Ricercare alla luce è uno scherzo, ma nelle tenebre si annidano i misteri.(Goethe, Faust, 1147)
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La chiave saprà scovare il giusto luogo: seguila nella sua discesa! ti guiderà alle Madri.
Questa chiave è in realtà un oggetto molto speciale, un oggetto magico che, nel momento in cui Mefistofele lo consegna a Faust, cresce di dimensioni e diventa luminoso. Ciò a cui mi sembra si avvicini di più è la corona luminosa che Arianna consegnò a Teseo per farsi guidare nel labirinto cretese. Come la corona, anche la chiave di Mefistofele ha la funzione di fare da guida in un luogo cui si rischierebbe altrimenti di perdersi per sempre.
Ma se tutti abbiamo una pur vaga idea della natura del labirinto al cui centro dimora il Minotauro, che luogo è quello che abitano le Madri? Solo attraverso la descrizione anticipata che Mefistofele fa a Faust del viaggio che lo attende noi arriviamo a saperne qualcosa, mentre per tutto il tempo in cui Faust effettivamente lo compie, l’attenzione di Goethe si concentra su Mefistofele che gigioneggia in superficie, alla corte imperiale. (Lo scopo della discesa di Faust, ricordiamolo, è di onorare la promessa che ha fatto all'Imperatore di portare al suo cospetto, dal regno delle ombre, le figure di Paride e Elena).
...nulla vedrai nelle lontananze eternamente vuote, non udrai il suono del tuo passo, non troverai nulla di solido su cui posare,spiega Mefistofele a Faust.
Eppure, così come il labirinto ha un centro a cui i suoi meandri conducono, anche il non-luogodelle Madri ha, situato a inimmaginabili profondità, una sorta di nucleo. E questo nucleo è perfino rischiarato da una luce solitaria, originata da un tripode ardente, un oggetto misterioso dotato di una particolare affinità per la chiave magica. È grazie a questo chiarore che Faust, continua Mefistofele nella sua anticipazione, avrà la possibilità di scorgere le Madri immerse nella loro attività:
...seggon le une, stanno le altre e vagano. Formazione, trasformazione, eterno giuoco dell'eterno pensiero, intorno ad esse aleggiano le immagini [Gebilde] di tutte le creature. Esse non ti scorgeranno poiché solo quelle ombre esse scorgono. Fatti allora coraggio ché il pericolo è grande; va dritto a quel tripode e toccalo con la chiave! ...e il tripode alla chiave si salderà, la seguirà come un servo fedele. Tranquillo risalirai, la tua buona sorte ti riporterà in alto, e, prima che le Madri se ne avvedano, eccoti di ritorno col tripode.
Come si vede, anche qui, come nella lontana Vita di Marcello, il loro numero rimane indefinito. Ma mentre in Plutarco “Madri” figurava solo come un nome collettivo, in Goethe queste dee spettrali e terribili, qualunque sia il loro numero, acquistano - o ritrovano - alcune delle loro caratteristiche. Scopriamo, per esempio, che sono circondate da tutto un aleggiare di immagini - ombre, eidola - e scopriamo che il loro “datore di lavoro” è la Mente, di cui sono intermediare e al cui eterno giuococooperano formando e trasformando.
Qualcos’altro aggiungerà Faust al suo ritorno in superficie, durante il rituale dell’invocazione delle immagini di Paride e Elena. Rivestito di un abito sacerdotale e con il capo cinto da una corona, così si rivolge alle Madri:
Il nome vostro invoco, o Madri, che regnate nell’infinito, e, pur socievoli, abitate in eterna solitudine. Attorno al capo vostro aleggiano le immagini della vita, mobili, pur essendo prive di vita. Coloro che altra volta esistettero in tutto il loro numeroso splendore, lì, ora si muovono giacché voglion vivere eterni; e voi lo distribuite, o Forze onnipossenti, parte alla celeste volta del giorno, parte all’etereo padiglione delle notti. Riafferra le une il dolce corso della vita; evoca le altre l’ardito taumaturgo, che, fiducioso e prodigo, suscita la visione mirabile che è nel desiderio di ognuno.
Immagini della vita... prive di vita... che altra volta esistettero. E che aspirano a vivere ancora, eternamente. Auguste, onnipossente sovrane, le Madri sono matrici a cui ritornano gli schemi essenziali dei morti, che riciclano in sempre nuove forme da riconsegnare alla vita e ai loro destini di luce e oscurità. Come si vede, c’è tantissima Grecia in tutto questo – Omero, Platone e Plutarco su tutto. Del resto, come Goethe, anche il Faust storico era un umanista impegnato a diffondere la grecità in Germania, così come quello leggendario aveva la facoltà, nel suo corso sulla letteratura omerica, di evocare le persone degli eroi di Troia davanti ai suoi studenti.
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Howard David Johnson, Helen and Paris (2014) http://www.howarddavidjohnson.com |
L’ardito taumaturgo della parte conclusiva della citazione è lo stesso Faust che parla di sé in terza persona. Fiducioso e prodigo, tocca il tripode con la chiave arroventata e ne fa sprigionare una nebbia da cui si manifestano le ombre di Paride prima e di Elena dopo. Non sappiamo chi materialmente lo abbia consacrato nel ruolo, né chi lo abbia vestito dell’abito sacerdotale e incoronato. Così come non sappiamo nulla della reazione delle Madri alla scoperta del furto del tripode. Sono tutte parti del viaggio di Faust che Goethe avvolge nel silenzio.
Ciò che è evidente è che il dominio delle Madri è sotterraneo e non tellurico come quello della Grande Madre, sebbene la confusione, come vedremo nei prossimi post, persista anche oltre Cicerone e la sua seconda orazione contro Verre.
E la loro condizione? Dee dalla natura socievole ma condannate a un'eterna solitudine, racconta Faust. C'è forse qui un accenno velato a quei sospiri, a quelle lacrime, a quella tenebrosità che saranno descritte senza reticenze da Thomas de Quincey poco più di un decennio dopo? Le schiere di ombre che aleggiano loro intorno sono viste dalle Madri, che sono cieche a tutto il resto, ma sembra che le prime non abbiano la facoltà di vederle a loro volta.
In fin dei conti non sorprende che l'istrionico Mefistofele non ami averci a che fare e che sia così pronto a scaricare su Faust tutta la responsabilità della loro evocazione. Se è costretto a ricorrervi è perché la sua giurisdizione è confinata all'interno del mondo cristiano e necessita di intermediari per raggiungere figure dell’oltretomba pagano come Paride ed Elena.
E bisogna anche aggiungere, a questo punto, che si è rivelata corretta l'intuizione di Dario Argento di collocare le tre Madri in diversi luoghi della terra. Una scelta non scontata, a causa della tendenza, nell’iconografia tradizionale, a riunire su un'unica scena le triadi divine.
Abbiamo visto, nel primo post della serie, che nel Suspiria de Profundis de Quincey pone alla radice della sua esperienza con le Madri i sogni, modellati dall’oppio, che lo visitano dai tempi di Oxford. Altre fonti raccontano che l’ispirazione l’abbia avuta nel corso della notte trascorsa a Palazzo Imbonati, un edificio infestato di Milano oggi non più esistente. Di certo conobbe bene l’opera di Goethe, su cui scrisse anche una voce per l’Encyclopaedia Britannica.
Dopo Goethe (1832) e de Quincey (1845), le Madri fanno ancora un'ultima fugace comparsa ottocentesca, ne La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche (1872).
Negli ultimi capitoli di questa sua opera, Il filosofo tedesco auspica, per la rivitalizzazione della cultura germanica, la fine dell'ottimismo scientista di derivazione socratica da un lato e la rinascita dello spirito dionisiaco della tragedia dall’altro – una rinascita che paragona, nel suo inestimabile valore, a quella di Elena nel Faustgoethiano.
A giudicare dai nomi, di evidente derivazione schopenaueriana, Nietzsche nel suo accenno sembra designare le Madri come una sorta di ombra, o negativa, della ridondanza di vitalismo del dionisiaco:
Ma come cambia di colpo la desolazione... della nostra stanca cultura, ove la tocchi l'incanto dionisiaco! Un turbine rapisce tutto quanto è consunto, putrido, frantumato, disfatto, lo avviluppa vorticosamente in un rosso nembo di polvere, e come un avvoltoio lo trae al cielo. I nostri occhi cercano smarriti ciò che è scomparso: giacché ciò che vedono è salito in alto come attraverso una botola nella luce dorata, così pieno e fresco, così rigogliosamente vivo, così passionatamente immenso. La tragedia è assisa tra questa ridondanza di vita, di dolore, di gioia in un sublime rapimento, e ascolta un lontano canto malinconico - il canto che le racconta delle Madri dell'essere, i cui nomi sono illusione, volontà, sventura [Wahn, Wille, Wehen].
Si può facilmente immaginare che il canto malinconico sia "lontano" perché ascende dalle inaudite profondità in cui Goethe ha posto la residenza delle Madri. Anche qui, come nel poeta, la prospettiva platonica appare in un certo senso rovesciata: le anime non discendono più da un regno di Idee verso il nostro mondo cavernoso, riflesso di una realtà infinitamente più reale e luminosa, bensì affiorano alla luce, diurna o notturna, da antri sotterranei abitati da essenze spettrali, ombre svuotate di ogni contenuto vitale, immagini forse separate dal nulla solo dalla loro inestinguibile volontà di vivere eternamente.
E forse è vero che, come scritto nello pseudobiblia attribuito all’architetto-alchimista Emilio Varelli, l’unico grande mistero della vita è che essa è governata unicamente da gente morta.
E forse è vero che, come scritto nello pseudobiblia attribuito all’architetto-alchimista Emilio Varelli, l’unico grande mistero della vita è che essa è governata unicamente da gente morta.
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L'immagine in alto sotto il titolo è: Jukka Nopsanen, On the River Hades (2002)
http://www.artists.de/10977-on-the-river-hades
http://www.artists.de/10977-on-the-river-hades
Tutte le citazioni da Goethe sono tratte da: Faust. Einaudi, 1965. Traduzione di Barbara Allason.
La citazione di Nietzsche è tratta da: La nascita della Tragedia. Laterza, 1995. A cura di paolo Chiarini.