, e passiamo alla realizzazione filmica della storia…

Chi mi conosce bene sa che non amo molto Kubrick. È fin troppo cerebrale per i miei gusti, e raramente mi emoziona, ma devo ammettere che Arancia meccanicaè un capolavoro nel suo genere, un film visivamente magnifico che riesce a rendere perfettamente in immagini quell’ironia e leggerezza disseminate nel romanzo. Vedendolo per la prima volta, ben prima di leggere l’opera di Burgess, ero convinta che stemperare la violenza della storia fosse stato per Kubrick un atto deliberato: si pensi per esempio alla scena della battaglia fra le due bande rivali, coreografata dal regista come se fosse un balletto; alla successiva scena sul lungofiume, girata in ralenti, in cui Alex aggredisce due dei suoi per ristabilire la gerarchia; oppure alla scena di sesso tra Alex e le due ragazze, i cui invece fotogrammi scorrono sullo schermo accelerati in modo da alterare nello spettatore la percezione del tempo filmico e creare una sensazione di straniamento che accentui il lato farsesco della situazione (non per niente la visione extra diegetica è un espediente utilizzato spesso negli sketch comici); all’aggressione alla “signora dei gatti”, girata con la camera a mano e con l’apice della violenza che resta fuori campo; e così via.


Trattare argomenti così delicati in questo modo mi sembrava, come dire, poco appropriato. Irriverente, quasi (alla faccia di chi, invece, alla sua uscita giudicò il film troppo violento, e in quella violenza vide persino del compiacimento). Ma la verità è un tantino diversa da come me la figuravo, perché anche il libro è costruito nello stesso modo: il punto di vista offerto al lettore è sempre e solo quello di Alex, il narratore, e anche il suo particolare slang contribuisce ad “alleggerire” situazioni che altrimenti sarebbero insostenibili (a proposito, un plauso alla traduttrice Floriana Bossi, che ha avuto il non semplice compito di inventarsi un analogo gergo in italiano e lo ha svolto in modo, secondo me, egregio). Immaginate l’impatto della seguente scena di stupro scritta in italiano corrente. Molto peggiore, vero?
Questa volta, fratelli, apparve immediatamente una giovane mammola a cui facevano il vecchio vaevieni, prima un malcico poi un altro poi un altro poi un altro, e lei scricciava a più non posso molto altisuono attraverso gli stereo insieme a una musica molto patetica e tragica. […] E quando si arrivò al sesto o settimo malcico ghignante e gufante che ci dava dentro e la quaglia che scricciava nella colonna sonora come scardinata, io cominciai a sentirmi male.

La grandezza di Kubrick sta nell’essere riuscito a ottenere un effetto simile con un mezzo diverso, qual è quello del cinema, tramite un’oculata scelta dei movimenti di macchina, il montaggio e l’uso del suono. A parte questo, in qualche caso Kubrick modificò anche l’età dei personaggi (all’inizio del romanzo Alex ha quindici anni e le due ragazzine protagoniste della scena a tre descritta sopra circa dieci, un dettaglio irrappresentabile al cinema perfino dopo il precedente di Lolita).

In questo come in altri film di Kubrick la purezza formale si esprime prima di tutto con la simmetria, e questo è evidente fin dalla prima scena nel bar, con quella lunga carrellata all’indietro che svela il barocco ambiente del bar di cui Alex e i suoi gregari sono degli habitués, e in generale in tutte le scene negli interni e in moltissime altre, come ad esempio quella del pestaggio del senzatetto. Questa costruzione dell’immagine sembra fare da contraltare alle simmetrie seminascoste del romanzo (esemplificate da Alex, il narratore, e F. Alexander, l’autore del romanzo nel romanzo Arancia meccanica³, sua vittima e doppio speculare), mentre luci e ombre esprimono la dualità dell’animo umano presente in qualche misura in tutti i personaggi.

Tra Burgess e Kubrick c’è però un terzo incomodo che si tende spesso a dimenticare o a sottostimare: Andy Warhol. Non tutti forse sanno che il padre della Pop Art propose il suo personale adattamento del romanzo, Vinyl, già nel 1965, in linea con la maturazione della cifra stilistica del suo cinema.

Warhol viene tuttora considerato uno dei più importanti registi underground americani del dopoguerra, e probabilmente di tutti i tempi, anche se lo sperimentalismo alla base della sua business art, che non nacque né si esaurì col cinema, impedisce di considerarlo “solo” un regista, ma un visual artist a tutto tondo.
Com’è noto i suoi primi film, quelli del periodo muto, avevano una natura formalmente e filosoficamente “fresca” e anarchica: in barba alle regole correnti del fare cinema, il regista piazzava la macchina da presa e lasciava liberi gli attori di improvvisare, al più offrendogli uno spunto o un canovaccio da cui partire. Quello che gli interessava era soddisfare il suo voyeurismo, e forse quello del suo stesso pubblico, mostrando dei personaggi a lui cari (in genere membri della Factory) intenti a compiere atti comuni e banali come dormire, mangiare o fumare. E naturalmente fare sesso, pur fermandosi sempre alle soglie del realmente esplicito.

I suoi film erano quindi costituiti da un unico piano sequenza, senza alcuno stacco o movimento di macchina: in quelli più lunghi si continuava finché la pellicola non finiva, e con essa terminava anche il film. Talora Warhol si divertiva anche a sperimentare con la velocità di proiezione delle pellicole: proiettando a 16 fotogrammi al secondo anziché a 24 dilatava in modo artificiale la durata di film che, spesso, erano già in origine molto lunghi. Una percezione che, avendo un effetto straniante, era vista come provocatoria.

Semplificando, si può dire che, almeno nella prima parte della sua carriera cinematografica, Warhol concepisse i suoi film come dei quadri o delle fotografie, dove a contare era solo quanto rappresentato e nessun peso avevano la preparazione, la trama o un suo possibile sviluppo. Potremmo quindi definire il suo cinema contemplativo, nel senso sia di uno svolgimento dall’andamento lento (un’altra definizione di questo tipo di cinema infatti è slow cinema) che di una rappresentazione volta a mostrare la realtà, o comunque con la realtà che tende a prendere il sopravvento sulla finzione anche laddove il film segua una sceneggiatura. La contemplazione non è che una forma di meditazione, anche se dubito che la maggior parte della gente consideri la cosa in questi termini; forse neppure lo stesso Warhol, che si limitava a dire che, dato che il pubblico amava osservare le star, nei suoi film poteva osservarle e “saziarsene” a lungo. Resta il fatto che la prolungata osservazione di un soggetto finiva da un lato per portare alla luce la sua vera natura, dall’altro a trascenderla, rendendolo quasi astratto, o come minimo surreale. Così nacquero i miti della Factory, svelatisi prima di tutto a se stessi.

Vinyl presenta qualche differenza, perché appartiene al suo secondo periodo di cineasta, quello in cui il regista cominciava a sperimentare col sonoro e in cui gli attori avevano delle battute, è insomma un prodotto che comincia a somigliare all’idea di cinema classico a cui siamo abituati. In questo caso, a dire il vero, anziché recitare gli attori leggono le battute su dei cartelli posti al di fuori dell’inquadratura, di cui ci si accorge perché raramente guardano in camera, ma direttamente verso di essi. In altre parole, come spesso avveniva nei film di Warhol, anche qui non si fa nulla per celare l’artificio né per creare un effetto verità che, pure, si finisce per ottenere ugualmente. Ma andiamo per gradi.

Da sinistra a destra: Henry Geldzahler, Edie Sedgwick, Foo Foo Smith
Andy Warhol, Gerard Malanga, photographed by Steve Schapiro in New York City, 1965.

Il girato consiste in una serie di brevi scene riprese a camera fissa in un unico piano sequenza, che traspongono solo alcune situazioni (poche) del romanzo, o almeno questa è la mia impressione (è difficile quantificarle perché l’azione si svolge in contemporanea sia in primo piano che nella profondità di campo, dove quel che avviene è a tratti celato o semicelato e più che vedersi s’intuisce). Il protagonista, qui ribattezzato Victor, è interpretato da uno degli attori-feticcio di Warhol, il poeta Gerard Malanga, assieme ad altri volti noti come la bella Edie Sedgwick (qui alla sua prima apparizione in un film di Warhol in un ruolo che non ho ben capito, ma forse nulla più che una muta testimone degli eventi, anche se a dire il vero una sua minima interazione con gli altri attori c’è).

Le frasi dei protagonisti sono molto più crude ed esplicite di quelle presenti nel romanzo di Burgess. Sul set si dicono parolacce, si beve, si fuma, si balla. Il bianco e nero è gradevole ed efficace, ma le figure sullo sfondo risultano tagliate e talvolta poco definite; colpisce, tra le altre cose, la staticità degli attori nell’inquadratura, che d’altra parte è stretta; perfino Victor, nell’ultima parte, tende a scivolarne fuori.

Però le torture, per quanto molto blande a confronto con quelle del romanzo (spinte e schiaffi, frustate, bruciature di sigaretta, colate di cera bollente), non sono affatto simulate. Maltrattamenti, torture e lamenti degli attori sono veri… Quando poi viene messa in scena la cura Ludovico, il nostro Victor viene incappucciato e torturato, anche fisicamente, ma ora della fine lo ritroveremo avvinghiato al suo aguzzino in una sorta di balletto vagamente lascivo. Il tutto assume i contorni del sogno, o forse del delirio lisergico. Prima dicevo che nei film di Warhol la realtà tende a prendere il sopravvento sulla finzione e anche Vinyl non sfugge a questa regola (non solo per questo, ma anche a causa del fatto che sigarette, spinelli e polverine varie rendono gli attori euforici in un modo un po’ troppo realistico per essere una simulazione).


Insomma, laddove Kubrick cerca di smorzare la violenza, Warhol in un certo senso la accentua, ma per farlo abbandona la fedeltà alla storia per concentrarsi sulla messa in scena della trasgressione. Inutile negare che in Vinyl si finisce per perdere un po’ di vista il risvolto politico, distratti come siamo da quell’armamentario (fruste, borchie, cuoio…) in bella mostra: più facile è pensare all’immaginario sadomasochistico, eterosessuale o omosessuale, allo sguardo aperto o nell’atto di spiare, alla dimensione pruriginosa di quel particolare contesto. Al netto dei suoi difetti, comunque, e nell’accomunare lo spettatore agli attori ai margini della scena, il film possiede un suo strano fascino.

In seguito all’uscita del film di Kubrick, Warhol affermò che il regista newyorkese si era ispirato al suo lavoro e non è detto che avesse tutti i torti, ma va detto che tra Vinyl e Arancia meccanica c’è un abisso, non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello contenutistico. Eppure il suo film, tanto quanto quello di Kubrick, è un’esperienza che chiunque si definisca un cinefilo dovrebbe avere il coraggio di affrontare.


* * *

Note al testo


¹٬³ Burgess spiegò che l’espressione “clockwork orange” faceva parte del dialetto londinese e che aveva cercato a lungo la maniera di usarla, finché infine non trovò la soluzione migliore: nel sceglierla come titolo del suo romanzo e del romanzo fittizio del personaggio F. Alexander, le donò una nuova dimensione e profondità. Per una spiegazione più approfondita vi rimando al saggio A Clockwork Orange Resucked dello stesso Burgess e/o a wikipedia.

² In qualche modo, il criminale “moderno” sembra dedicarsi alla violenza per via di una spinta “meccanicistica” interiore tanto più forte quanto più l’umanità si allontana dalla natura. Non a caso, oggi le forme più diffuse di violenza sono quelle a carico degli animali, e il bello è che sono quasi sempre legali e trovano una giustificazione nei benefici che apportano (o apporterebbero) al genere umano. La bontà e la generosità dell’umanità sono illusorie, una pietosa bugia che le persone si raccontano per continuare a fingere di non vedere le brutture del mondo.

⁴ Eticamente non c’è molta differenza fra partecipare alla violenza oppure assistervi senza intervenire. Come disse Martin Luther King, fa più paura l’indifferenza dei giusti che la cattiveria dei malvagi.


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Questo che avete appena letto è il secondo, e ultimo, dei guest-post di questo Speciale scritti da autori non titolari di un blog. Il primo era stato opera di Max, che aveva aperto la danza degli ospiti con un articolo sul libro La filosofia nel boudoir, mentre stavolta è toccato a Simona di farci vorticare, con un altro libro, Arancia meccanica (A clockwork orange) e i due film, così diversi tra loro, tratti dalle pagine dello stesso.
Il film di Kubrick ovviamente lo conoscevo, avendolo visto e rivisto, mentre Vinyl di Andy Warhol era per me un perfetto sconosciuto fino a un paio di mesi fa, quando ho letto in anteprima questo articolo. E' l'unica scusante che ho per non aver neanche saputo trattenere nella memoria l'informazione che il film era dei '60 anziché dei '70 come ho scritto in chiusura del post a firma Lucius Etruscus di due giorni fa, nell'invitarvi a tenervi pronti a un salto indietro nel tempo in questo secondo decennio.
Comunque sia, ignorantia mea a parte, ho trovato estremamente affascinante il percorso proposto in questo post da Simona, che per la verità, a dirla tutta, qualcosina a che fare con un blog ce l'ha, e con un blog che per di più considero tra i migliori in assoluto della blogosfera. So che molti di voi già sanno, mentre rinvio chi ancora non sapesse a questo post di un po' di tempo fa, di cui sono stato causa diretta, dove potrete confrontarvi con l'arcano e ottenere una risposta. Un po' come succedeva al mago elisabettiano John Dee (1527 – 1608, ritratto nell'immagine qui sopra), quando si poneva davanti al suo specchio di ossidiana. Avete presente, no?
[I. L.]


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