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Trilogia delle Madri /4 - Le origini: Zarathustra e Il tramonto degli oracoli

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Dopo aver ascoltato la profezia di un indovino, sul prossimo avvento di un’era di apatia per gli uomini, Zarathustra si immalinconisce e nel giro di poco diventa proprio il genere di uomo decadente descritto dall’indovino. Per tre giorni vaga senza pace, senza toccare cibo né bevanda, e senza proferire parola, finché non sprofonda in un lunghissimo sonno. Fa anche un sogno, che al risveglio racconta ai suoi discepoli, nella speranza che qualcuno di loro sia in grado di interpretarlo.
Ecco la parte iniziale del resoconto del sogno di Zarathustra in una vecchia versione italiana* del libro di Nietzsche (Così parlò Zarathustra, Parte II, L’indovino):
Sognai di aver rinunziato a tutta la vita. Ero diventato guardiano notturno dei morti, lassù nella solitaria rocca di morti, fra i monti.
Lassù vigilavo i sarcofaghi e le cupe volte erano piene di trofei. Mi guardava dai vitrei sepolcri, sopraffatta, la vita.
Respiravo l’odore d’un’eternità fatta polvere: pesante e polverosa era l’anima mia. E chi mai avrebbe potuto dar aria in tal luogo alla propria anima?
Mi circondava una luce di mezzanotte e presso di lei, accoccolata, la solitudine; e, terza e peggiore delle mie amiche, una rantolante quiete di morte.

La descrizione del sogno continua ma a interessarci qui è in realtà solo l’ultima frase di questo breve estratto**, frase che i germanisti Paul Bishop e Roger H. Stephenson fanno oggetto, in un loro saggio dal titolo Friedrich Nietzsche and Weimar Classicism, di una tesi suggestiva: secondo i due studiosi, vi riaffiorerebbero, sebbene non più nominate esplicitamente come ne La nascita della tragedia, le Madri.
Non è molto importante per noi sapere se Bishop e Stephenson hanno ragione o no. E' importante che abbiano intuito questa possibilità. Molti studiosi dell’opera di Nietzsche concordano del resto sulla tesi che la figura di Zarathustra sia alla fine un'altra delle maschere di Dioniso e che la sua dottrina dell’affermazione vitalistica adombri in sé lo spirito della Tragedia. Il filosofo tedesco, abbandonata la fede ingenua e giovanile che lo animava ne La nascita della tragedia, su una possibile imminente rinascita dello spirito tedesco, sa adesso di non parlare più a un popolo o a una nazione ma a quei pochi che, ovunque si trovino, abbiano orecchie per ascoltare; sa ormai molto bene, in altre parole, di rivolgersi a tutti e a nessuno. Una maturazione del pensiero a cui si accompagna anche una equivalente evoluzione del linguaggio, che nello Zarathustra si traduce nella predilezione per l'ambiguità oracolare dell’enigma rispetto a una piana e lineare enunciazione delle tesi.

Ma la tesi di Bishop e Stephenson si arricchisce di altre suggestioni ancora se proviamo a espanderla fino a inglobarvi, oltre al Faust di Goethe come fanno i sue studiosi, anche il Suspiria de Profundis di Thomas de Quincey, precedente di trent’anni il Così parlò Zarathustra.
Scopriamo allora, sia nel testo di De Quincey che in quello di Nietzsche, una progressione similare del grado di terribilità delle Madri, che fa sì che in entrambi i testi la terza appaia “la peggiore”. Inoltre, in un caso e nell'altro, il veicolo scelto dalle Madri è il sogno: quasi una prova generale della loro futura comparsa sulla scena "materiale” del sogno di celluloide rappresentato dal cinema.




Ma torniamo adesso a Plutarco e alle sue opere, sebbene non più alle Vite ma ai Moralia. Se ho ricostruito correttamente la cronologia, il primo studioso a mettere l’accento su un altro suo passo, tratto stavolta da Il tramonto degli oracoli, in relazione alle Madri, è stato Karl Julius Schröer(1825-1900). Linguista e critico letterario, Schröer fu professore alla Technische Hochschule di Vienna, la stessa che Rudolf Steiner, il fondatore dell'Antroposofia, frequentò tra il 1879 e il 1883, senza però completare gli studi in nessuna disciplina. Fu proprio Schröer a far arruolare il giovane Steiner tra i curatori dell’edizione weimariana (1887-1919, conosciuta anche come Sophien-Ausgabe) dell’opera completa di Goethe, e fu sempre lui, su ammissione dello stesso Steiner, a ispirargli la visione del Faust di Goethe come “la più alta espressione dell’ottimismo nella storia del genere umano”***.

Karl Julius Schröer pubblica la prima edizione del suo Faust nel 1881. Poi, circa mezzo secolo dopo, un germanista francese di nome Henri Lichtenberger, in una sua traduzione francese dell’opera di Goethe, sembra riprendere la tesi del suo predecessore tedesco:
Combinati con la celebre allegoria platonica della caverna questi due testi [Vita di Marcello e Il Tramonto degli oracoli] suggerirono a Goethe l’idea di questo regno misterioso fuori del tempo e dello spazio in cui le Madri meditano eternamente sulla formazione e trasformazione circondate dalle immagini di tutte le creature e incapaci di veder altro che schemi.****

Insomma, sembra che siano davvero in pochi a prendere sul serio quel che Goethe dice a Eckermann: che lui ha solo incontrato in Vita di Marcello di Plutarco il nome delle Madri e tutto il resto è farina del suo sacco.
Comunque sia, tirare in ballo Il tramonto degli oracoli si rivelerà destinato a complicare non poco, come vedremo, tutta la questione ruotante intorno alle Madri.

De Il tramonto degli oracoli (De defecta oraculorum), forse l’opera più nota di Plutarco insieme a Il demone di Socrate, mi sono già occupato in passato in questo blog, a proposito della leggenda del Re dei gatti, e più precisamente in rapporto al racconto della morte di Pan, senza dubbio la parte più famosa, e citata, dell’opera. Ma il testo plutarcheo presenta molte parti notevoli. Per esempio, al capitolo XXVIII, parla di una misteriosa pietra esistente all’esterno del mondo, così che è difficile sia immaginarla fissa, a causa del proprio peso, sia in movimento, a causa del suo essere sganciata da tutto. Dario Del Corno, il curatore dell’edizione Adelphi dell’opera, fa un collegamento suggestivo, con il monolite errante tra i pianeti e il vuoto del film di Stanley Kubrick 2001 Odissea nello spazio, elemento intruso e scardinante, simbolo dell’impossibilità di ogni comprensione razionale della struttura dell’universo. Ma a me piace anche immaginare, restando nel mondo classico, che questa pietra possa essere la stessa che Rea dette, avvolta nelle fasce, da divorare a Crono al posto del figlio Zeus.

Giulio Carpioni, La titanide Rea simula
la presentazione e la consegna a suo marito
Crono di suo figlio Zeus neonato


Ma prima di proseguire e arrivare alla parte che più interessa qui, il capitolo XXI, conviene spendere due parole sulla struttura generale del De defecta oraculorum, che è chiara ma allo stesso tempo abbastanza complessa. La forma in cui si presenta, è quella di un dialogo***** che verte sulla tesi che la causa del decadimento e del progressivo silenzio degli oracoli possa essere attribuita alla morte dei demoni che li ispirano (demoni da non confondere, però, con quelli a noi più noti del cristianesimo). L’io narrante del dialogo, che ne fa il resoconto, è Lampria, fratello di Plutarco, che nel testo gli affianca Ammonio, filosofo ateniese di scuola platonica e maestro di entrambi. E' l’incontro a Delfi con due ίεροì ãνδρες (santi uomini) che vengono da luoghi diversi - il grammatico Demetrio di Tarso e Cleombroto spartano - che innesca una prima esposizione del tema. Si uniscono poi alla conversazione, dal capitolo VI, altri amici, due dei quali, il giovane Eracleone e l’anziano storiografo Filippo, svolgeranno un ruolo attivo nel dialogo.
Sarà infatti Filippo a narrare il celebre episodio della morte di Pan (capitolo XVII), a sostegno della tesi del dialogo che certe figure intermedie tra il divino e l’umano sono soggette alla morte, mentre Cleombroto, subito dopo, promette di parlare di qualcosa di “ancora più strano”: il suo incontro con il Maestro del Mar Rosso, un uomo che
si lascia avvicinare una sola volta all’anno, sulle rive del Mar Roso, e passa il resto del suo tempo, come dicono, in compagnia di ninfe erranti e di demoni.

È l’uomo più bello che io abbia mai visto, e vive immune da ogni malattia grazie all’amaro frutto di un’erba medicinale, che egli ingerisce una volta al mese. Sa parlare molte lingue: con me ha usato quasi sempre un dorico simile a poesia. Quando parla, il luogo si riempie di un dolcissimo profumo che alita dalla sua bocca. Ogni sorta di scienze e di studi vive tutto il tempo con lui: ma l’arte profetica lo ispira una sola volta all’anno, ed è allora che scende al mare per dare responsi.

Poi, dopo questa descrizione che ricorda per alcuni aspetti quelle, anche recenti, fatte a proposito dei guru orientali, Cleombroto espone la teoria dei demoni che ha udito dal Maestro. E sempre al Maestro attribuisce anche quella parte del dialogo che, secondo Karl Julius Schröer, ha contribuito a ispirare Goethe nella creazione del mito delle Madri.


- Continua

* * *


Note


*Federico Nietzsche, Cosi parlò Zarathustra: un libro per tutti e per nessuno. Traduzione di Domenico Ciampoli. Milano, 1927. (disponibile in: Progetto Manuzio – www.liberliber.it)

**Nell’originale Tedesco: Helle der Mitternacht  war immer um mich, Eimsankeit kauerte neben ihr; und, zudrit, röchelnde Todesstille, die schlimmste meinen Freundinnen.

***David G. John, The Complete Faust on Stage: Peter Stein and the Goetheanum.

****Faust. Einaudi, 1965; nota p.

*****Il dialogo è nella forma 'diegematica' o espositiva, prediletta da Plutarco, in cui una conversazione è riferita da uno dei partecipanti (Dario del Corno, in Plutarco, Dialoghi delfici. Adelphi 1983, p. 40).

L'immagine in alto sotto il titolo è: Giorgio De Chirico, L'enigma dell'oracolo (1910)


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