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The complete Russ Manning - Volume uno

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Questo post doveva essere, nel suo intento iniziale, una comune segnalazione di una novità editoriale, come mi è capitato di farne in passato in qualche rara occasione. Alla fine, però, certi dettagli del suo contenuto lo hanno reso ai miei occhi qualcosa di diverso (e di più) e mi hanno spinto a cancellare, almeno dal titolo, la dicitura segnalazione.
Per cominciare, il suo oggetto è uno degli auto-regali che mi sono fatto in occasione delle feste appena trascorse. Perché sono costretto ad ammettere che anche quest'anno, a dispetto della mia crescente indifferenza nei confronti della festa in sé, i giorni intorno al Natale continuano a essere quelli in cui le mie finanze sono messe a più dura prova. Gli editori approfittano del periodo per tirar fuori dal loro cappello le cose più stuzzichevoli ed io abbocco regolarmente... e felicemente.
Credo che avrò occasione di parlare nei prossimi mesi degli altri acquisti, quando avrò avuto tempo e modo di leggerli e assimilarli, mentre, in un certo senso, l'auto-regalo di cui mi occupo in questo post, il primo volume di The complete Russ Manning, mi tiene compagnia già da molto tempo. Forse qualcuno di voi ricorderà la presenza, all'interno del mio post sulle 10 serie a fumetti che hanno scandito i miei anni '70, di una collana chiamata Tarzan special. Ecco un sunto di cosa scrissi allora, circa sei mesi fa:
Acquistai Tarzan Special fin dal primo numero, nel giugno 1972, e divenne subito la mia serie a fumetti preferita. Nelle sue pagine sono raccolte tutte le tavole domenicali di Tarzan realizzate da Russ Manning tra il 14 gennaio 1968 e il 29 gennaio 1978.
Uno dei punti di forza della collana è senza dubbio il modo in cui Russ Manning si pone nei confronti del personaggio. Manning è il primo autore dei fumetti di Tarzan ad attenersi scrupolosamente al mondo creato da Edgar Rice Burroughs. Le sue sceneggiature tuttavia, pur prendendo spunto dai romanzi, appaiono di regola meglio congegnate e stemperano le goffaggini e ingenuità tipiche della narrativa del buon vecchio E.R.B.
Inoltre il disegno di Manning, caratterizzato da una nitidezza e un'eleganza fuori del comune, ha influenzato un'intera generazione di disegnatori di fumetti. Soprattutto le sue figure femminili, tra le meglio disegnate e tra le più sensuali e ammiccanti del mondo dei comics - perfino quando sono rappresentate, come nel caso della tavola qui riprodotta, in forme semi-animali - sono divenute nel tempo dei veri e propri modelli di riferimento nel campo del fumetto e dell'illustrazione.

Non è quindi strano immaginare che se c'era qualcosa che desideravo riassaporare di quegli anni lontani, in cartaceo e in lingua italiana, erano proprio le storie e i disegni di questa bella strenna natalizia.


Dal punto di vista tecnico, The complete Russ Manningè la riedizione in lingua italiana, a cura della Cosmo Editoriale (già protagonista di altre iniziative analoghe, vedi qui il sito) dell'omonima serie della Library of American Comics pubblicata oltreoceano dalla IDW publishing.
Prevista in quattro volumi (tutti già usciti in America), la collana raccoglie l'intera produzione sindacata del Tarzan di Russ Manning, vale a dire di tutte le strisce giornaliere e tavole domenicali del personaggio apparse sui quotidiani americani nell'arco di tempo che va dalla fine del 1967 (prima striscia giornaliera) alla metà del 1979 (ultima tavola domenicale). Il primo volume include, nelle sue 280 pagine, quasi 600 strisce giornaliere (Tarzan, Jad-Ben-Otho e Tarzan e il rinnegato) e 70 tavole domenicali (Tarzan torna nella terra degli uomini formica,Tarzan e il ritorno di Dagga Ramba e Korak e le ragazze elefante), le prime pubblicate in bianco e nero e le seconde a colori, così come sono uscite dallo studio di Russ Manning e apparse in origine sui quotidiani statunitensi.
Utilizzo come esempi, per non rischiare lo sfascio del volume con le scannerizzazioni a pagina intera, due immagini prelevate dal web:


Tavola domenicale #1977 (dall'edizione americana IDW)

Strisce giornaliere #8932-8934 - Dal sito Winkbooks


Un simpatico dettaglio, su cui mi era caduto l'occhio fin da bambino, riguarda la striscia giornaliera del 2 aprile 1968, dove viene mostrata, caso più unico che raro, una donna ho-don completamente nuda dalla cintola in giù. E sa anche qualcuno, o lo stesso Manning o uno dei suoi assistenti, ha pensato più prudente metterci una pezza sopra, più o meno alla lettera, con l'applicazione di una retinatura a mutanda, l'effetto di mascheratura è di dubbia efficacia.


Chissà se lo stesso Manning non avrebbe invece preferito, come probabilmente la maggioranza dei suoi lettori, poterla vedere stampata così...



Ma torniamo adesso, dopo questa parentesi semiseria, ai dati tecnici, posso aggiungere che il volume comprende, oltre alla parte a fumetti, un'introduzione a cura di William Stout (uno degli assistenti di studio di Manning) e un articolo di Henry G. Franke III, direttore dell'associazione letteraria The Burroughs Bibliophiles.&nbspEcco alcuni stralci dall'introduzione di Stout:
Come il suo eroe Harold Foster - noto per Prince Valiant e Tarzan - Russ Manning è forse uno degli sceneggiatori più sottovalutati del fumetto. I suoi splendidi disegni sono così affascinanti che è facile capire come possano mettere in ombra i testi. Era un narratore nato, capace di raccontare le storie di Tarzan nell'Africa contemporanea tanto quanto trasportare l'Uomo Scimmia nella Pal-Ul-Don infestata dai dinosauri. Russ faceva sembrare la scrittura molto più semplice di quanto fosse.
[...]
Era un grande fan e lettore di fantascienza, ragion per cui lasciò Tarzan of the Apes per disegnare le strisce di Star Wars [nel biennio 1979-1980. Morirà l'anno successivo].
[...]
Russ era uno scrittore istintivo. Non scriveva soggetti completi, non strutturava la trama e non divideva la storia in sequenze da otto a dodici settimane. Voleva decidere strada facendo, in base al conflitto principale della storia, alle identità dell'avversario e degli altri personaggi principali, come l'eroe potesse sbaragliare il nemico e come la storia potesse concludersi. Questo metodo organico e malleabile rendeva la produzione ogni volta una novità, più divertente e molto meno simile a un lavoro.


* * *

Scheda tecnica

Titolo: Strisce Quotidiane 1967 - 1969
Editore: COSMO EDITORIALE
Collana: TARZAN THE COMPLETE R. MANNING - N° 1
Serie: COSMO BOOKS - N° 5
Pagine: 288
Prezzo: € 39,90
Data di uscita: 30/10/2015


Solve et Coagula - pagina 131

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Parte seconda - Capitolo 1 /3


Salutò l’infermiera con un’ultima richiesta: che gli fosse messo a disposizione un album da disegno e una matita a grafite o carboncino. Poi, rimasto solo, si guardò attorno in cerca della radio nominata dalla donna, ma non ne vide traccia nella stanza. A sua disposizione aveva solo il dannato libro sulla storia di Dunwich che qualcuno, chissà chi e perché, aveva sostituito all’altro che gli era stato portato il giorno prima. A meno che quell’idea della sostituzione non fosse stata davvero un parto della sua fantasia, come sosteneva la nurse, che adesso aveva scoperto chiamarsi Wilkins… un possibile postumo dell’esperienza allucinatoria che aveva vissuto in spiaggia due settimane prima. Due settimane, un tempo abbastanza lungo perché qualcuno fosse in ansia per la sua sparizione. E se, come sembrava, le autorità inglesi erano al corrente della sua identità, dovevano pure essersi messi in contatto con qualcuno all’ambasciata, che a sua volta doveva essersi data da fare a rintracciare i suoi parenti più stretti in Italia. Perché allora non si faceva ancora vivo nessuno?
Massimo non poteva rendersene conto, ma il crescente numero di domande che si poneva quel mattino altro non era che il risultato del progressivo recupero delle sue ordinarie facoltà mentali, oltre che del graduale riallineamento dei contenuti emozionali e intellettuali della sua persona, che per due interi giorni avevano vagato in ordine sparso e dissociati tra loro. In un certo senso, era come se il suo organismo si stesse riprendendo dai postumi di una gigantesca sbornia. Si sentiva del tutto pronto, e determinato, ad affrontare il medico a viso aperto stavolta, anche se avrebbe continuato a guardarsi, per il momento, dal rivelare che aveva alle spalle un corso di infermieristica ed era nelle sue intenzioni diventare presto lui stesso un collega di Miss Wilkins e dell’affascinante Paula Susi, rientrata in anticipo dalle ferie, il giorno prima, all’insaputa della collega.
Il dottore arrivò come previsto di lì a poco, armato di sfigmomanometro e fonendoscopio. Dopo una visita abbastanza accurata, concluse che era tutto nella norma.
<Vuol dire che sono finalmente pronto per un viaggetto dalle parti di Scotland Yard?> gli chiese Massimo, con un tono di voce e una scelta di parole che il suo interlocutore giudicò poco appropriati alla situazione.
<La trova davvero una prospettiva così divertente?>.
No, Massimo non la trovava in alcun modo una prospettiva divertente, bensì un’enorme scocciatura. Però gli premeva raggiungere al più presto Londra, per due motivi: primo, avrebbe compiuto una mossa di avvicinamento all’Italia, secondo, e di conseguenza, si sarebbe allontanato da Dunwich, un posto di cui voleva dimenticarsi l’esistenza il prima possibile.
<Posso farle un paio di domande, dottore, prima che se ne vada?>.
Il medico annuì.
<Come siete risaliti alla mia identità? E immagino abbiate cercato di contattare qualcuno in Italia che mi conosce?>
L’altro aveva l’aria di aspettarsi entrambe le domande e rispose senza esitazioni. <Alla sua identità è risalita la polizia, grazie all’unica macchina con targa italiana parcheggiata nei dintorni della spiaggia. E so che alcuni suoi parenti sono tenuti costantemente informati sul suo stato di salute>.
<Quindi sanno che mi sono risvegliato?>.
<Immagino di sì. Ma credo siano stati anche avvertiti della necessità di preservavi per alcuni giorni da un sovraccarico di emozioni>.
Massimo scosse la testa, incredulo. <Sovraccarico di emozioni? Cos’è, uno scherzo?>.
Il medico non rispose, ma la sua espressione grave allarmò non poco il giovane, che all’improvviso ebbe un sospetto.
<Ha a che fare con il mio amico Maurizio, vero? Il ragazzo che ha viaggiato con me…>.
Di nuovo, il medico non rispose. Rimise a posto i suoi strumenti, lo salutò consigliandogli di riposare ancora almeno fino alla sua prossima visita, nel pomeriggio, e lasciò la stanza.



Solve et Coagula - Pagina 132

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Parte seconda - Capitolo 1 /4


Massimo disegnò per varie ore di fila, come in preda a una frenesia. Lo stupì non poco constatare che a dispetto dei quasi cinque anni trascorsi dall’ultima volta che aveva tenuto una matita in mano, la sua capacità di trasferire su carta le immagini che vivevano nella sua mente era pressoché inalterata. Dopo aver disegnato una serie di ritratti femminili immaginari, quando si sentì pronto iniziò a tratteggiare il volto di Paula Susi. Rimase poi, a opera finita, a contemplarlo per un po’, cercando di valutare il livello di approssimazione con l’unica vera immagine della ragazza che aveva impressa nella mente. Fu interrotto dall'improvviso ingresso di due persone che non conosceva, accompagnate dal medico che si stava prendendo cura di lui e dalla solita miss Wilkins. Il più alto, e magro, dei due nuovi vestiva in giacca e cravatta e aveva con sé una valigetta di discrete dimensioni. Massimo lo avrebbe detto un rappresentante di prodotti ospedalieri, ma lui si qualificò come sovrintendente capo della polizia locale. Sull’identità dell’altro, un poco più basso in altezza ma di corporatura più robusta, non c'erano mai stati dubbi, dal momento che indossava un’uniforme di polizia.
Dunque era arrivato il momento della verità, si disse Massimo, anche se le cose stavano andando diversamente da come aveva suggerito Paula Susi e da come lui stesso si era immaginato: era Scotland Yard a venire da lui e non il contrario. Sempre che non fossero semplicemente venuti a prelevarlo senza preavviso.
Con sua sorpresa, il sovrintendente capo gli strinse la mano, poi si sedette su una sedia in prossimità del letto.
«Vengo subito al dunque» esordì. «Dalle analisi di laboratorio è risultato chiaro che lei, la sera dell’incidente, aveva assunto una dose di LSD. Una dose non eccessiva, per la verità, ma che sarebbe comunque sufficiente a inguaiarla. Prima di giungere però a delle conclusioni definitive voglio ascoltare la sua versione dei fatti».
Della breve inquisitoria, era stata una parola in particolare a colpire Massimo. «Quale incidente?» chiese, affrettandosi poi ad aggiungere un “Sir” in coda alla domanda.
«Quello che è costato la vita al suo compagno di viaggio» replicò l’agente con un tono di voce forzatamente neutro.
Massimo si sentì raggelare. A quanto pareva, era finito il tempo della bambagia. E se anche ebbe abbastanza autocontrollo da impedirsi qualsiasi reazione emotiva violenta - cosa che in fin dei conti, percepì oscuramente, avrebbe anche peggiorare la sua situazione - riuscì comunque a percepire con una certa chiarezza l’insorgere e l’annidarsi in lui di un acuto senso di colpa, di cui molto difficilmente sarebbe riuscito a liberarsi nello spazio di una sola vita. Non aveva ucciso lui Maurizio, d'accordo, ma aveva creato le condizioni per la sua morte, e nulla avrebbe mai potuto cambiare questo dato di fatto. Fu allora che che lo assalì all'improvviso un pensiero terribile: e se ciò di cui lo stavano accusando era proprio la morte dell’amico?
Scacciò con decisione il senso di panico e si rivolse di nuovo al suo interlocutore, sforzandosi allo stesso tempo, ma inutilmente, di decifrare le vere intenzioni soggiacenti alle sue parole.
«Ma cosa è successo esattamente?» chiese.
«Come le ho detto, sono qui per sentirlo da lei» replicò con calma l’ufficiale. «E le garantisco che avrà solo vantaggi dal dire tutta la verità».
Massimo riteneva che quella fosse solo una frase di prammatica, o un modo per meglio abbindolarlo, ma a lui comunque non passava neanche per la testa di cercare di nascondere qualcosa o di dare una versione dei fatti diversa da quel che conosceva. Lo preoccupava semmai, e non poco, la consapevolezza di avere ben poco da dire rispetto a quel che il sovrintendente avrebbe certo gradito di sentire.



I giochi del mese: Ispirazioni & Co.e Il gioco dei titoli

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Potevo starmene finalmente buono buonino per una settimana-dieci giorni, così da rispettare i patti presi tra me e me? Non sia mai… Per fortuna, almeno i due giorni di pausa dal blogging appena trascorsi a qualcosa sono serviti: ho restaurato altri tredici post del 2014 e ne ho eliminato uno che non mi sembrava aggiungere nulla al blog. In più, ed è la cosa più importante, ho ripreso la revisione del romanzo dopo cinque settimane di stasi.
Riguardo invece al presente angolo ludico, questo mese ero fortemente tentato di saltare l'appuntamento, non essendo riuscito a partorire niente di significativo (a parte un mal di testa) sulla base dell'incipit del quinto appuntamento con Insieme raccontiamo, a cui vi invito comunque a partecipare sul blog Mirtylla's House.

Altrettanto poco propenso ero, per mancanza di tempo, a seguire l'invito di Squitty dentro l'armadio e partecipare all'iniziativa di Ispirazioni & Co. che ha come parola del mese Mutazioni. Poi però, leggendo stamani l'ode al mutamento di Regina Zalieva sul suo post Dei miei pensieri mutevolmente sparsi, mi sono ricordato di un meraviglioso sonetto di Rainer Maria Rilke (il mio poeta preferito, per chi ancora non lo sapesse), che è forse la più bella cosa che io abbia letto sul tema. Ho così deciso - sperando che una partecipazione di questo tipo sia in linea con il regolamento - di proporvelo, nella traduzione di Giacomo Cacciapaglia per i tipi della Einaudi:

Sonetti a Orfeo II.12


Ama il mutamento. Ti entusiasmi la fiamma in cui ti sfugge
la cosa fervida di metamorfosi;
lo spirito ideatore che governa la Terra
nello slancio della figura nulla ama quanto la svolta.

Chi nel suo stato è fisso è ormai irrigidito;
se si crede al sicuro sotto l’ala del grigiore insensibile
da lontano una forza più dura di lui duro lo minaccia.
Ahimè - : un martello assente già s’alza per colpire!

Chi come fonte sgorga, lo fa suo la Conoscenza,
e lo guida estasiato all’opera serena
cui l’inizio è una fine, spesso, e la fine inizio.

Ogni spazio felice che percorriamo attoniti
è figlio del distacco. E, dacché si sente alloro,
Dafne mutata vuole che tu in vento ti muti.


Lo si può definire un omaggio, insieme, al grande cantore della danza dell'impermanenza Rilke e al mutamento. Mentre il mio sforzo creativo lo concentro tutto nel secondo atto di questo post dedicato, per il secondo mese consecutivo, al Gioco dei titoli. Si tratta o di modificare il titolo di un'opera in base al suo contenuto o di modificare il contenuto dell'opera in base al suo titolo. Ricordo che questo bel gioco - che a quanto pare sto continuando solo io - è nato sul post Il gioco dei titoli di Tenar del blog Inchiostro, fusa e draghi.

Questo mese vi propongo la mia riscrittura della trama di un romanzo che ultimamente ricorre spesso in queste pagine: All'ombra delle fanciulle in fiore, seconda parte della Recerche di Marcel Proust.

All'ombra delle fanciulle in fiore - sinossi

Il giovane Marcel si trova a trascorrere le vacanze estive in un albergo della località marina di Balbec, quando un giorno in spiaggia il suo sguardo cade su un gruppo di giovani ragazze, tre delle quali a stento distinguibili l'una dall'altra. Sono Carmilla, Mircalla e Marcilla, le tre gemelle Karnstein dai capelli di rame, ospiti nella residenza marittima della bella e facoltosa cugina Christabel. Da quel momento niente sarà più come prima per il giovane Marcel, che si troverà presto a dover custodire, all’ombra delle fanciulle in fiore, un orribile segreto.

Per stavolta è tutto. Mi reimmergo, ancora per alcuni giorni, nel mio restauro e nella mia revisione, senza per questo trascurare di rispondere ai vostri commenti che sono ben accetti come sempre.

* * *

Questo post partecipa all'iniziativa di #ispirazioniandco sul tema #mutazioni





L'immagine in alto sotto il titolo è: Edward Henry Potthast, Girls on the beach (1910)

The Studio Section One - Barry Smith /3

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Eccetto che nei fumetti e in altri veicoli del mito, l’idea del Tempo è notevolmente sottovaluta e fraintesa.
* * *
C'era una data di consegna per il primo capitolo di Red Nails, ma me ne ero completamente dimenticato. Quando il produttore capo della Marvel lamentò che avrei dovuto già aver consegnato le prime ventuno pagine tornai a gettarmi a capofitto nel lavoro e cercai di fare come se nulla fosse successo. Ma non riuscivo a concentrami, e, per la prima volta in sei anni di attività, fui sconfitto da una deadline. Consegnai il lavoro non terminato e le pagine 20 e 21 furono inchiostrate da qualcun altro.

Entrambe queste citazioni provengono dall'autobiografia di Barry Smith, Opus, ma mentre la prima è una considerazione di stupefacente bellezza e originalità, la seconda sembra descrivere l'equivalente di un blocco dello scrittore. Sembra, perché il suo dietro le quinte è in realtà qualcosa di molto più insolito e drammatico. Ma conviene, soprattutto qui, procedere un passo alla volta.

L'ammiratore dell'opera di Barry Windsor-Smith che si avvicinasse a Opus con l'intenzione di seguire il percorso artistico dell'artista ne uscirebbe forse non proprio a mani vuote ma quasi. Certo, avrebbe a disposizione il mare di riproduzioni di disegni e dipinti che ne tappezzano le pagine, ma il testo dell'autobiografia è riferito solo in minima parte, diciamo un 5%, a Smith disegnatore e pittore. Il resto è un ampio e dettagliato resoconto di esperienze psichiche e metafisiche di vario tipo, che vanno dalla precognizione al viaggio astrale, dalla psicometria alla visione extracorporea, il tutto inserito nella cornice  del percorso spirituale dell'autore. In particolare è il Tempo il grande tema del libro attorno a cui tutto ruota.
La luce sempre più chiarificatrice della consapevolezza mi permette di comprendere, per la prima volta, l’adagio: Il tempo è saggezza.
scrive Windsor-Smith nel primo capitolo del primo volume.


Devo confessare, a questo punto, che tra i succitati ammiratori che si erano avvicinati a Opus con l'intento di leggere la storia di Barry Windsor-Smith prima autore di fumetti, poi pittore e illustratore, e dopo ancora tutte e tre le cose insieme, c'ero anch'io. Scoprire, ad appena poche pagine dall'inizio, che mi sarei trovato a leggere tutt'altro, se da un lato mi ha spiazzato, dall'altro mi ha piacevolmente sorpreso.
Innanzitutto ho ammirato il coraggio, al limite dell'incoscienza, dell'autore. Windsor-Smith è del tutto consapevole di star parlando di cose che non saranno accolte allo stesso modo da tutti i suoi lettori: una parte , dice, desisterà già a metà dell'introduzione, mentre tra quelli che proseguiranno molti, forse la maggioranza, leggeranno tutto attraverso le lenti dell'incredulità:
Il lettore si farà di certo la propria opinione riguardo la sostanza di quel che segue, perché io non posso fare sforzi che possano dimostrare la validità delle mie esperienze. I fatti sono fatti, ma la realtà è una questione di scelte, e se l’incredulità in presenza dell’ignoto, di ciò che prima non si era mai realizzato, o di qualsiasi altra faccenda che possa sfidare la comprensione convenzionale dell’esistenza è la reazione del lettore, allora così sia. Ma lasciatemi dire questo: io sono un individuo che ha vissuto un ampio spettro di esperienze psichiche o di altro genere che trascendono la dimensione fisica.  E mentre ho un enorme rispetto per l’opera di Stephen Hawking nel campo della cosmologia e della fisica quantistica, la natura della sua disciplina è teorica, come lui per primo vi confermerebbe. Viceversa, gli eventi che sto per narrare sono esperienze di prima mano, senza dubbio non-ripetibili, proprio come le teorie di Hawking sono non-dimostrabili.

Io ho proseguito di buon grado la lettura, e ho anche cercato di farlo senza filtri. Certo, non essere di base uno scettico (ho un milione di buoni motivi per non esserlo) mi ha aiutato, senza contare che già in passato ho seguito un approccio analogo alla materia, con la serie di post su Vaughn Bodé - un articolo di dodici parti più una che considero tra i momenti più felici della mia, ormai più che biennale, esperienza di blogging.

Precisato questo, possiamo ora riprendere il filo della vicenda. Nel post precedente, prima di farmi prendere e trasportare dall’onda lunga di Red Nails, ho accennato ad alcuni dati biografici relativi al ritorno di Barry Smith negli States dall’Inghilterra, all’inizio del 1973. In particolare, Barry Smith aveva trovato al suo arrivo a New York ospitalità nella casa di un amico di nome Michael Doret, un grafico pubblicitario che divideva a sua volta lo studio con un illustratore di nome Charles White III.
E' tra le pareti dello studio pubblicitario che Barry Smith realizza le cinquantasette tavole di Red Nails e le quattro di Cimmeria, nel frattempo che trova anche il tempo di dare una mano a Charles White con il suo lavoro pubblicitario (che sebbene gli appaia quanto di più estraneo alla sua natura possa esserci, si rivelerà tuttavia in grado di fornirgli alcune prime indicazioni utili su come uscire dall'impasse) e di intrecciare una relazione sentimentale con l'assistente di studio, una ragazza di nome Carol.
Charles White è da parte sua sorpreso e ammirato dalla naturale abilità e velocità con cui il suo nuovo giovane collaboratore riesce a mettere su carta, a matita, tutto quel che vuole. Laddove White è costretto a proiettare diapositive dell'oggetto per poterne ricalcare il contorno sulla carta, Barry Smith procede a mano libera e senza incertezze. E si può dire che sia proprio questa particolare forma del talento a distinguere, più di ogni altra, l'autore di fumetti dall'illustratore o dal pittore.

In Opus, Barry Windsor-Smith attribuisce il culmine della crisi relativa a Red Nails a un'esperienza di forte intensità da lui vissuta nello stesso periodo, l'estate del 1973. Eccola qui riassunta a beneficio dei lettori:
All’inizio del mese di giugno del 1973, Barry Windsor-Smith visse due esperienze di precognizione della durata complessiva di due giorni. Le visioni precognitive originali avevano avuto luogo a Londra, nel corso di alcuni giorni di maggio del 1970.
Le due esperienze, vissute in anticipo a Londra, furono percepite all'epoca dall'autore come “sogni a occhi aperti”, e di conseguenza dimenticate. La prima aveva a che fare con una conversazione tra Charlie e Carol, che lui avrebbe incontrato per la prima volta tre anni dopo. La seconda riguardava un incidente all’incrocio tra la 26ma strada e Lexington Avenue, visto dalla finestra dello studio di Charlie.
Un terzo giorno, nel 1973, l’artista visse un’esperienza extracorporea di proporzioni impressionanti. All’interno di un contesto multidimensionale l’artista ventitreenne si confrontò con una successione di quelle che lui definì Le Infinite Onde del Tempo: onde di energia di una tenebra inimmaginabile e di proporzioni incommensurabili, che contenevano l’essenza di tutta la conoscenza e di ogni esperienza attraverso tutte le dimensioni infinite del tempo, che, sorgendo da una fonte sconosciuta, percorrono l’intero l’universo.
Windsor-Smith lottò per comprendere e venire a patti con quella che lui interpretò come una sfida; una prova del fuoco cosmica di grande importanza e significato. Ma alla fine non ebbe la tempra necessaria; le sue paure, le sue debolezze, la sua stessa umanità, minarono alla base una straordinaria avventura che avrebbe richiesto una fede nel trascendente che lui non possedeva.
Barry Windsor-Smith sottostette a questo bizzarro evento per una durata di circa sedici ore.
Ne uscì un essere umano trasformato.

Non è un caso che questa descrizione figuri qui in forma di citazione. A parlare così di sé, in terza persona, è lo stesso Barry Windsor-Smith che si cimenta, all'inizio di Opus II, in una sintesi del contenuto del primo volume dell'autobiografia.
Come si può immaginare, una simile svolta inattesa nel corso degli eventi non è senza conseguenze:
Ho sempre lavorato senza prendere in considerazione i fattori personali. Se c'era un blackout lavoravo a lume di candela. Se faceva freddo lavoravo con cappotto, cappello e guanti. Se c'era da far fronte alle date di consegna lavoravo ventiquattro ore al giorno. Posso essere davvero tosto quando mi ci metto.
Ma stavolta non era così semplice. All'improvviso nulla sembrava più essere come doveva essere. Ogni cosa e chiunque era stata come rimossa dal mio precedente senso della realtà ordinaria. Nessuno, ovviamente, era cambiato. La stranezza che percepivo era dentro di me. E non ero per nulla contento della piega presa dagli eventi.

- continua

* * *

L'immagine in alto sotto il titolo è: Barry Windor-Smith, Storyteller (1999, detail)

Le altre immagini sono tratte da The Chronicles of Conan #4 (Dark Horse Books, 2004)


Solve et Coagula - Pagina 133

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Parte seconda - Capitolo 1/5


Dopo aver terminato il racconto della sua versione dei fatti – o doveva chiamarla deposizione? - Massimo osservò il sovrintendente di polizia e il medico allontanarsi da lui e mettersi parlottare in disparte, in prossimità della finestra. Quel loro scambio di parole, pensò, stava decidendo della sua sorte e sentì rafforzarsi il suo senso di impotenza.
Si chiese poi se non lo stessero privando dei suoi diritti, a interrogarlo così senza un avvocato o un rappresentante delle autorità del suo paese d’origine; ma non osava né protestare né fare domande, neanche a proposito degli eventi che avevano portato alla morte del suo amico Maurizio, sulla cui natura continuavano a tenerlo all’oscuro. Poteva solo attendere, attendere e sperare che si decidessero a sbottonarsi. Ma la cosa che trovava di gran lunga più assurda era il desiderio che provava, anche in quel frangente così disperato, di tornare a contemplare il ritratto di Paula Susi, quasi si fosse trattato di un’icona religiosa a cui affidare le proprie speranze di salvezza. Era riuscito appena in tempo a nascondere l’album da disegno sotto le coperte, rendendosi conto solo dopo del rischio che aveva corso, di dover fornire altre spiegazioni ancora, a un gesto che probabilmente non sarebbe neanche stato in grado di spiegare.
Lo lasciarono sulle spine ancora per qualche minuto, poi l’ufficiale tirò fuori dalla sua borsa e gli allungò una copia del Suffolk News-Herald.
«Se va alla pagina della cronaca locale di Dunwich e legge il trafiletto che ho evidenziato potrà togliersi alcune curiosità».
Massimo fece come gli era stato detto e nel giro di istanti visse una vasta gamma di reazioni che andavano dal più totale sconcerto a qualcosa di simile a un moderato sollievo.
«Cos’è… uno scherzo?» fu tutto quello che riuscì a dire.
Il sovrintendente capo si accigliò. «Le sembra che abbiamo voglia di scherzare?». E fece un cenno appena percettibile con la testa verso l’agente di polizia che sostava ai piedi del letto, all’erta quasi fosse pronto a prevenire il più improbabile dei tentativi di fuga.
«Volete dire che la causa di morte di Maurizio… del mio amico, è quella scritta qui: asfissia da paralisi respiratoria per effetto di botulismo fulminante?».
«È il risultato che hanno dato gli esami autoptici» confermò il medico. «Quando siete stati trovati in spiaggia eravate vivi entrambi, ma il suo amico è sopravvissuto meno di ventiquattro ore. Lei a quanto pare è stato più fortunato. Dovete aver mangiato qualcosa di avariato nel corso del viaggio… carne o pesce in scatola».
Massimo annuì. «Ci siamo portati del tonno da casa, ma…» si interruppe, perché non osava proseguire e completare la domanda: Cosa avete intenzione di fare di me adesso?
L’ufficiale, quasi gli avesse intercettato il pensiero, gli dette subito la risposta che cercava.
«Con la sua deposizione, che farò più o meno finta di non aver sentito, considero chiuse le indagini. Da questo momento può lasciare questa stanza e, per quel che riguarda me, anche l’ospedale. Qualcuno deve proteggerla dall’alto perché il suo caso non ha trovato nessuna risonanza nazionale… si consideri fortunato anche in questo».
Detto ciò gli rivolse un rapido cenno di saluto e fece per voltarsi e allontanarsi dalla stanza.
«Il suo giornale…» disse Massimo d’impulso.
«Lo tenga pure. E ci mediti sopra… spero le sarà utile per il futuro».



Il Maestro e Margherita - un percorso per immagini /5: Magia nera e smascheramento

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Riprendere le redini di una serie come questa dopo circa un anno e mezzo di pausa, come si può ben capire, non è per niente semplice. I primi quattro post sono stati a loro modo piacevoli da realizzare ma anche faticosi, a causa della loro lunghezza e complessità di realizzazione. Rileggere i capitoli del libro di Michail Bulgakov in contemporanea alla visione dei corrispondenti spezzoni di quattro diversi adattamenti filmici, e riassumere e distillare un libro quasi impossibile da riassumere e distillare, cercando di supplire al non detto con i fermo immagine, si è rivelata una vera impresa e sono stato più volte tentato di mollare tutto. A trattenermi dal farlo sono state soprattutto due cose: la mia passione per il tema trattato e l'elevato numero di visite, che sembra testimoniare un certo interesse per un esperimento che all'inizio avevo pensato potesse interessare quasi solo me stesso.
Ma chissà se e quando mi sarei davvero deciso a riprendere questo percorso a immagini, se la nuova fase del restauro del blog (che ha coperto il periodo aprile-agosto 2014) non avesse coinvolto, tra gli altri, i primi quattro post della serie, ispirandomi a riprenderla da dove avevo interrotto. O almeno provarci.

Per i nuovi arrivati, i film da me presi in esame sono quelli della Master & Margarita Collection, a eccezione di Incident in Giudea di Paul Bryers che del libro adatta soltanto i capitoli relativi a Ponzio Pilato (da me considerati solo a cominciare dal momento in cui si intersecheranno con le altre linee narrative del libro) e dell'improponibile versione di Giovanni Brancale (2011), ambientata nella moderna Firenze. Rimangono, quindi: Il Maestro e Margherita di Aleksandar Petrovic (Italia/Yugoslavia 1972); Mistrz i Malgorzata di Maciej Wojtyszko (serie tv in quattro episodi, Polonia 1988-90); Master i Margarita di Yuri Kara (versione cinema, Russia 1994); Master i Margarita di Vladimir Bortko (serie tv in dieci episodi, Russia 2005).
Per una descrizione sommaria di ogni singoli film rimando al post introduttivo alla serie.

* * *


Capitolo 12 (La magia nera e il suo smascheramento)


Una consolidata tradizione critica rileva ne Il Maestro e Margherita l'esercizio, da parte di Bulgakov, di una pungente satira che prende di mira la vita grigia e burocratizzata dell'URRS ai tempi di Stalin. Si tratta, secondo me, di una verità, ma solo parziale e talvolta di comodo. La satira di Bulgakov è rivolta alla natura umana tout court e se prende di mira la società sovietica è perché lì si è trovato a vivere, ma sono convinto che il grande scrittore avrebbe trovato ottimi spunti nella società zarista come in un sistema capitalistico. La miglior riprova la si ha in questo dodicesimo capitolo, che ospita una delle parti più celebri e celebrate del libro: il discorso con cui Satana/Woland si fa beffa dei moscoviti in apertura della sua séance di magia nera.


1. La trama


E' finalmente arrivata la sera in cui il Variety deve ospitare l'atteso spettacolo di magia nera (con smascheramento) del mago Woland, in realtà messere Satana in incognito. Pur se preceduto da una serie di avvenimenti inspiegabili e sinistri, di lutti e di scomparse nel nulla, ogni tentativo attuato per cancellare la messinscena dello spettacolo è fallito.
Con Lichodeev finito come per magia in Crimea, e Varenucha che non dà più notizie di sé, è il findirector (direttore finanziario) del Variety, Grigorij Danilovic Rimskij, a doversi accollare l'ingrato compito di fare gli onori di casa e accogliere il mago Woland e i suoi assistenti al loro arrivo in teatro.
La celebrità in tournée colpì tutti per il frac dalle code di lunghezza mai vista e dal taglio divino, e perché si presentò con indosso una mezza maschera nera.

Strano che nessuno dei quattro adattamenti cinematografici che prendo in esame scelga di considerare il dettaglio della mezza maschera. Tutti fanno salire in scena Woland a volto scoperto.

Nota: Il film del 1972 presenta, anche in questo caso, notevoli variazioni rispetto al testo del libro. Lo spettacolo di Woland vi figura come preludio alla rappresentazione del Ponzio Pilato di Nikolaj Afanasijevic Maksudov (nome del Maestro nel film ma non nel libro). Inoltre, essendo Behemot interpretato da un comune gatto nero, al suo posto nel ruolo di assistente di Woland c'è Azazello.


2. Personaggi principali


Grigorij Danilovic Rimskij

Woland (Satana)

Behemot

Fagotto (Koroviev)

Zorz Bengalskij

Hella

Arkadij Apollonovic Semplejarov



* * *


Inizia lo spettacolo


...si presentò al pubblico un uomo ben nutrito, allegro come un bambino, con la faccia rasata, un frac gualcito e una camicia non fresca di bucato. Era il conférencier Zorz Bengalskij, conosciuto in tutta Mosca.

Jan Kociniak
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988-90)


Amayak Akopyan
Master i Margarita (Russia, 1994)


Andrey Urgant
Master i Margarita (Russia, 2005)


Nota: Nel film del 1972 è lo stesso Rimskij (Tasko Nacic) a vestire i panni del presentatore.

* * *


Il discorso di Satana


E' il celebre discorso a cui ho accennato a inizio post. Tutti i film, a eccezione della pellicola del 1972 che ne dà una versione libera, lo riportano pressoché alla lettera.
Vladimir Bortko in particolare, forte anche dei dieci episodi a sua disposizione, ne dà una resa magistrale, grazie alla sua grande capacità di mettere in risalto ed espandere, come dimostra in varie altre occasioni, il sottotesto del romanzo. Impossibile prescindere dal mostrare il risultato. Il dialogo del video è in russo, ma basta leggere prima la parte di libro corrispondente, che faccio seguire subito dopo, perché tutto sia comprensibile.



"E così, cittadini," cominciò Bengalskij con il suo sorriso puerile, "adesso si esibirà per voi..." Bengalskij si interruppe e cambiò intonazione: "Vedo che il pubblico della terza parte del programma è ancora più numeroso... oggi da noi c'è mezza città! L'altro giorno ho incontrato un amico e gli ho detto: 'Perché non fai un salto da noi? Ieri c'era mezza città'. E lui mi ha risposto: 'Io abito nell'altra mezza'". Bengalskij fece una pausa in attesa dell'esplosione di risa, ma nessuno rise e allora continuò: "Si esibirà per voi, dicevo, il celebre artista straniero, Monsieur Woland, in una séance di magia nera! Be', in realtà tutti noi sappiamo benissimo," e Bangalskij fece un sorriso da persona saggia, "che la magia nera non esiste e altro non è che superstizione. Ma il maestro Woland padroneggia in sommo grado la tecnica della prestidigitazione, come si vedrà nella parte più interessante, quella cioè dello smascheramento di tale tecnica, e poiché noi tutti, come un sol uomo, plaudiamo sia alla tecnica sia al suo smascheramento, invitiamo allora il signor Woland...!".
Declamati i suoi imbonimenti, Bengalskij congiunse le mani, un palmo contro l'altro, e in segno di saluto le agitò attraverso lo spiraglio del sipario. Il sipario allora si aprì sempre di più e le sue pieghe si raccolsero con un fruscio ai lati della scena.
L'uscita del mago con il lungo aiutante e il gatto, che avanzava sulle zampe posteriori, deliziò il pubblico.

"A me una poltrona" ordinò Woland senza alzare la voce e, in quel preciso istante, non si sa come e da dove, apparve in scena una poltrona. Il mago sedette sulla poltrona. "Dimmi, mio gentile Fagotto," chiese Woland a quel burlone a quadri, che evidentemente aveva un altro appellativo, oltre a Koroviev, "non trovi che la popolazione di Mosca sia sensibilmente cambiata?"
Il mago teneva d'occhio il pubblico ammutolito, meravigliato da quella poltrona arrivata dal nulla.
"E' proprio così, messere," rispose, non troppo forte, Fagotto/Koroviev.
"Hai ragione. I cittadini sono molto cambiati... esteriormente, intendo, e la città stessa, d'altra parte... Sull'abbigliamento, non c'è più da far commenti, ma sono comparsi quei... come si chiamano... tram, automobili..."
"Autobus" suggerì rispettosamente Fagotto.
Il pubblico ascoltava con interesse questa conversazione, pensando che fosse il preludio ai giochi di prestigio. Le quinte erano gremite di artisti e macchinisti, e in mezzo alle loro facce si vedeva la faccia pallida e tesa di Rimskij.
Bengalskij, rifugiatosi in un angolo del palcoscenico, cominciava a sentirsi a disagio. Sollevò appena un sopracciglio e, approfittando di una pausa, disse:
"L'artista straniero esprime la sua ammirazione per Mosca, sviluppatasi dal punto di vista tecnico, e per i moscoviti", e Bengalskij sorrise due volte, prima alla platea, e poi alla galleria.
"Ho forse espresso ammirazione?" chiese il mago a Fagotto.
"Per niente, messere, lei non ha espresso nessuna ammirazione."
"E allora, che cosa dice questa persona?"
"Ha mentito bellamente," dichiarò con voce sonora a tutto il teatro l'assistente a quadretti, e rivolgendosi a Bengalskij aggiunse: "Congratulazioni a lei, cittadino che ha mentito!".
Dalla galleria sprizzò una risatina, ma Bengalskij trasalì e spalancò gli occhi.
"A me naturalmente non interessano tanto gli autobus, i telefoni e tutta la..."
"Apparecchiatura!" suggerì il quadrettato.
"Molto giusto, grazie," il mago parlava lentamente con la sua voce grave di basso, "mi interessa una questione di importanza assai maggiore: questi cittadini sono cambiati interiormente?"
"Sì, è la questione più importante, mio signore."
Tra le quinte, le persone cominciarono a scambiarsi occhiate e a stringersi nelle spalle, Bengalskij era rosso, Rimskij pallido.
Come se avesse indovinato l'inquietudine nascente, il mago disse:
"Ci siamo persi in chiacchiere, mio caro Fagotto, e il pubblico comincia ad annoiarsi. Mostraci, per cominciare, qualcosa che sia semplice e comune".
Il pubblico in sala ebbe un moto di sollievo.

L'ennesima prova della grandezza di Bulgakov si ha nel suo lasciar sfumare il dialogo senza risolverne completamente la tesi, così da creare una sorta di riverbero che dalle pagine del libro sembra espandersi fin dentro la psiche del lettore.

* * *


Avidità


Dopo un numero di riscaldamento, a cura di Koroviev/Fagotto e Behemot, che coinvolge un mazzo di carte - e, loro malgrado, alcuni spettatori - si passa a esaudire i desideri del pubblico.
Koroviev spara un colpo di pistola verso l'alto e una pioggia di denaro scende sul pubblico provocando un immaginabile parapiglia.


Il numero di riscaldamento con le carte da gioco
Master i Margarita (Russia, 2005)


Koroviev spara un colpo di pistola verso il soffitto del teatro...
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)


...e una pioggia di denaro cade dall'alto...
Master i Margarita (Russia, 1994)


...diffondendo tra il pubblico l'atteso parapiglia.
Master i Margarita (Russia, 2005)

* * *


La decapitazione di Bengalskij e la "compassione" del diavolo


Il conférencier Bengalskij continua, nel frattempo, a fare commenti inopportuni sulla séance e cerca di smascherare la pioggia di soldi come un'esibizione di ipnosi collettiva. Koroviev/Fagotto decide di porvi rimedio. Chiede al pubblico un suggerimento e qualcuno urla di strappargli la testa. Detto fatto! Behemot salta sul conférencier e in quattro e quattr'otto gli stacca la testa dal collo.


Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)


 Master i Margarita (Russia, 1994)


Master i Margarita (Russia, 2005)


Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia 1972)


Master i Margarita (Russia, 1994)


Master i Margarita (Russia, 2005)


Nota: Nel film del 1972 è Woland ad agire, a distanza, su Rimskij.


A questo punto, il pubblico disorientato invoca il perdono per il conférencier e il mago Woland decide di esaudire la richiesta. Bulgakov, da par suo, ci elargisce così l'ennesima perla.
"Quali sono i suoi ordini, messere?" chiese Fagotto al volto mascherato.
"Ebbene" il mago rispose pensierosamente, "sono uomini come tutti gli altri uomini. Amano il denaro, ma è sempre stato così... L'umanità ama il denaro, di qualunque cosa sia fatto, di pelle, di carta, di bronzo o d'oro. Sì, gli esseri umani hanno pensieri irresponsabili... Che fare?... Del resto, anche la misericordia qualche volta bussa al loro cuore... Persone comuni... Ricordano quelli di prima... solo che la questione degli alloggi li ha rovinati..." e, con voce sonora, ordinò:
"Rimettete la testa".
Il gatto, presa accuratissimamente la mira, calcò la testa sul collo di Bengalskij e la testa tornò esattamente al suo posto, come se non si fosse mai allontanata. Dettaglio importante: sul collo non rimasero cicatrici. Il gatto spazzolò con le zampe il frac e il plastron del conférencier, e le macchie di sangue scomparvero. Fagotto rimise in piedi Bengalskij, gli ficcò nella tasca del frac un mazzetto di biglietti da dieci rubli e lo accompagnò fuori dalla scena con queste parole:
"Vada via! Senza di lei ci si diverte di più".

Si tratta comunque di una soluzione a metà, perché il conférencier continua a cercare altrove da sé la sua testa con la conseguenza di seguire il destino di molti dei personaggi del libro: essere prelevato e trasportato in un ospedale psichiatrico.


Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia 1972)


Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)


Unico tra i quattro, e in discordanza con il libro,
nell'adattamento di Yuri Kara il diavolo è spesso ilare.
Master i Margarita (Russia, 1994)


Master i Margarita (Russia, 2005)


Nota: Nella versione televisiva polacca del 1988 è Fagotto a ricollocare la testa sul collo di Bengalskij.

* * *


Vanità


Mentre il pubblico è distratto, Woland si dilegua magicamente dalla scena. Subito dopo Koroviev/Fagotto annuncia l'apertura, tra le quinte del palcoscenico, di un negozio per signore. A fare gli onori di casa, la bella e sensuale Hella.
Una ragazza con i capelli rossi e un vestito da sera nero, che poteva dirsi bella, se non l'avesse sfigurata una bizzarra cicatrice sul collo, cominciò a sorridere in piedi tra le vetrine con un sorriso da padrona di casa. Solo il diavolo sapeva da dove fosse arrivata.
Fagotto, con risatine tenere, annunciò che la ditta effettuava gratuitamente lo scambio di vecchi abiti e scarpe da signora con scarpe e modelli parigini. Lo stesso valeva per le borsette, i profumi e il resto.

Incitato da Fagotto, il pubblico femminile vince l'iniziale timidezza e comincia a sciamare sul palco e tra le vetrine.

Nota: Mancando la figura di Hella, nel film del 1972 il ruolo di padrona di casa viene affidato a Margherita, tant'è che il negozio è denominato Negozio Margherita. Inoltre i vestiti, nonostante le vetrine siano mostrate chiaramente sul palcoscenico, per qualche oscuro motivo piovono dall'alto.


Il "Negozio Margherita"...

...e la sua proprietaria: Margherita.
Maddai...!

Nel film del 1972 sono i vestiti, e non i rubli,
 a cadere a pioggia dal soffitto del teatro.
Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia 1972)



L'allestimento del negozio (sopra) e Hella (sotto)
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)



L'allestimento del negozio (sopra) e Hella (sotto)
Master i Margarita (Russia, 1994)



L'allestimento del negozio (sopra) e Hella (sotto)
Master i Margarita (Russia, 2005)

* * *


Smascheramento e... svestimento


Lo spettacolo è al suo finale e qualcuno dalla platea richiede che si proceda senza indugi al previsto smascheramento dei trucchi.
La voce baritonale apparteneva nientemeno che all'ospite d'onore di quella serata, Arkadij Apollonovic Semplejarov, presidente della commissione acustica dei teatri di Mosca.
Arkadij Apollonovic si trovava nel palco con due signore: una anziana, vestita costosamente e alla moda, e l'altra, giovane e bellina, vestita con maggior semplicità. La prima, come si chiarì ben presto durante la stesura del verbale, era la moglie di Arkadij Apollonovic; la seconda era una sua lontana parente, attrice ancora agli inizi ma promettente, che era arrivata da Saratov e viveva nell'appartamento di Arkadij Apollonovic e della moglie.
"Pardon!" replicò Fagotto, "mi dispiace, ma qui non c'è niente da smascherare, è tutto chiaro."
"Eh no, è a me che dispiace! Lo smascheramento è assolutamente necessario. Altrimenti i suoi folgoranti numeri lasceranno un'impressione penosa. La massa spettatrice pretende una spiegazione."
"La massa spettatrice?" l'impudente buffone interruppe Semplejarov. "Non mi pare che abbia fatto dichiarazioni, o mi sbaglio? In considerazione, però, del suo desiderio che profondamente rispettiamo, Arkadij Apollonovic, io, se è quel che si vuole procederò a uno smascheramento. Ma perché questo sia possibile, lei mi deve consentire un altro minuscolo numero."
Perché no, rispose Arkadij Apollonovic in tono condiscendente. "Ma che sia con lo smascheramento!"
"Va bene, va bene. Allora mi permetta di domandarle: dove si trovava ieri sera, Arkadij Apollonovic?"
A questa domanda inappropriata, addirittura da persona rozza, il viso di Arkadij Apollonovic Semplejarov cambiò, e cambiò molto violentemente.

Si capisce bene che Semplejarov la sera prima non era alla riunione della commissione acustica, come aveva raccontato alla moglie. Bensì aveva trascorso quattro ore con un'attricetta itinerante, che per questo aveva ottenuto una parte in un dramma di Schiller al posto della lontana parente. Le conseguenze sul posto dello "smascheramento" sono facilmente intuibili.


Józef Fryźlewicz
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988-90)


Valentin Smirnitskiy e Tatyana Tkach
Master i Margarita (Russia, 2005)


Note: 1) Nel film del 1972, Semplejarov è sostituito da tal Harimann (?); 2) nella versione da due ore di Yuri Kara del 1994 l'episodio è assente; 3) la versione di Bortko non prevede la presenza della lontana parente, ma solo quella di Semplejarov e consorte.


Di lì a breve ha luogo un secondo "smascheramento", che consiste nella sparizione, all'uscita del teatro, dei vestiti e degli altri accessori prelevati dalla magica boutique per signore.


Nel film del 1972 anche gli uomini sono coinvolti nello "svestimento".
Ma non era una boutique per signore?

Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia 1972)


La produzione televisiva polacca opta per la versione ultrasoft.
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)



Master i Margarita (Russia, 1994)



Master i Margarita (Russia, 2005)


E adesso lo spettacolo è davvero finito... per ora


* * *


3. A che punto siamo


Questi cinque indicatori segnano l'avanzamento, film per film, del percorso per immagini rispetto al testo del romanzo.

1. Il libro

2. Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia, 1972)


3. Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)


4. Master i Margarita (Russia, 1994)


5. Master i Margarita (Russia, 2005)



Note: 1) Nel film del 1972, che Petrovic fa iniziare con l'incontro tra Maestro e Margherita, la séance di magia nera si trova in prossimità del finale; 2) entrambi i due film russi inseriscono parte dei capitoli fino al sedicesimo tra una fase e l'altra dello spettacolo di Woland.


* * *


References


Il testo di Maestro e Margherita consultato per la stesura di questo post è l'edizione Feltrinelli del 2011. Traduzione e cura di Margherita Crepax (con mia semplificazione dei nomi russi).

Solve et Coagula - Pagina 134

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Parte seconda - Capitolo 1 /6


«Potrei salutare la signorina Susi prima di andarmene?».
Miss Wilkins lo guardò stupefatta.
«Sa che lei è proprio un bel tipo? Le ho detto appena ieri che la signorina è in ferie. E all’estero… in crociera nel Mediterraneo o qualcosa del genere. Beata lei, potrei dire, se a me interessasse qualcosa di viaggiare” concluse scrollando le spalle.
«Ma io l’ho vista. Mi ha assistito per un intero pomeriggio, appena due giorni fa» replicò Massimo con forza.
«Si è sognato tutto. Lo dice anche il dottore…».
«Cioè? Che cosa dice anche il dottore?».
«Che le ci vorrà ancora un po’ di tempo per tornare a separare bene il sogno dalla realtà».
«Separare il sogno dalla realtà, eh? E questo come lo spiega» e le allungò il blocco da disegno con il suo ritratto di Paula Susi.
«Lo ha fatto lei?» esclamò la donna. «E’ davvero bravo e mi spiace doverla deludere, ma questa non è per niente Paula Susi».
«Allora deve essere un’altra delle infermiere. Io l'ho vista!» protestò Massimo, nel frattempo che miss Wilkins continuava a studiare il disegno, assumendo un’aria sempre più perplessa.
«Cioè» aggiunse la donna dopo una breve riflessione, «è vero che la bocca e il naso potrebbero essere i suoi, e, perché no,  anche gli occhi… ma ammetterà che la forma del viso è molto strana. Poco umana, mi viene da dire».
Quelle due parole, “poco umana”, risvegliarono in Massimo la sensazione esatta che aveva provato nel momento in cui aveva visto dal vivo Paula Susi. Aveva subito notato qualcosa di insolito in lei, ma senza poi riuscire a definire a livello intellettuale in cosa potesse esattamente consistere quell’insolito. Sembrava tuttavia esserci riuscito a livello intuitivo, attraverso il disegno, come dimostrava la reazione di miss Wilkins e come lui stesso si rendeva adesso conto.
Rimaneva in ogni caso da stabilire cosa ci fosse davvero all'origine del disegno, dal momento che, poco ma sicuro, lui non aveva mai avuto nulla a che fare in vita sua con miss Susi. A meno che…
«Quando sono stato trasportato qui da Dunwich, Paula Susi era ancora in servizio?» chiese ansioso all'infermiera.
Miss Wilkins lo guardò, e subito fu evidente a Massimo, dal percettibile sollievo che vide affiorare nei suoi occhi, che era a sua volta soddisfatta di quell’intuizione del suo assistito.
«Ma certo» esclamò. «Ricordo benissimo che era dall’altro lato della barella, mentre la stavamo trasportando nella sala di rianimazione. Credo sia andata in ferie il giorno successivo. Così si spiega tutto: una parte di lei doveva essere ancora cosciente di quello che aveva intorno, prima che la facessero entrare nel coma farmacologico».
Massimo annuì pensieroso. «Deve essere andata proprio così. Ma…» fece una breve pausa prima di continuare, chiedendosi se non si stesse spingendo troppo oltre. «Sa dirmi quando è previsto che miss Susi rientri in servizio?».
La nurse scosse di nuovo la testa e Massimo pensò che stesse per ripetergli la frase con cui lo aveva blandamente rimproverato solo pochi minuti prima… Ma lo sa che lei è proprio un bel tipo?
Gli disse invece altro. «Ma perché non si mette l’anima in pace e si lascia dietro le spalle tutta questa brutta storia? Anzi, fossi in lei io di quella specie di ritratto farei tanti pezzettini».




The Studio Section One - Barry Smith /4

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Il protagonista di Cimmeriaè, al netto di ogni mio intento e proposito, la mia versione di Conan. Ma non era questo il mio piano originario. Ho permesso che il culto dello stile cancellasse un’altra, più peculiare, visione che avevo in mente all’inizio. Avevo solo 23 anni allora, e tuttavia avevo già sviluppato una tale quantità di manierismi grafici che la mente dei lettori identificava con il “Conan di Barry Smith”, da sentirmi affondare sotto il loro peso. Cominciavo a considerare delle nuove possibilità che non potevano concretizzarsi entro i confini del mio stile di disegnatore di fumetti. Ma avrei dovuto lottare ancora molti anni prima di poter liberare me stesso da me stesso.

Culto dello stile... manierismi grafici, scrive Barry Smith. Voglio approfittarne per aprire una parentesi nel percorso biografico del nostro e dare una risposta a una domanda implicita nel primo di questa serie di post. Forse ricorderete che avevo scritto che il mio acquisto, nell'estate 1974, nel numero 33 de Gli albi dei supereroi con la storia di Conan La notte dei giganti, aveva rappresentato una svolta nel mio modo di guardare ai fumetti. Avevo percepito, in quello stile di disegno così inusuale, qualcosa di "altro" ma ancora indefinito. Solo sette o forse otto anni dopo avrei capito in cosa consistesse esattamente quel qualcosa.

La notte dei giganti, apparsa in America nel numero 16 di Conan the Barbarian con il titolo The Frost Giant's Daughter, rappresentava non solo una chiara svolta - una delle molte della sua carriera artistica - nello stile di Smith, ma era anche la prima storia in cui lui si era disegnato da solo i titoli, stanco di vedere stampati sui suoi disegni i caratteri standard da fumetto utilizzati dai grafici Marvel (se ancora non fosse trapelato, Barry Smith nel suo lavoro è un perfezionista attento a ogni dettaglio).
Quello che lui chiama anche "l'armamentario di manierismi" caratteristico dei suoi disegni di quel periodo comprende, tra gli altri elementi, la tendenza a disegnare nasi lunghi e affilati, bocche grandi e labbra carnose, in aderenza a un modello chiaramente definito - uno stile, appunto - di cui avrei individuato, sette-otto anni dopo, l'ascendenza nel circolo di artisti della PreRaphaelite Brotherhood, che Barry Smith annovera tra le sue principali influenze. I due nomi da lui più citati sono Lord Frederic Leighton e Dante Gabriel Rossetti, che, in compagnia di Jack Kirby, vanno a costituire una sorta di bizzarra trinità delle sue influenze artistiche.



La tendenza si accentua ulteriormente in Red Nails, e ancor di più nel periodo successivo al distacco "definitivo" di Barry Smith dal mondo del fumetto. Tanto che cinque anni dopo un certo J.S. scriverà di lui, nel corso di un'intervista agli artisti di The Studio:
Quando allo Studio si parla di arte e, per caso o intenzionalmente, emerge il nome di Gabriel Rossetti, gli occhi di Barry si illuminano e subito si apre una nuova arena di dibattito. E' quasi come se lui scegliesse l'arte - e non solo l'arte, ma anche il carattere e la personalità - di Rossetti per spiegare se stesso a chi non lo comprende.

E ancora anni dopo, tornato nel mondo del fumetto, Smith progetta di realizzare con l'autore di Sandman, Neil Gaiman, una storia a fumetti con protagonisti proprio Rossetti, sua moglie Elizabeth (anche lei poetessa e pittrice) e "il più carnale dei poeti della 'scuola di poesia della carne', Charles Algernon Swindburne".


Lord Frederic Leighton, The Maid with the Golden Hair

Lord Frederic Leighton, Winding the Skein (1878 ca, detail)

Dante Gabriel Rossetti, La pia de' Tolomei

* * *


Ancora a proposito di Cimmeria, Barry Smith scrive in Opus 2:


Disegnai [per l'adattamento della poesia di Robert E. Howard] una cornice di tralci fittamente annodati dove inserire le immagini che abbinavo al poema. L’involuta, tenebrosa massa di dettagli della cornice diceva più cose sullo stato della mia mente di quanto poteva fare un semplice motivo decorativo. Anche la storia rifletteva le mie dissonanze emozionali.
[…]
Riversai tutta la mia disperazione nella furiosa lotta per la vita o la morte con il lupo. Non avevo mai disegnato prima con così tanta passione.

Nel frattempo, nella stessa estate del 1973 in cui Barry Smith si dibatte tra esperienze per lui ancora incomprensibili e la deadline di Red Nails, l’illustratore Charles White, che lo ospita nel suo studio di New York, decide di prendersi un periodo di ferie. Prima di partire, assegna al suo giovane, occasionale collaboratore l’incarico di sostituirlo in un lavoro commissionato da una rivista, un’illustrazione ispirata alla Creazione di Adamo della Cappella Sistina. Dio e Adamo devono essere sostituiti dal loro equivalente femminile e l’illustrazione intitolarsi The Creation of Eve. L’idea, al ventitreenne disegnatore di fumetti, non piace neanche un po', ma accetta ugualmente l’incarico, più che altro come un modo per distrarsi “dalle oscure nubi cosmiche” che sente incombere su di sé. Il risultato finale è però talmente disastroso che Charles White, al suo ritorno dalle ferie, pretende indietro da lui le chiavi dello studio.

Bozzetto preliminare per The Creation of Eve

Da quel giorno, dovette trascorrere più o meno un anno prima che Barry Smith traesse le dovute conclusioni, non solo da quel singolo episodio, ma da tutta la sua esperienza di co-autore di Conan the Barbarian: gli era impossibile adattarsi alla visione creativa di qualcun altro, chiunque fosse, R.E. Howard o Michelangelo Buonarroti.
In quanto agli illustratori commerciali, mantiene da allora un giudizio impietoso su di loro:
Usano il cervello, le loro mani e il loro talento per svolgere un servizio. Possono avere un’abilità e una tecnica ammirevoli, ma di regola [nel loro lavoro] non c’è nessun vero coinvolgimento personale.

Con la fine della sua relazione con Carol a completare il quadro, Barry Smith si scopre ancora una volta uno straniero in America. Sente nostalgia dei suoi amici inglesi e della sua vita ordinaria a Londra che al confronto gli appare semplice e lineare.
Solo verso la fine del 1973 comincia a recuperare e a sentirsi di nuovo quello di prima. Le esperienze fuori dell’ordinario vissute nel corso dell’estate cominciano ad apparirgli lontane e indistinte, sempre più simili a un brutto sogno. Riesce perfino a rispettare la deadline finale di Red Nails e a iniziare una nuova relazione sentimentale, con Linda Lessman, che l'anno successivo diverrà sua assistente di studio.
Ma è una tregua destinata a durare poco. L'anno si chiude per lui con altre due esperienze paranormali. Della prima tenta anche di fare una descrizione alla sua compagna Linda. Ecco cosa scrive un quarto di secolo dopo, in Opus 2, a proposito di quel tentativo:
Conclusi dicendo: "Ci vorranno almeno vent'anni prima che io riesca a ricavare un minimo di senso da tutto questo". Vent'anni era così per dire, ma, a conti fatti, mi ero sbagliato solo di un anno.

* * *

L'immagine in alto sotto il titolo è: Barry Windsor-Smith, A Dream of Olden Days (1980, detail)


Solve et Coagula - Pagina 135

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Parte II - Capitolo 1 /7



Per fortuna nel Suffolk occidentale stava piovendo solo occasionalmente in quel finale di estate del 1985, e la temperatura era ancora abbastanza elevata da star bene all'aperto, constatò Massimo, senza avere nessuna idea se andasse considerata la norma o l’eccezione. Stava passeggiando da solo per le vie di St. Edmund’s Bury nel tentativo di schiarirsi le idee e fare il punto della situazione, e ripensava, tra le altre cose, alle parole con cui lo avevano congedato dall’ospedale. In particolare, il medico che si era occupato di lui gli aveva detto che avrebbe dovuto aspettarsi dei ritorni nei mesi successivi, intendendo con questo dei flashback della sua esperienza allucinogena. Inoltre, aveva continuato con una certa preoccupazione, il suo risveglio dal coma era stato dolce, senza traumi, il che non era un’eventualità così positiva come si poteva supporre, bensì l'indizio di una sua probabile tendenza a cadere, in futuro, in stati depressivi. E anche se nessuna delle due ipotesi avrebbe dovuto rassicurarlo, Massimo avrebbe senz'altro preferito che almeno la prima – quella dei flashback – si realizzasse, piuttosto che trovarsi costretto a convivere, forse per il resto della sua vita, con un buco nero di alcune ore a cui andavano inoltre aggiunti gli undici giorni di incoscienza trascorsi in ospedale.
Era se non altro tornato in possesso di quasi tutti i beni materiali che si era portato dall'Italia, compreso lo stradario dell'Inghilterra sud-orientale. Il che lo portò anche a chiedersi perché lo avessero ricoverato a St. Edmunds e non a Ipswich, che aveva l’aria di essere molto più facilmente raggiungibile da Dunwich. Certo, le ragioni potevano essere le più disparate – dalla disponibilità dei posti letto a un tratto di strada chiuso - e in fin dei conti, concluse, non era così importante per lui saperlo.
"Quasi tutti i beni" significava comunque che a qualcosa aveva dovuto rinunciare: la sua vecchia auto. Per tutto quel tempo l'avevano custodita in città, in un garage della polizia, e quella mattina stessa aveva dato l’assenso scritto alla sua demolizione, dopo aver constatato che l’esame approfondito della scientifica, alla ricerca di droga e altro – armi, forse – ne aveva lasciato ben poco di intatto. La morale era che anche la sua "famosa" Prinz celestina si era infine rivelata solo di passaggio nella sua vita, proprio come era stato, ben più tragicamente, per il suo amico Maurizio. La prima cosa che avrebbe fatto al suo ritorno in Italia, pensò, sarebbe stato proprio di deporre un gigantesco mazzo di fiori sulla sua tomba. Stando però bene attento a non incrociare i genitori di lui, che anche se impossibilitati ad attribuirgli una qualsiasi responsabilità oggettiva per la morte del figlio, certo gliene attribuivano una morale. Era stata sua l’idea del viaggio e tutto quel che ne era seguito poteva solo essere la conseguenza diretta di quell’idea. Elementare e matematico.
Ma indovinate un po’ chi ha avuto l’idea di comprare l’acido? avrebbe proprio voluto chiedergli. A loro, che andavano a messa tutte le domeniche e tenevano la foto-ritratto del papa in carica appesa alla parete sopra la porta della cucina.
Se non altro, crogiolarsi in questa idea lo faceva sentire dentro di sé un po’ meno bastardo per la questione del “sequestro” dei soldi. Lui e Maurizio avevano deciso, al momento di mettersi in viaggio, di fare “cassa comune”, e il risultato era che Massimo disponeva di più soldi lì in Inghilterra che prima della partenza. Non sapeva se i genitori del suo defunto amico avrebbero o no avanzato delle pretese in tal senso al suo ritorno in Italia, ma se anche fosse andata così ci avrebbe pensato allora. Era in ogni caso sempre più intenzionato a posticipare il rientro di alcune settimane, nella speranza di trovare all'arrivo le acque un poco più calme.
Passare il tempo non sarebbe stato un grosso problema per lui. Era vero che non si sentiva per nulla stimolato a fare il turista, ma avrebbe potuto leggere libri in biblioteca, e, soprattutto, mettersi sulle tracce di Paula Susi, alla ricerca di un modo per contattarla in prima persona. Se la Wilkins non gli aveva mentito, la giovane donna doveva rientrare in servizio in ospedale quel fine settimana, cioè nel giro di tre-quattro giorni. Forse  aveva anche già fatto ritorno in Inghilterra a quell'ora, ma certo lui non aveva osato spingersi tanto in là da chiedere alla nurse di fornirgli l’indirizzo di casa della sua potenziale “preda”.



Bordeaux, 7 rue des Faussets, 1936

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Capita talvolta di imbattersi, all'apparenza per caso, in vite così sopra le righe da sembrare partorite dalla penna di uno scrittore dalla fantasia più esuberante della media. Quella del fotografo, pittore e "creatore di oggetti" francese Pierre Molinierè senza dubbio una vita di questo tipo. «Notre mission sur terre est de transformer le monde en un immense bordel» proclamava come sintesi del suo manifesto. «Ce fut un homme sans moralité, il s'en fit gloire et honneur. Inutile de prier pour lui» scrisse nel 1950, sulla croce che decorava la sua sepoltura, al culmine di una messinscena anticipata della propria morte.

A dire il vero non è neanche la prima volta in assoluto che mi occupo di lui in questo blog, sebbene in passato lo abbia fatto solo di sfuggita, all'interno del secondo post sul cinema della Storia dell'occhio. Mentre l'origine del mio interesse per le sue opere e la storia della sua vita risale a molto tempo fa: alla lettura, nel 1979, di un articolo* che gli aveva dedicato il mensile di fotografia Photo, che in quel periodo acquistavo regolarmente in edicola. Molinier era morto da tre anni. E per non andarsene con una morte dall'effetto minore della vita che aveva vissuto, quando giudicò che il suo corpo fosse ormai un abito troppo logoro per essere portato più a lungo, si sparò, come già prima di lui suo padre, un colpo di pistola in bocca. Lo fece mentre si guardava allo specchio, e, forse, anche mentre si masturbava. Aveva 76 anni e sulla porta del suo appartamento di Bordeaux, al 7 di rue des Faussets, che abitava dal 1931, aveva lasciato un biglietto con su scritto l'ora della morte e la richiesta di rivolgersi al suo avvocato per le chiavi dell'appartamento. Una seconda nota, accanto al suo cadavere, inveiva invece contro tutti quei bastardi che gli avevano reso l'esistenza difficile. Nelle stanze di quell'appartamento era andata in scena, per circa quarant'anni, la parte più fantastica di una vita incredibile.


Foto dal sito Strange Flowers


Figlio di un imbianchino e decoratore di interni e di una sarta, Pierre Molinier nasce ad Agen il 13 aprile 1900 (Di venerdì santo, per fare un dispetto a Dio, dirà in seguito) e studia presso una scuola cattolica del posto (anche se lui preferirà dire di avere studiato "dai gesuiti"). Nel 1913, al termine della scuola, iniziò a lavorare con il padre, frequentando allo stesso tempo un corso serale di disegno. Ma si appassionò molto presto anche alla fotografia.
Tra gli avvenimenti che caratterizzarono la sua giovinezza, uno risalta più di ogni altro, ed è il tragico epilogo della relazione incestuosa che intratteneva con la sorella minore. La ragazza morì in giovanissima età e proprio a questa circostanza risale un episodio di dubbia veridicità, ma che, reale o immaginario che sia, sembra racchiudere in sé tutta la cifra dell'esistenza successiva di Pierre Molinier. Come raccontò anni dopo, approfittò dell'occasione di essere rimasto solo con la sorella morta allo scopo di scattarle delle fotografie, per carezzarle le gambe, masturbarsi ed eiaculare sulla veste della prima comunione che lei indossava in quel momento. «Portò con sé nella morte il meglio di me» è la sua chiosa finale all'aneddoto.
Ma l'evento è anche l'inizio, per Pierre Molinier, del perseguimento ostinato, lungo un'intera vita, dell'androginia - apparente tentativo estremo di fusione e ri-creazione della sorella come parte di sé. Le sue stesse, belle, gambe ricordano a Molinier quelle bellissime e amate della sorella, e sono quindi degne di diventare a loro volta un oggetto culto e le attrici principali di un gran numero dei suoi autoritratti in veste androgina.

Foto dal sito sang bleu magazine


Dopo questo episodio, Pierre Molinier inaugura la sua attività di imbianchino in proprio e si trasferisce a Bordeaux, dove, nel 1927, presenta una serie di suoi dipinti, paesaggi e ritratti di influenza impressionista o in stile Fauve, all'esposizione annuale del Salon della Société des artistes indépendants bordelais, da lui stesso fondata insieme ad altri pittori. Vi esporrà regolarmente fino al 1951, anno in cui dà scandalo partecipando con una tela coperta da un velo nero. Chiunque decida di sollevare il panno e scrutare quel che vi è nascosto dietro, si trova contemplare un'opera di difficile decifrazione intitolata Le grand combat


Sono corpi che fanno l'amore, spiega Molinier, che aggiunge di aver mescolato ai colori della pittura delle gocce del suo sperma. 
Lo scandalo si ripete dieci anni dopo, all'Esposizione internazionale del Surrealismo di Milano del 1961. Molinier era stato accolto, da alcuni anni, nelle fila del movimento guidato da André Breton, suo grande estimatore, che aveva anche scritto, nel 1956, la prefazione al primo catalogo delle sue opere. 
L'opera esposta a Milano è Les dames au pistolet, ma nelle intenzioni originali di Molinier avrebbe dovuto essere un'altra, Oh Marie, mère de Dieu. Giudicata però eccessiva perfino in base ai canoni del Surrealismo, quest'ultima era stata respinta da Breton. «Vorrà dire che la invierò al papa" gli aveva replicato secco Molinier «così farà compagnia all'Inferno di Michelangelo in Vaticano!». L'episodio segna anche la rottura definitiva tra l'artista, che aveva comunque sempre mantenuto una notevole indipendenza di intenti, e il movimento surrealista. 

Oh Marie, mère de Dieu (vers. 1965)


Ma è adesso arrivato il momento, dopo questa serie di rapide pennellate appena sufficienti ad affrescare la sintesi di una porzione della vita dell'artista, di presentare l'avvenimento che permette a questo post di candidarsi a un posto nell'evento Ispirazioni & Co. di questo mese che ha come tema la parola Mandala.




L'avvenimento in questione risale, secondo il racconto dello stesso Pierre Molinier, al 1936, ed è per certi versi più incredibile di quelli che ho descritto finora.
Quell'anno bussano alla porta del suo appartamento di rue de Fassets due monaci tibetani residenti a Parigi, che gli avanzano la strana richiesta di dedicarsi, da quel momento in poi, al mandala erotico. Ma doveva farlo in segreto, aggiunsero, e motivarono la loro richiesta con il fatto che lui, Molinier, era nato in un particolare giorno del 1900 che lo rendeva il prescelto per quell'incarico.
Ma chi erano i "mandanti" di una simile richiesta? Trinley Gyatso, XIII Dalai Lama, era morto da tre anni e il suo successore, l'attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso, era nato soltanto l'anno prima, nel 1935. E perché il controverso artista francese avrebbe dovuto essere coinvolto dalle autorità religiose tibetane nella loro missione in Europa? Perché assegnargli il preciso compito di creare mandala erotici?
Se l'episodio è reale come sembra essere, e non un semplice frammento di autobiografia fantastica utilizzato dall'autore per spiegare la svolta "esoterica" che la sua arte subirà di lì a poco, ci troviamo davanti a un episodio che può essere visto, a seconda delle inclinazioni personali, come di grande fascino o fortemente inquietante, soprattutto se collocato sullo sfondo della realtà europea del periodo. Quel che è certo è che Molinier si iscrisse in seguito alla Framassoneria e che le sue opere dopo il 1940 pullulano di simboli massonici. 

Concludo il post con una brevissima rassegna di immagini in tema con l'evento. Come ho accennato sopra, ci sarebbe molto altro da dire - nel bene e nel male - su questo misterioso, e a suo modo grande, artista. E chissà che in futuro io non torni ancora a occuparmi di lui. Chissà.


Sur le pavois (Chaman n° 26, c. 1968)


Le chaman et ses créatures (1970)


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* Martin, Jean-Hubert, Pierre Molinier: travestissements d’un surréaliste maudit in PHOTO n° 145 (Janvier 1979, pp. 56-130-132-140).

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Con questo post ho partecipato al XIV evento di #ispirazioniandco #mandala


Insieme raccontiamo 6: Il mandala e Il gioco dei titoli: Il lupo della steppa

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1. Insieme raccontiamo 6


Dopo la pausa del mese scorso, lo spazio giochi del blog torna a ospitare Insieme raccontiamo, l'iniziativa mensile del blog Myrtilla's House. Si tratta, per chi non lo sapesse ancora, di completare l'incipit proposto da Patricia Moll con un seguito di 200/300 caratteri o 200/300 parole. E poiché stavolta l'evento è in cross-over, l'incipit è dedicato al mandala, parola del mese del gioco di Ispirazioni & Co. Cliccando sul testo in arancione avrete la possibilità di raggiungere la Raccolta generale di Ispirazioni & Co. e vedere tutti i post che hanno aderito all'iniziativa #mandala, incluso il mio.



L'incipit di Patricia

Il corpo nudo della donna disteso sul fianco aveva un che di virginale. Una tela intonsa pareva. Invitava a... ma come l'avrebbe presa lui? Offendersi? Adirarsi?
Prese il suo pennello più fine e le si avvicinò. Con dolcezza cominciò dal centro della schiena. Un mandala. Avrebbe disegnato un mandala.


Il mio seguito (300 caratteri)

Poi, a fine del minuzioso lavoro, si chiese se non dovesse subito rimediare con uno strato di rosa o godersi invece la faccia del suo cliente. Certo la Venere allo specchio di Velàzquez non era mai stata così variopinta. Ma anche un copista ha il suo bel diritto, ogni tanto, a cedere all’ispirazione.


* * *


2. Il gioco dei titoli 4


In più, un nuovo appuntamento con Il gioco dei titoli, che ricordo esser nato in origine sul blog di Tenar Inchiostro, fusa e draghi. Stavolta tocca, a essere stravolto, a un famoso romanzo di Hermann Hesse. E poiché si tratta di un autore tedesco, perché non rimanere in tema?


Trama alternativa de Il lupo della steppa

Dopo che la Sesta armata è uscita vittoriosa nella battaglia di Stalingrado, le forze della Wehrmacht avanzano verso oriente oltre il Volga. Alla loro testa, il feldmaresciallo von Manstein si è guadagnato l'appellativo di Lupo della steppa. Con le forze giapponesi che premono sul confine estremo-orientale e la Russia di Stalin che appare ormai stretta in una morsa a tenaglia, riusciranno le truppe anglo-americane, da sole, a cambiare le sorti della storia?


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Chi vuole unirsi ai giochi è, com'è naturale, il più che benvenuto.

Solve et Coagula - Pagina 136

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Parte II - Capitolo 1 /8


La Bury St. Edmunds Library era una vecchia costruzione di mattoni rossi a due piani, di grandi dimensioni e dalla forma irregolare ma compatta, situata all'angolo tra St. Andrews Street e Sergeants Walk. Un'aggiunta recente a un solo piano, di vetro e acciaio, portava alla sala di ingresso e al bancone della reception.
Massimo era tuttavia deciso a non interpellare nessuno se non si fosse rivelato necessario. Entrò senza quasi guardarsi intorno, e subito si incamminò nella sala semivuota, con tutta la disinvoltura di cui era capace, fino al pannello di laminato bianco con impressa la pianta dell'edificio. La stanza con i libri dedicati alla storia locale si trovava al piano terra, e lui vi si diresse senza indugio. La sua idea era di provare a rintracciare il libro di storie e leggende del Suffolk che aveva avuto tra le mani per alcuni minuti, nell’unico pomeriggio in cui Paula Susi si era presa cura di lui da sveglio. Se fosse riuscito a trovarlo, avrebbe avuto la prova inoppugnabile che non si era sognato un bel niente. Cercò di ricordarsi l’immagine di copertina, ma la visione nella sua mente era così sfocata e fluida da ridursi a una serie di macchie di colore dall’aspetto variabile come quello di protozoi che tentassero di divorarsi a vicenda. Era comunque abbastanza certo che il titolo comprendesse sia la parola “folk-tales” che il toponimo Suffolk e di disporre quindi di elementi sufficienti a permettergli di riconoscere il libro, nel caso fosse stato negli scaffali.

Ed eccomi tornato sul pianeta terra, si disse una ventina di minuti più tardi al termine della sua ricognizione. La strana, quasi sovrannaturale certezza, che lo aveva accompagnato fino a un minuto prima, sul successo a cui era destinata la sua ricerca, si era appena infranta contro l’evidenza di un nulla di fatto. I termini “Suffolk” e “folk tales” comparivano sì più volte nei titoli dei volumi presenti nella stanza, ma nessuna copertina li presentava associati tra loro. Non era però detta l’ultima parola: forse il libro aveva una diversa collocazione, oppure era in prestito. Non gli restava che vincere la sua esitazione e andare alla reception a informarsi.

Dopo un rapido scambio di saluti con la ragazza dai capelli rossi in piedi dietro al bancone - “Patricia Hendricks”, lesse automaticamente sulla targhetta che aveva spillata al petto - Massimo le affidò la sua richiesta.
«Un libro con le parole “Suffolk” e “folk tales” in copertina?» ripeté lei senza cambiare tono di voce «Controllo subito». Ma non aveva finito di voltarsi verso il casellario con le schede dei titoli, che sollevò la mano all’altezza della fronte, come se si fosse appena ricordata di qualcosa.
«Santo cielo» esclamò, «sono proprio una sciocca a non averlo capito a prima vista. Lei può essere solo l’italiano… il ricercatore amico di Paula, voglio dire».
Massimo per un momento sentì come se il terreno gli sparisse da sotto i piedi e si tenne d’istinto con entrambe le mani al bordo del bancone. Se la ragazza lo avesse guardato in quel momento, avrebbe visto un volto assurdamente esangue, pietrificato in un’espressione di stupore assoluto. Per fortuna, si era invece messa a cercare qualcosa sotto al banco.
«Ero certo di averla messa in questo cassetto… ah, ecco».
Tornò completamente eretta e gli porse una busta. «Paula è stata qui ieri» continuò, «e mi ha detto che si sarebbe fatto vivo uno di questi giorni. L’aspetta a casa sua, a Woolpit. Ha lasciato in questa busta le istruzioni per trovare il posto. Sa, abita un po’ fuori del paese».
Massimo allungò la mano e prese la busta. «Grazie» fu tutto quello che, con grande sforzo, riuscì ad aggiungere.



Solve et Coagula - Pagina 137

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Parte II - Capitolo 1 /9


«Adesso le cerco anche il suo libro» continuò la bibliotecaria, all’apparenza ignara della confusione in cui era precipitato il suo interlocutore. Che all’improvviso fu anche assalito da un sospetto. E se fosse tutto un gigantesco equivoco? si chiese. Cioè, se  Paula Susi, per un’incredibile coincidenza, fosse stata davvero in attesa di qualcuno dall’Italia che non era lui? Massimo scosse la testa, come per scrollarsi di dosso un pensiero tanto assurdo, ma alla fine non poté fare a meno di indagare.
«Come ha fatto a capire che sono io la persona che stava aspettando la sua amica?».
La bibliotecaria smise per un attimo di frugare tra le schede dei libri e si voltò a guardarlo con aria divertita. «Paula? Per la verità non siamo proprio amiche, ma è una vecchia cliente della biblioteca. E vuole sapere come ho fatto a riconoscerla? Primo, è chiaro che lei non è inglese, e non è che qui ne capitano molti di stranieri; secondo, Paula mi ha detto che avrebbe cercato dei libri sul folklore del posto».
Massimo annuì, e si sforzò anche di sorridere all’impiegata, che aveva però già ripreso la sua ricerca senza per questo smettere di parlare.
«Naturalmente Paula si scusa per non essersi potuta presentare qui al vostro appuntamento, ma mi ha detto che per alcuni giorni le era impossibile muoversi da casa. Lavori in corso, a quel che ho capito».
«Non è un problema. Avevo già in mente di muovermi molto... per le mie ricerche» replicò Massimo, che aveva nel frattempo cominciato a valutare un’altra ipotesi: quella di essere caduto vittima di un vuoto di memoria, come effetto collaterale del coma da cui era appena uscito. Si disse che la sua amnesia doveva riguardare una parte del colloquio che aveva intrattenuto con Paula Susi. Si era forse spacciato per uno studioso interessato alle tradizioni popolari del posto e aveva fissato con lei un incontro in biblioteca in occasione del suo ritorno dalle vacanze all’estero? Ma quali vacanze, poi? Se davvero la donna fosse stata all’estero non avrebbe potuto trovarsi in ospedale come infermiera quel giorno, quindi… Massimo avvertì a quel punto un accenno di ripresa del suo mal di testa e decise che era meglio rimandare la ricerca di spiegazioni al momento in cui se la sarebbe... trovata di fronte. Stavolta lo attraversò un brivido, alla sola idea, e subito ricomparve in lui quella miscela di desiderio e repulsione che sembrava inscindibile da ogni sua rievocazione mentale della figura di Paula Susi. Lo stesso gli accadeva quando posava gli occhi sul suo ritratto di lei, a dire di miss Wilkins così poco somigliante. Si chiese se avrebbe mai trovato il coraggio di mostrarglielo in persona, se…
«Nel nostro catalogo non c’è traccia del suo libro,sa? È proprio certo di avere i riferimenti giusti?».
«Ho visto una riproduzione della copertina da qualche parte» balbettò in risposta Massimo, distolto bruscamente dai suoi pensieri. «È colpa mia, avrei dovuto essere abbastanza accorto da ricopiare tutti i dati».
«Spiace a me di poterla accontentare solo in parte. Questi…» e posò una lista di tre-quattro titoli sulla superficie del bancone «sono alcuni dei volumi che abbiamo sull'argomento. Se accetta un parere» aggiunse indicandone uno con l’indice, «secondo me questo vecchio libro potrebbe fare al caso suo».
«English Fairy and Other Folk Tales di Edwin Sidney Hartland» lesse distrattamente Massimo, ormai ben poco interessato. Fu anche sul punto di replicare che gli era utile solo l’altro titolo, quando pensò che in fondo non gli costava niente dare quella piccola soddisfazione alla bibliotecaria in cambio del suo generoso aiuto e accettò il consiglio.
«Un’ ultima cosa…» aggiunse.
«Si?...».
«Non è che miss Paula le ha anche lasciato detto quando devo presentarmi da lei, per caso?».
La ragazza stavolta lo guardò con aria leggermente dubbiosa. «No, ma immagino che abbia modo di regolarsi in base all’ora in cui vi eravate dati appuntamento qui. Con un taxi sarà a Woolpit in men che non si dica».
«Allora credo di avere ancora un po' di tempo da dedicare a questo suo libro» concluse Massimo, con un sorriso, nelle sue intenzioni, di rassicurazione.


Arcani Tour #5: L’Imperatore - Guest-Post di Marco Lazzara

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La sensazione che ho oggi, nel pubblicare, è qualcosa del genere di trovarmi al centro di un mini terremoto che scuota il mio blog fin nella fondamenta, con l'apparizione, per la prima volta in assoluto, di un guest post nelle sue pagine. Ne è autore lo scrittore Marco Lazzara, intestatario del blog Arcani, che è anche il titolo del suo nuovo libro. Marco ha voluto farmi la sorpresa, che ho molto gradito, di scrivere un post prendendo come spunto il sottotitolo (o vero titolo) del mio blog: Cronache del Tempo del Sogno. In altri termini, quella che state per leggere è una sintetica, ma precisa, esposizione della religiosità aborigena australiana così come gli etnologi e gli studiosi delle religioni ce l'hanno fatta conoscere. Io stesso ho parlato in più occasioni, qua è là nel blog, di questa affascinante e complessa mitologia, a cui ho dedicato anche il progetto di una Graphic Novel dal titolo Dreamtime Returns. E' tutto materiale a cui potrete risalire in seguito, se vorrete, o tramite le pagine statiche o utilizzando i tags che compaiono qui a destra, mentre per il momento vi consiglio di godervi semplicemente questa nuova, felice tappa dell'Arcani tour di Marco Lazzara.


Arcani Tour #5 – L’Imperatore
(Guest-Post di Marco Lazzara)


L’Arcani Tourè un giro promozionale del mio secondo libro, Arcani, per i blog che decidono di ospitare l’iniziativa. Il blogger che partecipa deve scegliere una carta dei Tarocchi, ognuna delle quali nel mio libro è rappresentata da un racconto, e riceve in cambio da me un guest-post correlato. Ivano Landi (che ringrazio dell’adesione) ha scelto la carta de L’Imperatore.


La Carta:“L’Imperatore, dominatore e re terreno, rappresenta il potere temporale; la sua mano è mossa da grande intelligenza e creatività, acquisite attraverso la profonda conoscenza del mondo e dei suoi abitanti, maturata attraverso gli anni.”
Il racconto nel mio libro: Si tratta de Il Piccolo Re dell’Orrore, dove il giovane Stevie, amante del rock ‘n’ roll e dei fumetti horror, dovrà affrontare il Babau che vive nel suo armadio...


Il Tempo del Sogno


C’è un dedalo di invisibili sentieri che copre tutta quanta l’Australia. Gli Europei lo chiamano Piste del Sogno o Vie dei Canti, mentre gli aborigeni Orme degli Antenati o Via della Legge. I miti aborigeni sulla creazione narrano di creature totemiche che nel Tempo del Sogno, l'epoca antecedente alla creazione, avevano percorso il mondo cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano e che attraverso il canto avevano fatto esistere il mondo stesso. Il Tempo del Sogno è da intendersi in quello che noi chiameremmo dimensione: rimane accessibile agli aborigeni proprio attraverso il sogno, grazie a cui possono comunicare con gli spiriti, decifrare il significato di presagi, comprendere le cause di malattie e sfortune.
In principio la Terra era una pianura sconfinata e tenebrosa, separata dal cielo e dal mare, avvolta in un crepuscolo indistinto: Sole, Luna e Stelle non c’erano, perché si trovavano al di sotto della crosta terrestre. Il mattino del Primo Giorno al Sole venne voglia di nascere, così squarciò la superficie e inondò la Terra di luce. Alla sera, anche la Luna e le Stelle lo imitarono.Assieme al Sole giunse il grande Serpente Arcobaleno, che risalendo dal sottosuolo verso la superficie creò rilievi montuosi e canyon,  distribuendo così l'acqua lungo la superficie.


Sulla crosta terrestre si vedevano soltanto delle buche con dei molli ammassi di materia concentrati intorno a esse: ciascuna aveva però in sé l’essenza della vita, perché in ognuna dormiva un Antenato. Intanto che le buche andavano riempiendosi d’acqua, il Sole appena nato iniziò a riscaldarle: allora gli Antenati si sollevarono, scrollando via il fango. Ognuno di essi, alzandosi, disse a gran voce “Io sono!”, aggiungendo poi: “Sono il Serpente... il Cacatua... la Formica del miele... il Bandicoot”. Da quel momento e per sempre quel primordiale dare nome fu considerato il distico più sacro e segreto del Canto dell’Antenato, il Sogno a cui sarebbero appartenuti i suoi discendenti, legati all’animale totemico di cui sarebbero stati fratelli.


Gli Antenati si crearono quindi da sé con l’argilla, a migliaia, uno per ogni specie totemica. Perciò quando un aborigeno dice “ho un Sogno Wallaby” intende dire di appartenere al clan Wallaby. Ma il Sogno è molto più di un semplice emblema: ogni Uomo Wallaby ritiene di discendere da un Padre Wallaby universale, antenato di tutti gli uomini wallaby e anche di tutti i wallaby. Per quello specifico clan, uccidere un wallaby e poi cibarsene verrebbe considerato un atto di fratricidio e cannibalismo. Ogni Uomo del Tempo Antico iniziò poi a dare il nome a tutte le cose del mondo, e con questi nomi intessé dei versi.


Gli Antenati avevano dunque creato il mondo cantandolo, per cui nessun aborigeno poteva concepire che il mondo fosse in qualche modo imperfetto. Essi non credevano all’esistenza di qualcosa finché non lo avevano visto e cantato: questo perché anche nel Tempo del Sogno il mondo non era esistito finché gli Antenati non lo avevano cantato. La vita religiosa aveva quindi un solo scopo: conservare la terra com’era e come doveva essere.
Gli Antenati avevano poi percorso il mondo cantando e lasciando in ogni punto una scia di musica, avvolgendolo interamente in una rete di canto: queste Piste del Sogno rimasero sulla terra come vie di comunicazione tra le tribù più lontane. Un canto faceva quindi da mappa: a patto di conoscerlo, si poteva sempre trovare la strada, ovvero ci si spostava seguendo una Via del Canto. Se un uomo deviava dalla propria via, sconfinava, il che poteva costargli un colpo di lancia; se invece rimaneva sulla via, avrebbe sempre potuto trovare persone con il suo stesso Sogno, da cui aspettarsi ospitalità. La Via del Canto era anche un itinerario di scambi commerciali, anche se erano i canti, non gli oggetti, il principale strumento di scambio: il baratto degli oggetti era solo secondario a quello dei canti. Prima dell’arrivo dei bianchi, nessuno era senza terra perché ereditava un pezzo del Canto dell’Antenato, di cui diveniva proprietario.
Ogni clan conservava un certo numero di racconti del Tempo del Sogno, dei quali era responsabile. Gli anziani svolgevano il ruolo di loro custodi e avevano il compito di tramandarli alle nuove generazioni. Alcuni però erano segreti e potevano venire rivelati solo a particolari individui o a gruppi: alcune storie del Tempo del Sogno erano conosciute solo dagli uomini, altre solo dalle donne. Se gli Anziani di un clan decidevano che era tempo di cantare il proprio ciclo di canti dall’inizio alla fine, inviavano messaggi lungo l’intera Pista: allora uno dopo l’altro tutti i proprietari cantavano il loro pezzo di orme dell’Antenato, sempre nella sequenza esatta. Invertire l’ordine dei versi era considerato un sacrilegio, perché sarebbe equivalso a distruggere il creato: di solito veniva punito con la morte.


Nasceva poi da qui il walkabout (“giringiro”), abitudine degli aborigeni per cui essi all’improvviso partivano, senza nessun preavviso e senza ragione, stando via per settimane, mesi, anni, attraversando a piedi mezzo continente, per poi tornare indietro come se niente fosse. L’uomo in walkabout compiva un viaggio rituale, calcando le orme del proprio antenato, di cui cantava le strofe senza cambiarne una parola o una sola nota: in questo modo ricreava il Creato.
C’erano poi precise regole per tornare indietro, cioè giungere a una giusta morte, ovvero tornare cantando al luogo cui si apparteneva, il luogo del proprio concepimento: lì era custodito il proprio tjuringa (tavola con estremità ovali, intagliata nella pietra o nel legno di mulga, con disegni che rappresentavano gli itinerari del proprio antenato). Solo allora si poteva diventare (o ridiventare) l’Antenato, arrivando quindi a una sorta di eternità.

Per seguire gli altri post dell’iniziativa, vedi: http://tinyurl.com/hap3fs3

Link al mio libro: http://tinyurl.com/zwtwq9j


E adesso che l'ospite ha detto la sua, riprendo io, il cronista del blog, la parola. Spero che quello che avete appena letto vi sia piaciuto altrettanto di quanto è piaciuto a me. Voglio solo aggiungere, in chiusura, un grande, doveroso grazie a Marco. E un invito, rivolto a voi lettori, a non far mai mancare il vostro sostegno alle sue iniziative. 


Il mondo degli animali - Il topo nel mito, nella fiaba, nel fumetto e nella letteratura

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Per la seconda volta in breve tempo, mi sono lasciato ispirare da un post di Maria Cristina Cavaliere. Nel caso precedente, lo ricorderete, si era trattato di accostare opere letterarie e quadri con le stagioni, stavolta l'accostamento è nientemeno che con il topo, animaletto umile ma che ha spesso ispirato artisti e scrittori anche molto diversi tra loro. Cristina ha proposto cinque celebri topi, io mi sono limitato a quattro, i primi che mi sono venuti in mente scansando alcuni di quelli da lei utilizzati.
Comincerò questo viaggio da molto lontano nel tempo. E precisamente dal mito e dalla fiaba, dove fanno capolino i più antichi topi della letteratura di cui ho notizia, eccettuate forse le favole di Esopo.


1. Sminteo


Non si tratta di un vero e proprio topo, bensì di un epiteto del dio Apollo che i più fanno derivare dalla parola greca sminthos, che indica il topo. Altri studiosi lo fanno invece derivare dalla città di Sminthe nella Troade, ma il topo, come vedremo, c'entra comunque.
Apollo porta l'appellativo di Sminteo nella sua qualità di “uccisore di topi”. In un racconto il dio scatena un esercito di topi nei campi di Crinime, un suo sacerdote che si è mostrato negligente nel servirlo, ma sarà poi lo stesso dio a incaricarsi di sterminare i topi con le sue frecce.
A memoria di uno sterminio analogo che il dio compì nella Troade, venne fondato nella città di Crisa un tempio dedicato ad Apollo Sminteo, al cui interno fu collocata una statua del dio attribuita allo scultore Skopas (IV secolo a.C.). L'opera è andata perduta, ma la sua riproduzione sulle monete dell'epoca ci mostra che il dio vi era scolpito con un topo ai suoi piedi.


Un'altra leggenda vuole invece che un oracolo consigliasse i Teucri, dopo che ebbero lasciato Creta guidati dal loro re Teucro, di fermarsi là dove i loro nemici sarebbero strisciati fuori dal terreno sotto i loro occhi. Quando giunsero ad Hamaxitus, al confine tra Troade e Eolia, videro dei topi uscire di notte fuori dal terreno e rosicchiare i loro scudi. Eressero allora, nello stesso luogo, una statua ad Apollo Sminteo. Ma il culto si diffuse in varie altre parti della regione, comprese le isole, con la fondazione templi e la celebrazione di feste denominate Smintheia.

L’importanza dell’epiteto è tale da figurare anche nell’invocazione al dio presente nel primo capitolo dell’Iliade di Omero (I,47-49). Così suona il brano nella nota versione di Vincenzo Monti:
(Crise sacerdote d’Apollo, essendo venuto alle navi de’ Greci per riscattare Criseide sua figlia, è villanamente discacciato da Agamennone. Nel ritornare a Crisa egli supplica Apollo di vendicarlo del ricevuto oltraggio.)
Dio dall’arco d’argento, o tu che Crisa
Proteggi e l’alma Cilla, e sei di Ténedo
Possente imperador, Smintéo, deh m’odi.

Mentre questa che segue è la più moderna versione di Rosa Calzecchi Onesti:
Ascoltami, Arco d’argento, che Crisa proteggi,
e Cilla divina, e regni sovrano su Tènedo,
Sminteo…

E' del resto naturale che Crise si appelli al dio nella particolare designazione che lo collega al piccolo animale, al momento di invocare lo scoppio della pestilenza nel campo degli Achei. 

Lo stesso epiteto, Sminteo, sarà comunque ripreso, vari secoli dopo, anche da Giordano Bruno nella sua Invocazione al Sole (Cantus Circaeus, 1582):
Febo, roseo,dalla lunga chioma, belcrinito, dorato, splendente, sereno, suonatore di cetra, cantore e rivelatore del vero.
Titano, Milesio, Palatino, Cirreo, Delio, Delfico, Leucadio, Tegeo, Capitolino, Sminteo, Ismenio e Laziale.

Felice Giani, Apollo guida il carro del sole (1802 c., part.)

Va riportata inoltre la tradizione, diffusa nel Mediterraneo, di templi di Apollo in cui erano allevati topolini bianchi, sacri al dio, “come intermediari tra gli uomini e gli dei; se poi i topolini bianchi si riproducono in gran numero, l’evento viene considerato come segno di futura prosperità”.*
Si può supporre in questo caso che i topi, muovendosi al livello del terreno, ne aspirassero gli stessi vapori della Pizia a Delfi, mentre è facile immaginare che il colore bianco sia collegato ad Apollo nella sua funzione di dio della luce.


2. Giac e Gas Gas


Il passaggio dal mito greco al cinema d'animazione disneyano potrà sembrare un po' brusco a prima vista, ma esistono in realtà molti punti di contatto tra la figura di Apollo e quella di Cenerentola.
Apollo è un dio della luce, spesso identificato con l'astro diurno, e Cenerentola è così luminosa, nella sua veste, da risplendere come il sole e illuminare l’intera sala da ballo. Quando però riveste la sua funzione di serva, allora può scegliere di nascondere la sua luce con un mantello di pelli di topo di campo (o, in alternativa, di pelli di gatto, oppure può ricorrere a una pelle d'asino). Chi ha letto la mia serie di post su Apollo servo di Admeto, forse ricorda che anche Apollo si presta a fare da servitore dopo aver celato sotto un aspetto dimesso la sua natura luminosa e divina.
Tornando al classico disneyano del 1950, è notevole il dettaglio che tra i principali aiutanti di Cenerentola figurino Giac (Jac), Gas Gas (Gus Gus) e altri topi, e che la fata trasformi alcuni di loro in un tiro di cavalli bianchi.

Ecco come appaiono Giac e Gas Gas nella storia a fumetti
Topolino buffone del re (1950)


3. Ignatz Mouse


Non è un neanche un caso che abbia chiuso il capitoletto precedente con un'immagine tratta da una tavola domenicale di Topolino. Quasi due decenni prima di Disney, Iwerks e il loro Mickey Mouse -  e precisamente dall'8 ottobre 1910 - George Herriman inaugurò le "avventure" del topo Ignatz e dei suoi comprimari. Dapprima disegnate dall'autore per puro intrattenimento personale, e da lui aggiunte come "piede" alla sua striscia ufficiale, The Family Upstairs - quotidiano, e geniale, resoconto delle vicissitudini di una famiglia in perenne lotta con dei fastidiosi quanto fantomatici vicini del piano di sopra - Ignatz Mouse (che in realtà non aveva ancora un nome) e soci cominciano presto a imporsi nel gradimento del pubblico e a rubare la scena.

Nota: Un clic sulle immagini che seguono le ingrandisce e le rende visibili nei dettagli e fruibili.


Il 30 dicembre 1910 George Herriman, per bocca di Ignatz Mouse, annuncia ai lettori del New York American Journal che il 1911 sarà un anno duro per i gatti, in particolare per la "nemesi" Krazy Kat, felino dal genere sessuale mai del tutto precisato**. E' anche l'annuncio di una svolta nelle sorti della striscia minore che porterà molto presto il nome di Krazy Kat & Ignatz Mouse.


Ma è solo l'inizio: due anni dopo, nel 1913, Krazy Kat and Ignatz Mouse sfratta The Family Upstairs e diventa la striscia regina curata da George Herriman. E tale rimarrà per più di trent'anni, fino alla morte dell'autore nel 1944.
Le vicende che vi sono narrate ruotano tutte intorno a un bizzarro triangolo formato da Ignatz Mouse, Krazy Kat e il cane agente Bull Pupp (chiamato anche Officer Pupp o Offisa Bull Pupp). Krazy Kat è innamorato (genere neutro) di Ignatz Mouse, che dal canto sua odia Krazy Kat e lo vessa come può, quasi sempre colpendolo con un mattone alla testa. Il gatto innamorato interpreta però il lancio del mattone come una manifestazione d'amore di Ignatz nei suoi confronti e a niente vale che l'agente Bull Pupp sbatta regolarmente il sadico topo in gattabuia, nulla è mai destinato a cambiare.
E' attorno a questo singolo nucleo narrativo, immodificabile e all'apparenza limitato, che George Herriman, grazie al suo talento umoristico e al supporto di una schiera di comprimari altrettanto stralunati dei tre personaggi principali, costruisce il suo capolavoro surrealista a fumetti. Lo porterà avanti per oltre trent'anni senza nessun particolare segno di senescenza o inaridimento creativo***.


Tavola domenicale del 28/5/1936 


4. Veronica


Annidata nel quinto capitolo di V., opera del 1963 di Thomas Pynchon, troviamo la storia di padre Fairing. Durante la profonda crisi americana degli anni '30, seguita al crollo di Wall Street del 1929, padre Fairing ha una visione apocalittica in cui vede i topi sostituirsi agli umani a New York e forse in tutta America. Decide allora di assumersi la missione di convertire i topi al cattolicesimo e una notte scende nelle fogne dell'Upper East Side per stabilirvi la sua parrocchia. E' il suo diario, ritrovato alcuni mesi dopo la sua morte e in seguito conservato in un'area inaccessibile della Biblioteca vaticana, a dare testimonianza degli avvenimenti successivi. Pynchon ne riporta vari estratti, che dimostrano che il prete riuscì a convertire almeno un gruppo di topi, prima che la carne di topo di cui era costretto a nutrirsi provocasse la sua morte.
"Dopo la prima conversione", scrive Pynchon, "le aggiunte al diario si fanno meno frequenti. Ma sono tutte ottimistiche, talvolta euforiche. Danno un'immagine della comunità parrocchiale come di una piccola enclave di luce in una buia epoca di dilagante ignoranza e barbarie".
Uno degli apocrifi tramandati del diario riporta la relazione di padre Fairing con un topo femmina di nome Veronica, da lui descritta come una sensuale Maddalena. Si dice che la considerasse il solo membro del suo gregge con un'anima degna di essere salvata.

Alcuni estratti dal diario di padre Fairing che la riguardano:
Può essere valsa la pena alla fine di aver messo in piedi questo barzelletta. Quando la comunità si sarà abbastanza consolidata per poter pensare a una canonizzazione, sono sicuro che Veronica guiderà la lista. Con qualche discendente di Ignazio [il topo capo degli scettici della comunità] a fare senza dubbio da avvocato del diavolo.
V. è venuta da me stanotte, sconvolta. Lei e Paolo ci sono caduti di nuovo. Il peso della colpa schiaccia talmente la piccola che lei sembra quasi vederlo: una enorme, bianca bestia mostruosa che le dà la caccia desiderosa di divorarla. Abbiamo discusso di Satana e dei suoi stratagemmi per alcune ore.
V. mi ha espresso il desiderio di farsi suora. Le ho spiegato che allo stato attuale non esisteva un ordine riconosciuto in cui avrebbe potuto essere accolta. Parlerà con alcune delle altre ragazze, per vedere se c'è un interesse abbastanza diffuso da richiedere un'azione dalla mia parte. Significherebbe dover scrivere una lettera al vescovo. E il mio latino è così mal messo...****

* * *


Note


* M. Dansel, 1977. Citato in Francesco Santoianni, Topi: dalla saga del pifferaio magico agli esperimenti di ingegneria genetica.

** Il regista Frank Capra una volta chiese a Herriman se Krazy Kat fosse maschio o femmina, la risposta fu che Kat era "qualcosa di simile a un folletto, un elfo. I folletti non hanno sesso. Il Krazy Kat è uno spirito, un folletto libero". (fonte: Wikipedia)

*** In Italia è stata soprattutto la rivista Linus a far conoscere, fin dal primo numero, le strisce di Krazy kat.

**** Traduzione mia. Non dispongo della versione italiana del romanzo.

Solve et Coagula - Pagina 138

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Parte II - Capitolo 1 /10


Massimo era seduto con il libro davanti a sé, mentre ripensava alle ultime parole che gli aveva gridato dietro la bibliotecaria, mentre già si allontanava dal bancone.
«Visto che deve recarsi a Woolpit, non trascuri di leggere la storia dei bambini verdi».
Decise che non gli costava nulla seguire anche quella parte delle indicazioni della ragazza, così come aveva accettato il suo consiglio sulla scelta del libro, e cominciò a scorrerne l’indice del volume, fino a incontrare le parole The Green Children. Vide che faceva parte della sezione con i racconti sulle fate e non di quella eventuale dedicata agli alieni a cui faceva pensare il titolo.
"ANOTHER wonderful thing," says Ralph of Coggeshall, "happened in Suffolk, at St. Mary's of the Wolf-pits…
Massimo si fermò subito dopo questa prima frase, colpito dall’assonanza tra il termine “Wolf-pits” e il toponimo Woolpit. Il secondo era una derivazione del primo? si chiese. Forse il seguito del racconto lo avrebbe chiarito, ma in caso contrario non avrebbe dovuto far altro che alzarsi e tornare nella sala d’ingresso dalla sua ciceronessa dai capelli rossi, che senza dubbio aveva la risposta a una domanda così facile.
La storia, molto breve, parlava di un fratello e di una sorella che erano sbucati come dal nulla dalla bocca di una trappola per lupi, al tempo del raccolto. Erano due bambini normali nell’aspetto, eccettuato che per la pelle, di colore verde.
Ma non volevano neanche saperne del cibo che gli veniva dato e avrebbero rischiato di morire di fame se qualcuno non avesse messo loro davanti una pianta di fagioli, che finalmente dimostrarono di gradire.
Gli avvenimenti successivi presero tuttavia una piega strana, perché il fratellino, che era il più debole dei due, morì in breve tempo, mentre la sorella crebbe, imparò a mangiare di tutto e con il tempo perse perfino il colore verde della pelle.
Quando poi fu anche battezzata, divenne a tutti gli effetti un membro della comunità ed entrò al servizio del cavaliere che per primo si era preso cura di lei e del fratellino, un certo Sir Richard de Caine. Dopodiché, il breve racconto aggiungeva solo un altro dettaglio a proposito della donna: che si era rivelata di facili costumi.
Massimo pensò che avrebbe gradito saperne di più, ma dubitava che anche la sua nuova, improvvisata mentore fosse in grado di accontentarlo in questo. Tutto sarebbe rimasto in sospeso, come spesso accade quando si legge una fiaba. E che si trattasse davvero di una fiaba sembrava testimoniarlo il resto del racconto, dedicato alla descrizione fatta dalla donna del luogo da cui lei e il suo fratellino erano venuti. Era la parte più suggestiva del racconto, poiché parlava di una terra, immersa in un crepuscolo eterno, chiamata Terra di San Martino (ma questa, pensò ancora Massimo, aveva tutta l’aria di essere una modifica in senso cristiano delle parole originali della ragazza). Tutti i suoi abitanti erano di colore verde, come i due bambini, che si erano avventurati solo per sbaglio nel nostro mondo, al seguito del loro gregge di pecore. Si erano trovati allora all’imboccatura di una caverna, dal cui antro avevano udito provenire un suono di campane che li aveva irresistibilmente attratti nei suoi recessi. Recessi che, a quanto pareva, dovevano essere comunicanti con la trappola per lupi.
L’autore faceva però cenno, in appendice a questo racconto, anche a una seconda versione della storia, in cui la donna raccontava che dalla sua terra era visibile un mondo più luminoso – cioè il nostro – diviso dal loro da un grande fiume.
Un'altra, improvvisa associazione mentale colpì a quel punto Massimo - o, per meglio dire, “tentò di colpirlo”, dal momento che si infranse prima di poter davvero varcare la soglia della sua coscienza, lasciandogli solo la sensazione di qualcosa di impalpabile, sebbene anche familiare. Aveva la sensazione di aver già letto prima di allora di una terra immersa in un eterno crepuscolo e di un corso d’acqua che ne segnava il confine con il nostro mondo. Ma dove? E quando?


Il Maestro e Margherita - un percorso per immagini /6: L'apparizione dell'eroe

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...ogni autorità è una violenza sugli uomini...

* * *


Capitolo XIII: L'apparizione dell'eroe


Lo sconosciuto, con un dito sulle labbra, fece segno a Ivan di tacere e gli sussurrò: "Ssst!".
Per vedere meglio, Ivan sedette sul letto, con i piedi sul pavimento. Dal balcone un uomo di forse trentotto anni osservava con prudenza la stanza; non portava la barba, aveva i capelli scuri, il naso affilato, gli occhi impauriti e una ciocca di capelli che gli copriva la fronte.

Questo sconosciuto, e insieme eroe, che si introduce nella stanza del poeta Ivan Nikolaevic Ponyrev detto "Bezdomnyj" invitandolo a rimanere in silenzio, è il Maestro.
Non credo sorprenda più di tanto scoprire che nessuno dei quattro adattamenti filmici da me presi in considerazione tiene in particolare conto la descrizione fisica che Bulgakov dà del personaggio.


Ugo Tognazzi
Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia, 1972)

Wladyslaw Kowalski
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)

Viktor Rakov
Master i Margarita (Russia, 1994)
Solo in questo film il Maestro indossa nel corso del dialogo
con Bezdomnyj, il berretto cucitogli da Margherita.

Aleksandr Galibin
Master i Margarita (Russia, 2005)


Anche il Maestro è un paziente come il poeta, ma grazie all'esser riuscito a impossessarsi di un mazzo di chiavi, può muoversi da una stanza all'altra della clinica e far visita agli altri internati. Quel che nessuno dei due ancora sa è che l'altro è rinchiuso per il suo stesso motivo. Ma sono destinati a scoprirlo molto presto, ossia nel momento in cui nella loro conversazione affiora il nome di Ponzio Pilato. Alla scoperta fa poi seguito il resoconto di Bezdomnyj della sua disavventura ai Patriarse prudy e la rivelazione, da parte del Maestro, che il misterioso personaggio con cui il poeta aveva avuto a che fare il giorno prima altri non era che Satana in persona.
E' quindi il turno dello sconosciuto di raccontare la sua storia. Veniamo così a sapere della sua vincita di un premio di centomila rubli alla lotteria, dell'abbandono di entrambe le sue professioni - di impiegato in un museo di Mosca e di traduttore a tempo perso - e della sua scelta di trasferirsi nel seminterrato di una villetta, dove si dedica completamente alla stesura di un romanzo su Ponzio Pilato.
La parte di dialogo che segue subito dopo è tra le più importanti dell'opera e non può essere tralasciata:
"Lei è uno scrittore?" chiese con vivo interesse il poeta.
L'ospite si oscurò in viso e agitò il pugno verso Ivan, poi disse:
"Io sono un Maestro". Era diventato severo: estrasse dalla tasca della vestaglia un berrettino nero, tutto unto, sul quale era ricavata con del filo giallo di seta la lettera M. indossò questo berrettino e si mostrò a Ivan di fronte e di profilo, per provare che era un Maestro. "Me l'ha cucito lei, con le sue mani," soggiunse misterioso.
"Ma qual è il suo nome?"
"Non ho più nome" rispose con cupo disprezzo lo strano ospite. "Ho rinunciato ad averlo, come ho rinunciato a tutto nella vita. Dimentichiamolo."

E un po' dopo, nello stesso capitolo, il Maestro mostrerà anche di non avere più memoria del nome della ex moglie.
Sembra proprio che Bulgakov abbia tutta l'intenzione di evocare i contorni di un'iniziazione spirituale, vista da sempre nei termini di una rigenerazione completa dell'individuo e di un abbandono della vecchia identità. Un ulteriore indizio a favore di questa ipotesi lo gioca la scelta, da parte del Maestro, di un seminterrato come nuova abitazione, con la presenza di una stufa destinata ad avere un ruolo nel seguito della vicenda. Sembra proprio un luogo deputato alla trasformazione alchemica.


* * *


L'incontro


Ed ecco che in un giorno imprecisato, durante una delle sue passeggiate, il Maestro fa un incontro.
Teneva tra le braccia dei disgustosi, angoscianti fiori gialli. Non so che fiori siano, il diavolo lo sa, e lui sa anche come si chiamano, io so solo che per qualche motivo sono i primi a comparire a Mosca. E quei fiori risaltavano nitidi sul suo soprabito nero, primaverile. Tra le braccia, fiori gialli! Non un bel colore. Aveva svoltato dalla Tverskaja in un vicolo e lì si era girata a guardare. Lei sa com'è la via Tverskaja? Passavano migliaia di persone, ma io le assicuro che lei ha visto soltanto me, e mi guardava: non ansiosa, ma addirittura sofferente. E più della sua bellezza mia ha colpito la straordinaria solitudine nei suoi occhi, una solitudine mai vista da nessuno prima.

E' Margherita, la cui apparizione - sebbene ancora solo in flashback - mette finalmente fine all'aspettativa evocata, scommetto in ogni lettore, dal titolo del romanzo. L'accento è di nuovo sulla sofferenza degli occhi, ma anche sul mazzo di fiori che la donna tiene in mano e il cui colore, il giallo, il Maestro le dichiarerà di lì a poco non apprezzare affatto.


Ugo Tognazzi e Mimsy farmer
Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia, 1972)

Anna Dymna e Wladyslaw Kowalski
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)

Anastasia Vertinskaya e Viktor Rakov
Master i Margarita (Russia, 1994)

Aleksandr Galibin e Anna Kovalchuk
Master i Margarita (Russia, 2005)


Dei due è Margherita, sebbene sposata, a dimostrarsi la più coraggiosa, o forse soltanto la più disperata, e a farsi avanti per prima, con una domanda:
Le piacciono i miei fiori?
Alla risposta negativa dell'uomo, Margherita reagisce assumendo "un sorriso colpevole" e gettando i fiori in un rigagnolo.
E tuttavia, racconta ancora il Maestro a Bezdomnyj,
lei diceva che quel giorno era uscita con i fiori gialli tra le braccia perché io finalmente la trovassi e che, se non fosse accaduto, si sarebbe avvelenata, perché la sua vita era vuota.

E' il grande amore. Quello tra due persone che, senza saperlo, cercano da sempre di ritrovarsi e che lo stesso Bulgakov, nell'incipit della seconda parte del libro, definirà: "eterno, fedele, autentico". Sorprende quindi ancora di più che lo scrittore metta al centro di un simile incontro predestinato un elemento di dichiarata bruttezza. Così come sorprende scoprire, nel seguito del racconto, che Margherita farà uso di un filo dello stesso colore, tanto disprezzato dal Maestro, per ricamare la M sul berretto che cuce per lui. E' un modo per richiamare, e come fissare, le bizzarre circostanze del loro primo incontro o di ribadire la rinuncia a sé dello scrittore?
Riguardo invece alla lettera in sé, è facile vedere che è anche l'iniziale del nome Margherita. Ma è anche l'iniziale rovesciata del nome del diavolo, Woland, la cui W si staglia solitaria rispetto alle altre lettere nel suo biglietto da visita.

Margherita si appassiona alla follia al Ponzio Pilato, ed è sulla spinta di questo entusiasmo che comincia a chiamare "Maestro" il suo amato e a confezionargli il cappellino con la M. Preme perché finisca il romanzo e lo faccia pubblicare al più presto, senza poter sapere che in questo modo evoca la catastrofe. Non solo il Ponzio Pilato non ottiene il beneplacito per la pubblicazione, ma cominciano anche a fioccare sui giornali articoli ostili a opera di critici e letterati - le cui figure sono ispirate ai reali detrattori e accusatori di Bulgakov nella Russia staliniana. A esser presa di mira è in particolare la natura religiosa del testo.
La disavventura provoca il crollo nervoso del Maestro, ma segna anche l'inizio del lento, progressivo disfarsi del suo rapporto con Margherita. Lo scrittore prende infine la decisione di far ardere nella stufa tutte le copie dattiloscritte del Ponzio Pilato ed è solo l'arrivo, inatteso e provvidenziale, della donna - che sottrae, quasi intatta, l'ultima copia del romanzo alle fiamme - a evitare la completa sparizione dell'opera. 


Note: La versione in dieci episodi di Bortko mette in scena anche la parentesi autunnale dell'amicizia - avversata da Margherita - tra il Maestro e il giornalista e vicino di casa Aloizij Mogaryc, cancellata con una matita rossa da Bulgakov sul suo manoscritto. Alcuni curatori la inseriscono nell'opera altri no, con differenti motivazioni.


Il Maestro, Mogaryc (Gennadiy Bogachyov) e Margherita
Master i Margarita (Russia, 2005)


Nel film del 1972, Nikolaj Afanasijevic Maksudov (il Maestro) e Margherita danno il manoscritto alle fiamme all'aperto e di comune accordo.


Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia, 1972)
Una versione dell'episodio senza dubbio molto personalizzata ...

Anna Dymna
Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)

Anastasia Vertinskaya e Viktor Rakov
Master i Margarita (Russia, 1994)

Aleksandr Galibin e Anna Kovalchuk
Master i Margarita (Russia, 2005)


Ma dopo che Margherita si è allontanata con in braccio il manoscritto salvato dal fuoco, e con la promessa di tornare l'indomani per rimanere per sempre con il Maestro, succede ancora qualcos'altro: 
"Un quarto d'ora dopo che lei mi aveva lasciato," continua a raccontare il Maestro a Bezdomnyj, "bussarono alla mia finestra...".

Bulgakov tace il seguito, aggiungendo solo che il Maestro "cominciò a parlare all'orecchio di Ivan così piano che quel che disse lo udì il poeta soltanto", ma descrive le conseguenze dell'episodio: prima viene imprigionato e poi, una volta tornato libero, in una gelida notte di gennaio torna al suo seminterrato, ma solo per scoprire che le luci sono accese e una musica si leva dal suo interno. Senza più sapere dove andare, il Maestro si ricorda della recente apertura della nuova clinica del dottor Stravinskij e decide di recarvisi e farsi internare. Nella sera in cui lui parla con Bezdomnyj, sono trascorsi quattro mesi da quella notte.
Compare inoltre, nella parte del racconto del Maestro relativa al suo tentativo di bruciare le copie dattiloscritte del Ponzio Pilato, la frase, una delle più celebri del romanzo: "I manoscritti non bruciano"*. Che nella sua versione originale: Rukopisi ne goryat, è stata anche scelta come tagline della serie televisiva del 2005 e usata nei relativi poster cinematografici.



Aggiungo, in chiusura, che nel corso del dialogo tra il Maestro e il poeta, le stanze 119 e 120 della clinica si popolano di due nuovi malati: il primo "continuava a lamentarsi di una valuta straniera dentro la ventilazione e a giurare che nella loro casa, in via Sadovaja, erano andate ad abitare le forze impure", mentre il secondo "continuava a chiedere che gli venisse restituita la testa".

* * *


A che punto siamo


Questi cinque indicatori segnano l'avanzamento, film per film, del percorso per immagini rispetto al testo del romanzo.

1. Il libro

2. Il Maestro e Margherita (Italia/Yugoslavia, 1972)


3. Mistrz i Malgorzata (Polonia, 1988)


4. Master i Margarita (Russia, 1994)


5. Master i Margarita (Russia, 2005)



Nota: Caratteristica comune ai quattro adattamenti filmici è quella di intervallare al dialogo tra il Maestro e il poeta, che nel libro occupa un capitolo a sé stante, i rimanenti capitoli della prima parte del romanzo.


* * *


References


* "La carta scritta non brucia volentieri" nell'edizione Feltrinelli del 2011, a cura di Margherita Crepax, da me utilizzata per questa serie di post (con mia semplificazione dei nomi russi).

L'immagine in alto sotto il titolo è: Antonio Ciseri, Ecce Homo (datazione incerta, tra il 1860 e il 1880)

Solve et Coagula - Pagina 139

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Parte II - Capitolo 1 /11


Incapace di dare una maggior consistenza a quella che rimaneva poco più di una sensazione, Massimo era già pronto a passare a un'altra parte del libro quando si ricordò all'improvviso, come riscuotendosi da un sogno a occhi aperti, della busta con le istruzioni di Paula Susi. Ma dove l’aveva messa? Frugò nelle tasche ma senza trovarla e stava così per alzarsi da sedere e tornare alla reception, ma fu preceduto dall'ingresso nella stanza della bibliotecaria, la signorina Patricia Hendricks.
«Credo abbia dimenticato questa» disse, allungandogli l'oggetto smarrito.
Gli stava solo facendo una gentilezza, ma l'espressione di compatimento con cui lo squadrò nei pochi istanti che servirono ad accompagnare il gesto, lasciarono a Massimo pochi dubbi riguardo all’idea che la donna si era fatta di lui. Se avesse anche solo osato chiederle di prendere un caffè insieme, poco ma sicuro si sarebbe precipitata a telefonare alla polizia. Pazienza, si disse mentre ascoltava il ticchettio dei suoi passi in rapido allontanamento. Quando tutto intorno a lui fu di nuovo silenzioso, Massimo cominciò a lacerare la parte superiore della busta.
Le istruzioni, battute a macchina su un normale foglio A4, erano più dettagliate di quanto avesse immaginato, tanto da prevedere anche l’opzione bus, che poteva però comportare, era specificato, oltre un’ora di viaggio per meno di nove miglia di strada e la scomodità di un cambio di vettura. Dettagli, questi, che agli occhi di Massimo non apparivano per nulla come delle controindicazioni, tanto più che la donna non sembrava porre limiti di natura temporale alle circostanze del loro incontro. Si sarebbe anzi detto che per lei gli orologi non esistessero neppure.
In realtà, quel che Massimo faceva del suo meglio per non vedere, e con successo, era la ragione di fondo del suo continuo procrastinare: più tempo e più ostacoli lui fosse riuscito a frapporre tra il momento presente e l’incontro con Paula Susi, più tempo avrebbe avuto per ripensarci e fare dietrofront. Dimenticarsi della busta con le istruzioni era stato, da parte sua, un tentativo come un altro, ma nulla impediva che potesse scoppiare una gomma al bus o cadere una frana che rendesse impraticabile un tratto di strada. Perché porre limiti alla provvidenza? E' questo che avrebbe probabilmente pensato se qualcosa di non troppo dissimile a un incantesimo non avesse ristretto così drasticamente il campo delle opzioni realmente alla sua portata. Nella sua fantasia sovreccitata la figura di Paula Susi si era eretta, fin dal primo momento, in modo non troppo dissimile da come poteva ergersi la rappresentazione di una divinità tellurica in un tempio pagano - statua di carne e di sangue a cui lui, come l'antico devoto, rivolgeva pensieri dove l'attrazione sessuale si mischiava, spesso dolorosamente, a una non trascurabile dose di timor sacro. Forse gli sarebbe stato davvero utile avere ancora vicino miss Wilkins, non nelle vesti di nurse stavolta ma di addetta allo smistamento: questo è reale, questo invece è un parto della tua fantasia, questo anche… e così via. Ma l’avrebbe ascoltata?
Decise in ogni caso di lasciare la biblioteca seduta stante, fermarsi a mangiare qualcosa per strada e raggiungere, con calma, la fermata dell’autobus.

Un nuovo dettaglio inatteso fu per lui scoprire, una volta a destinazione, che il numero di Green Road dove abitava Paula Susi corrispondeva a una casa in vendita. Non sapeva bene cosa pensare, ma fu almeno contento di scoprire che la dimora era molto meno isolata di quanto gli avessero fatto supporre le parole della bibliotecaria. Era sì situata in prossimità dei confini del paese, e quindi relativamente lontana dal centro cittadino dove l'autobus aveva terminato la sua corsa, ma non era neppure l'ultima della sua via. La distingueva soltanto, dalle altre abitazioni dei dintorni, l’aspetto più rustico, sebbene per nulla più trascurato, che comprendeva anche la copertura a tetto di paglia tipica del periodo medievale.
Ma la sorpresa più grande per Massimo fu leggere l'istruzione finale del dattiloscritto. Nel caso della momentanea assenza della sua ospite, recitava, lui avrebbe trovato la chiave di casa nella cassetta postale appesa accanto alla porta d’ingresso. Una simile, immotivata dimostrazione di fiducia nei confronti di uno sconosciuto, un continentale per giunta, avrebbe forse dovuto far saltare in lui il coperchio con cui stava inconsciamente schiacciando in basso tutti i suoi dubbi, ma di nuovo non trovò di meglio da fare che accettare la situazione per quello che era. Si voltò soltanto un istante prima di aprire lo sportello della cassetta e prelevare la chiave, nella direzione da cui era venuto, e vide l’alto pinnacolo della St. Mary Church che, sebbene in lontananza, si stagliava ancora nitido sullo sfondo del cielo pomeridiano, sopra i tetti delle case e al di là di una corona di alberi le cui foglie già mostravano i primi segni di quell’incanutimento che le avrebbe attese di lì a poco.


Viaggi letterari: Italian way of cooking

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Una delle costanti della lettura, qualunque libro si legga, è quella del viaggio. Ora siamo proiettati in un'altra psiche (umana o animale), ora in un'altra stanza o città o nazione, ora in un altro pianeta o universo. A questo proposito, la combinazione delle due letture inedite (come ho scritto più volte, faccio molte riletture) che mi hanno accompagnato nella prima metà di marzo mi ha fornito un insolito pacchetto viaggio che mi ha permesso di trovarmi allo stesso tempo, in termini geografici, molto lontano e molto vicino casa. Una delle due letture è ancora in corso ed è Il ritorno di Ayesha di H. Rider Haggard, seguito di Lei, la donna eterna non più ambientato nel continente africano ma in una imprecisata regione sperduta dell'Asia centrale. L'altra, che ho invece terminato un paio di giorni fa, è Italian way of cooking di Marco Cardone, che non è un libro sulla cucina italiana per il mercato anglofono come io avevo creduto all'inizio ma un romanzo di genere fantastico. Con questa seconda lettura, la mia fantasia si è trovata coinvolta in quella che potremmo definire una gita fuori porta, poiché il ristorante al centro della vicenda narrata è situato nel Chianti toscano, il cui confine settentrionale si trova a poca distanza dal mio luogo di residenza. Anche la strana "lingua" in cui sono agilmente svolti i dialoghi del libro non è troppo distante da quella che parlo io, che ne è la forma addomesticata, nel senso di depurata dell'originale selvatichezza aborigena.
Meglio un libro che ci trasporti, come in volo, in terre lontane, o uno che ci faccia ripercorrere con la mente luoghi che magari abbiamo anche percorso più volte fisicamente (ripenso qui, per esempio, allo svincolo per Riotorto citato da Cardone nel suo libro)? Credo che potrebbe uscirne un buon post dalla risposta a questa domanda, e in effetti ho anche preparato tempo fa una bozza sull'argomento, poi messa in pausa. E in pausa rimarrà ancora per un po' perché, come promesso dal titolo del post, è alla presentazione di Italian way of cooking che voglio dedicarmi adesso.


Nota: Con questo post partecipo anche all'iniziativa marzolina di
Ispirazioni & Co.


#ispirazioniandco #viaggi


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Scheda libraria


Titolo: Italian Way of Cooking
Autore: Marco Cardone
Genere: Urban fantasy/Horror
Casa editrice: Acheron Books
Anno di edizione: 2015
Pagine: 237
Prezzo e-book: 3,99 €
Edizione cartacea: Sì
Codice ISBN, EAN o ASIN: B019FNOI4Q
Copertina: Diramazioni

Contiene ricettario mostruoso
Dico, per cominciare, che io lettore con Italian way of cooking ci sono andato a nozze, e non solo per la fortunata coincidenza della prossimità di luoghi e dl linguaggio di cui ho appena discusso. Eppure l'incipit (in realtà un picco narrativo esportato dal penultimo capitolo del libro) non era per me dei più invitanti: non ho amato ritrovarmi subito gettato nella mischia, in mezzo a una scena concitatissima dove un atto sessuale in corso nella cucina del ristorante si mescola insieme a un buon numero di altre situazioni concomitanti e impossibili da decifrare. Mi è bastato però superare questo piccolo scoglio isolato, per trovarmi poi a navigare in acque non dico tranquille, perché la tranquillità è forse l'ultima cosa che questo libro aspira a evocare, ma navigabili senza più problemi.
Il protagonista principale del romanzo, il ristoratore toscano Nero, è una delle tante vittime della crisi iniziata nel 2008, e la sua vita è simile a quella di non pochi italiani moderni: i debiti, appunto, e i dipendenti da pagare; un dirigente della famigerata agenzia di riscossioni crediti Equità intenzionato a mettere le mani sul suo ristorante; la cassetta della posta che si riempie di multe; il direttore di banca che gli rifiuta un credito; una moglie separata che antepone il pilates alla cura dei figli; e così via. Ma questo, per fortuna, non è un romanzo-verità incentrato sulle vicende personali di Nero, e l'autore ce ne dà subito prova affiancando a questa prima altre due linee narrative che evocano, la seconda soprattutto, ben altre atmosfere. Leggiamo così delle gesta di un serial killer, detto il killer enalotto per l'apparente casualità con cui sceglie le sue vittime, e di un maresciallo di nome Patanè che gli dà la caccia; e leggiamo di un mostro famelico che si aggira nei pressi del ristorante...
Quello evocato da Cardone è infatti un mondo fantastico popolato di esseri magici, mostri per l'esattezza, che si muovono tra noi come se fossero invisibili. Il motivo di questa invisibilità presunta è molto interessante da conoscere e vale la pena apprenderlo direttamente dal libro. Lo stesso certe interessanti peculiarità della fauna mostrifera chiantigiana e di altri luoghi della Toscana toccati dalla vicenda (perché, per restare in tema di viaggi: posto che vai, mostro che trovi). 
E' una scoperta casuale di Nero, a proposito delle segrete virtù delle prelibate carni dei mostri una volta che si trova a doverne uccidere e cucinare uno, a dare la grande svolta alla vicenda e a trasformare il nostro in un cacciatore di mostri, da uccidere e trasformare in piatti da servire. A dargli manforte, oltre al fido mozzateste, un coltello da cucina che manovra da vero virtuoso dell'arma bianca, ci sono il suo aiuto cuoco, Mirko, il periodico Cronaca reale, involontaria "enciclopedia dei mostri" disponibile in edicola a cadenza settimanale, la cartomante e mostrologa Vanessa, e, dulcis in fundo, lo spirito guida Tatanka, irresistibile spalla comica del già comicissimo duo Nero e Mirko. Perché va detto che proprio l'accoppiata intelligenza-umorismo è il miglior lasciapassare di quest'opera insieme alla qualità della scrittura. Con Italian way of cooking si pensa e si ride allo stesso tempo, come non capita spesso di fare con un libro, e si può ben immaginare come la scelta di adottare il vernacolo nei dialoghi non sia esente dall'aggiungere altro divertimento a una scrittura già di per sé spassosa, a cominciare dalle infinite declinazioni che la locuzione tradizionale Maremma... viene ad assumere in bocca a Nero, una per ogni situazione in cui finisce coinvolto.
In conclusione, una lettura che d'impulso sarei portato a definire imperdibile, se non fosse per alcune sue caratteristiche, del tutto coerenti con la tipologia del racconto ma che (forse) lo rendono non proprio un libro per tutti. Mi riferisco ad alcune descrizioni di sevizie a uomini e animali (poche e non troppo cruente, ma ci sono), ai molti riferimenti sessuali che includono anche scene di sesso, e all'abbondanza di parolacce.


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L'immagine in alto sotto il titolo è il particolare di un'opera di Silvia Santanni
http://www.illusionidarte.com/

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