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The Studio - Quarto intermezzo: Le peripezie (editoriali) di Conan il barbaro /4

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Dopo le due storie pubblicate sui primi tre numeri di Savage Tales, The Frost Giant's Daughter e Red Nails, è la volta, nel numero 4, di The Dweller in the Dark!, terza e ultima storia del duo Roy Thomas e Barry Smith a vedere la luce sul magazine. La sua data di realizzazione è tuttavia precedente a quella di entrambe le altre due storie citate, trattandosi di una storia già apparsa, nel dicembre 1971, sul numero 12 di Conan the barbarian, la serie regolare a colori dedicata alle avventure dell'eroe cimmero. Un passaggio abbastanza raro quello dal colore al bianco in nero, almeno rispetto alla scelta, più consolidata, di riproporre nel tempo a colori cose apparse in origine in bianco e nero. Ma The Dweller in the Dark! si prestava benissimo all'operazione, per almeno due motivi. Primo, Barry Smith aveva non solo disegnato le 16 pagine della storia, ma se le era anche inchiostrate da solo (come avrebbe fatto in seguito in altre tre occasioni, le già citate The Frost Giant's Daughter e Red Nails, e la sua ultima, bellissima creazione per Conan the Barbarian, The Song of Red Sonja), con il risultato di produrre qualcosa di più sofisticato della media. Secondo, la quantità di pelle femminile lasciata scoperta nei disegni superava i limiti ammessi dalla Comics Code Authority. Come dire, in altre parole, che la storia si prestava meglio ad apparire su un magazine piuttosto che in forma di comic-book, e che a tale destino sarebbe probabilmente andata incontro se non fosse stato per un dettaglio: che Thomas e Smith si trovarono a un certo punto, per una serie di questioni che sarebbe troppo lungo raccontare qui, in difficoltà con la deadline, e si videro per questo costretti a ricorrere proprio a The Dweller in the Dark! per il numero 12 di Conan the barbarian. Naturalmente si rivelò anche necessario, come vedremo, allungare qua e là i veli di qualche spanna.
Ma il vero inconveniente della storia, a cui si cercò di porre rimedio a monte, è un altro. The Dweller in the Dark! è indubbiamente un esempio di fumetto pregevole che non sfigura affatto, come qualità di disegno, nel confronto con le altre due storie di Barry Smith pubblicate su Savage Tales. Presenta tuttavia al suo interno un vistoso punto debole: un mostro, una specie di polipo gigante, talmente imbarazzante nella sua realizzazione grafica da aver costretto un inorridito Roy Thomas ad aggiungere un paio di righe di testo alla sua sceneggiatura per giustificarne l'aspetto: il mostro è così, recita l'aggiunta, perché in origine, prima di essere trasformato per punizione degli dei, era un essere umano.


Ma si tratta, appunto, dell'unico incidente degno di nota all'interno di una storia per il resto impeccabile.

Venendo infine agli highlights del resto dell'albo, va senza dubbio citata l'altra storia di Conan che vi trova posto, Night of the Dark God, la prima su Savage Talesnon disegnata da Barry Smith, sebbene sempre scritta da Roy Thomas. Night of the Dark God vede infatti ai disegni Gil Kane e Neal Adamsdue pezzi da novanta coadiuvati, così recitano i credits, da altre "varie mani". Mentre i mezzi toni sono opera dello specialista Pablo Marcos. (Tutte cose, comunque, che potrete verificare con comodità di persona sulla vostra copia di "Chiodi Rossi" della Hachette). E menzionerei almeno, dal lato extra-fumetto, la prima parte (di due) di The Hour of the Gnome, articolo di Roy Thomas dedicato alla figura di Martin Greenberg e alla sua casa editrice Gnome Press, con cui, negli anni cinquanta, si dedicò a pubblicare i racconti di Conan a dispetto del quasi totale oblio in cui era precipitato il personaggio insieme al suo autore Robert E. Howard



Ed eccoci arrivati al momento di dare inizio alla seconda parte del post, che sarà caratterizzata dalla consueta rassegna di immagini nell'ormai altrettanto consueta forma dei tre campioni di storia per quattro versioni. Queste ultime sono, come sempre, ordinate per data di pubblicazione:
  1. Conan the Barbarian #12 (Marvel 1971, prima apparizione in assoluto di The Dweller in the Dark!)
  2. Savage Tales #4 (Marvel 1974, prima edizione in bianco e nero e senza censure)
  3. The Conan Chronicles Volume 2 (Dark Horse 2003, ristampa da Conan the Barbarian #12)
  4. The Savage Sword of Conan Volume 1 (Dark Horse 2007, ristampa da Savage Tales). Ricordo che l'italiana The Savage Sword of Conan Collection delle edizioni Hachette riprende questa versione.

Il primo ritaglio di oggi proviene dalla pagina 3. Si notano in particolare due differenze tra le versioni a colori e le versioni in bianco e nero: 1) la differenza di formato tra comic-book e magazine ha spinto gli editor, nel passaggio da Conan the Barbarian a Savage Tales, a operare, ogni volta necessario, un taglio alla parte inferiore delle vignette; 2) la censura della Comics Code Authority costringe Barry Smith, per la pubblicazione sul comic-book, a modificare il "reggiseno" della bella regina Fatima e a coprire i due cerchietti in corrispondenza dei capezzoli con altre gocce di cristallo. La versione in bianco e nero di Savage Tales ripristinerà in questo caso il disegno così come lo aveva realizzato in origine Barry Smith.
Per il resto c'è solo da far notare un calo della qualità di stampa nel passaggio dalla versione del 1973 di Savage Tales a quella del 2007 di The Savage Sword of Conan, minore rispetto a quello subito in precedenza da The Frost Giant's Daughter ma comunque percettibile.






Nella pagina successiva, la quarta, la censura salta forse un po' meno all'occhio ma è comunque presente: riguarda stavolta la copertura dei fianchi della regina, dapprima disegnata da Barry Smith come costituita di tre fili, poi da lui moltiplicata per la pubblicazione su Conan the Barbarian. Se abbiamo la possibilità di vederla come era in origine, lo dobbiamo ancora una volta alla relativa maggiore libertà d'azione goduta dai magazine rispetto ai comic-books.






Per finire, l'ultimo campione è un ritaglio da pagina 5 dove l'operazione di censura è subito evidente nel lavoro di "sartoria" a cui sono soggette tre vignette su quattro.






E anche per stavolta è tutto. Con la prossima parte, questo lungo Quarto Intermezzo entra in dirittura d'arrivo, con un post "anomalo" che ci riporterà, per un poco, indietro fino alle origini della serie The Studio. Vi aspetto!


* * *


L'immagine di apertura del post è: Barry Windsor-Smith, Conan (from Conan Portfolio, 1975).


The Studio - Quarto intermezzo: Il Signore della giungla nascosta /1

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Tra l'ottobre 1936 e il giugno 1937, cioè in piena "era pulp", viene pubblicata, per soli tre numeri, una rivista intitolata Ka-zar the Great, con all'interno tre romanzi brevi a firma di Bob Byrd che narrano le imprese di un emulo di Tarzan chiamato appunto Ka-zar - il Signore della zanna e dell'artiglio, a quel che recita il titolo della storia introduttiva. L'ispirazione a Tarzanè talmente palese che l'autore o gli editori neanche si preoccupano che l'ultimo dei tre romanzi porti praticamente lo stesso titolo di un romanzo di Edgar Rice Burroughs uscito otto anni prima: The Lost Empire contro Tarzan and the Lost Empire. Inoltre, come Tarzan viaggia accompagnato dal fedele Jad-Bal-Ja, il leone d'oro, anche Ka-zar viaggia in compagnia di un leone, Zar, che gli ha salvato la vita in giovane età e lo ha adottato come fosse un suo cucciolo. Il nome Ka-zar significa appunto "Fratello di Zar".

E dico anche, a questo punto, che non ho letto nessuna delle tre storie scritte da Bob Byrd (e neanche sono tentato di farlo), così come non ho letto i fumetti pubblicati all'epoca dalla Timely (la futura Marvel) ispirati alla sua versione del personaggio, che sarebbe poi la prima e quindi l'originale, e che tutto ciò che so al riguardo mi deriva dalla lettura di articoli o pagine internet. In compenso, e c'è questo all'origine del mio interesse, ho una discreta familiarità con la seconda incarnazione di Ka-zar, che fa la sua prima apparizione nel numero 10 di The X-Men del marzo 1965.
Le differenze tra i due Ka-zar sono in realtà importanti, fin dal nome di battesimo: il personaggio creato da Byrd si chiamava David Rand, mentre il Ka-zar di The X-Men, tutt'ora attivo nel Marvel Universe, si chiama Lord Kevin “Reginald” Plunder. Inoltre, per rimarcare la differenza da Tarzan, il nuovo Ka-zar non viaggia più in compagnia di un leone ma di uno smilodonte, o tigre dai denti a sciabola, e non abita più nella giungla del Congo bensì in una landa tropicale chiamata Terra Selvaggia (Savage Land), annidata nel cuore dell'Antartide e invisibile da un'osservazione dall'alto. Così, se Tarzan è l'indiscusso Signore della Giungla, Ka-zar può fregiarsi quantomeno del titolo di "Signore della Giungla nascosta" (Lord of the Hidden Jungle). Va in ogni caso aggiunto che se Ka-zar, con al fianco la tigre dai denti a sciabola Zabu anziché il leone Zar, somiglia un po' meno a Tarzan, in compenso finisce per assomigliare di più a un altro tarzanide: Thun'da, personaggio dei fumetti, disegnato negli anni cinquanta da Frank Frazetta su testi di Gardner Fox, che aveva lo stesso animale da compagnia.


A parte ciò, il mondo di Ka-zar, la Terra Selvaggia, ha anche finito per diventare, man mano che i vari sceneggiatori della Marvel dicevano la loro al riguardo, un luogo immaginario che non ha nulla da invidiare, per ricercatezza e complessità, agli altri luoghi fantastici della letteratura. Vi si possono rinvenire, nella sua costituzione, un gran numero di nozioni teoriche che spaziano dalla Teosofia alle varie Genesi aliene stile Zecharia Sitchin, che vanno a fondersi con la storia geologica del pianeta Terra e con la più recente storia della civiltà umana. Ho così pensato, per meglio darvi un'idea di quel che intendo dire, di tradurre da un più lungo ed esaustivo articolo sulla Terra Selvaggia la parte relativa alla sua storia, dai primordi fino all'avvento del secondo Ka-zar, e di offrirvela come seconda parte di questo post. Si va a cominciare, con l'augurio che troviate la sua lettura così affascinante come l'ho trovata io...


La Terra Selvaggia è una regione tropicale circondata da vulcani situata nel cuore dell’Antartide creata oltre 200 milioni di anni fa dagli alieni Nuwali come una di tante "riserve di caccia" planetarie su richiesta di alieni dai poteri quasi divini, provenienti da altre dimensioni e conosciuti come i Beyonder (da non confondere con il Beyonder delle Guerre Segrete). I Nuwali popolarono la Terra Selvaggia con la vita terrestre dell'epoca, tra i cui rappresentanti spiccavano i dinosauri; poi, man mano che la flora e la fauna della Terra cambiavano nel corso dei milioni di anni successivi, integrarono la loro riserva di caccia con i mammiferi preistorici e i primi ominidi, o "uomini-scimmia". Quando, circa 50 milioni di anni fa, i continenti della Terra si spostarono, i Nuwali incrementarono il numero di vulcani della Terra Selvaggia per preservarne lo status tropicale. Di quel che successe alla Terra Selvaggia nei centomila anni successivi la partenza dei Nuwali, nel 200.000 a.C, si sa poco. della storia della Terra Selvaggia per oltre un millennio, sebbene sia noto che una fazione dei superumani conosciuti come Eterni vi dimorò almeno brevemente, lasciandosi alle spalle un complesso di templi. Intorno al 18.500 a.C., la Terra Selvaggia fu colonizzata dagli umani di Atlantide, che esportarono la sua vita preistorica in tutto il loro impero importandovi in cambio unicorni e altre creature mistiche. Gli scienziati di Atlantide estesero l'effetto tropicale, creando un centro ricreativo/commerciale chiamato "Pangea", che in Atlantideo significa "paradiso". Alterarono geneticamente gli uomini-scimmia in versioni umanoidi di uccelli, scimmie, pesci e altri animali. Uomini-bestia che, messi al lavoro come braccianti, si dimostrarono tutt’altro che soddisfatti della loro condizione di servitù e che, rivoltatisi in seguito all'automazione di Pangea, dettero il via alla Prima Guerra di Pangea per poi essere autorizzati a colonizzare alcune aree non popolate ma rese abitabili dall'effetto Nuwali.


Mappa della Terra Selvaggia (1983).


Nel 18.000 a. C., una serie di conflitti alieni e mistici provocarono il Grande Cataclisma, facendo sprofondare Atlantide e mettendo fine al suo impero, ma la Terra Selvaggia e Pangea furono protette dall'inondazione dalle montagne che le circondavano. I Beyonder, dopo aver mantenuto sotto osservazione la loro riserva di caccia nel corso dei millenni, inviarono degli agenti operativi fortisquiani, più tardi conosciuti come i Custodi di Arturo, per riparare il suo sistema ambientale, ma nonostante ciò oltre la metà della popolazione morì. Alcuni sopravvissuti mantennero viva la cultura di Atlantide in città come Lemura e Sylanda; altri dimenticarono le loro origini, diventando antenati degli "uomini della palude" e di altre tribù. Gli uomini-bestia svilupparono le loro  proprie società, a volte, come nel caso degli Aeriani e dei Pteron, ricorrendo alla guerra. Ogni mille anni circa, gli alti sacerdoti eseguivano senza necessità dei sacrifici umani per "proteggere" la Terra Selvaggia. Intorno al 3000 a. C. due semidei alieni dimorarono per breve tempo nella Terra Selvaggia nella loro dimora, e ad un certo punto anche i Sagittariani conservarono nei suoi confini un Distruttore di Pianeti con un gigantesco robot, chiamato Umbu, a proteggerlo. Fu verso la metà del XIII secolo, che vi si stabilì lo stregone esiliato Khor. Mentre nel 1380, un altro stregone, Belasco, trovò la sua strada per la Terra Selvaggia, presumibilmente in opposizione al poeta Dante Alighieri. Meno di due secoli dopo, vi approdò un inglese dall'identità sconosciuta che divenne l'incarnazione del dio Garokk, adorato fin dai tempi precedenti il Cataclisma.


Il demone Belasco - Da: Ka-zar the Savage #12, March 1982
(Testi: Bruce Jones; disegni: Brent Anderson; chine: Carlos Garzon)


Negli anni 1770, il Capitano James Cook fu il primo esploratore ad attraversare il Circolo Antartico, ma apparentemente né lui né i successivi esploratori scoprirono la Terra Selvaggia. Fu a metà del XIX secolo che gli Atlantidei - cioè la razza sottomarina la cui cultura era basata sui resti di Atlantide - si ricollocarono in Antartide, così come i ribelli lemuriani conosciuti come gli Antichi. Anche esseri misteriosi come Torg e il Re dei ghiacci fecero della regione la loro casa. Vaghe notizie di regni sotterranei e dinosauri sopravvissuti cominciarono ad apparire nelle opere di autori come Edgar Allan Poe e Jules Verne, facendo capire che si stavano diffondendo voci sull’esistenza della Terra Selvaggia. Fin dal 1915, delle spedizioni polari avevano scoperto il "Vibranium antartico", un metallo distruttivo chiamato anche "anti-metallo", ma i depositi più grandi, situati entro i confini della Terra Selvaggia, rimasero sconosciuti. Il dittatore nazista Adolph Hitler reclamò l'Antartide nel 1940 e un anno dopo un cacciatorpediniere britannico e un u-boat nazista svanirono nella Terra Selvaggia, combattendo poi per decenni una guerra privata; l'u-boat in questione potrebbe aver attaccato la spedizione antartica di Elton Morrow. A un certo punto, i nazisti costruirono anche una loro base all'interno della Terra Selvaggia, i cui obiettivi e il cui destino non furono mai resi noti ma le cui attività potrebbero essere state spostate su un'isola vicina. Dopo la guerra, la scienziata Montgomery Ford, armata di un prototipo laser, raggiunse la Terra Selvaggia e circolò la voce che anche gli alti gerarchi nazisti fossero fuggiti in Antartide. In effetti, rapporti non verificati affermano che quando l'ammiraglio Richard Byrd organizzò le sue spedizioni al Polo Sud nel 1947 e nel 1956, scoprì la Terra Selvaggia, finendo anche per scontrarsi con il cosiddetto "ultimo battaglione" di Hitler, sebbene questa affermazione appaia discutibile. Capitava inoltre che, di quando in quando, delle distorsioni spaziotemporali facessero finire navicelle e aerei nella Terra Selvaggia, dove i sopravvissuti all'evento si univano alla popolazione.

Più di vent'anni fa, il nobile britannico Robert Plunder, alla ricerca di Vibranio, riuscì a farsi strada fino alla Terra Selvaggia. Tornato in Inghilterra, Plunder fu minacciato da coloro che ambivano a conoscere il suo segreto; tornò così nella Terra Selvaggia con il figlio Kevin, di nove anni, che rimase orfano quando Robert fu ucciso dall’uomo-scimmia Maa-Gor. Kevin sopravvisse grazie al tempestivo intervento della tigre a denti a sciabola più tardi conosciuta come Zabu, che lo adottò. Forse reso più potente dalla permanenza nel misterioso "Luogo delle Nebbie", Kevin diventò adulto nella Terra Selvaggia fino a divenire l'avventuriero noto con il nome di Ka-Zar.


Qui finisce la parte di articolo relativa alla storia della terra Selvaggia. E anche il post. Qualcuno potrà forse chiedersi il perché di una simile brusca deviazione rispetto alle parti precedenti del Quarto Intermezzo, e potrebbe inoltre obiettare che tutto questo ha a che fare più con il mio discorso sui Tarzanidi che con la serie di "The Studio". In un certo senso è così, ma se avrete la pazienza di seguirmi anche nel prossimo appuntamento vedrete come tutto tornerà magicamente a ricollegarsi con quel che precede. Vi aspetto!


* * *


L'illustrazione di apertura del post è: Dan Morton, Ka-zar and Zabu with Coda.

The Studio - Quarto intermezzo: Il Signore della giungla nascosta /2

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Quando, nel luglio 1974, mi diressi, come di consueto, all'edicola sotto casa e vi acquistai il numero 33 della collana Gli albi dei supereroi, il nono a ospitare le avventure di Conan il barbaro, non sapevo ancora che da quel momento in avanti il mio modo di guardare al fumetto sarebbe mutato per sempre. La storia di apertura dell'albo, La notte dei giganti (The Frost Giant's Daughter), era ancora una di quelle tratte dai racconti di Robert Ervin Howard, il creatore di Conan, e al suo timone vi erano Roy Thomas ai testi e Barry Smith ai disegni. Proprio i disegni rappresentavano ai miei occhi una svolta, diversi com'erano da tutti gli altri che conoscevo, compreso quelli realizzati in precedenza dallo stesso Smith.

Fu con queste parole che io esordii, oltre due anni fa, nel primo post di questo lungo viaggio che ho battezzato "The Studio". Tutto vero, ma devo ora anche aggiungere che già circa un anno prima avevo avuto un'altra folgorazione, in tono minore, al momento di mettere le mani sul numero 8 della stessa collana Gli albi dei supereroi (conosciuta anche con l'acronimo ASE), il secondo con protagonista il tarzanide Ka-Zar. Con il senno di poi, avrei forse dovuto parlarne proprio agli esordi di The Studio, ma nel dicembre 2015 la mia idea era ancora quella di ridurre all'osso il discorso, così da non proporre un numero eccessivo di post. Solo al momento di attaccare con Bernie Wrightson decisi di compiere invece un percorso più approfondito, così che le Sezioni dedicate a lui e a Jeffrey Catherine Jones hanno un numero doppio di post rispetto alle precedenti due su Barry Smith e Mike Kaluta. Approfitto perciò di questo Quarto Intermezzo, tutto dedicato a Barry Smith, per rimediare a questa lacuna.

Gli albi dei supereroi numero 8 presentava, al suo interno, quattro episodi di Ka-Zar di dieci pagine ciascuno, apparsi in origine negli USA all'interno dei numeri 3, 4, 5 e 6 di Astonishing Tales, che è poi tutto il Ka-zar disegnato da Barry Smith. Un albo, quindi, che può essere definito "speciale", sebbene non si trattò di niente di voluto da parte dall'editore italiano, bensì di una coincidenza fortunata frutto della semplice pubblicazione in ordine cronologico delle avventure del Signore della giungla nascosta. I quattro succitati numeri di Astonishing Tales uscirono, negli USA, tra il dicembre 1970 e il giugno 1971, e la loro pubblicazione coincise quindi con quella di altri cinque albi disegnati da Barry Smith: i numeri 2, 3, 4, 5 e 6 di Conan the Barbarian. Ciò che veniva alla luce, mese dopo mese e albo dopo albo, era, oltre alla crescente bravura del disegnatore anglo-americano, anche il suo progressivo sottrarsi all'influenza del suo idolo giovanile Jack Kirby (1917-1994) in favore di una sempre più costante attenzione rivolta all'insegnamento di altri Maestri, del fumetto, dell'illustrazione e della pittura. I nomi che lo stesso Barry Smith fa in quel periodo sono quelli di Hal Foster (1892-1982, Tarzan e Prince Valiant), di Alphonse Mucha (1860-1939) e della corrente pittorica preraffaellita, fondata nel 1848 dagli sforzi congiunti di  William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti. Di quest'ultima influenza in particolare, mi sono già occupato nel quarto post di The Studio in riferimento all'evidente influenza preraffaellita sui disegni di The Frost Giant's Daughter.

Un modo secondo me efficace per mostrare questa de-kirbyzzazione in corso, è di presentare, l'una di seguito all'altra, le quattro splash pages di apertura delle quattro storie di Ka-Zar ospitate sul numero 8 de Gli albi dei supereroi. Ed è ciò che vado a fare, ricordandovi ancora che queste quattro sono le uniche storie con protagonista il Signore della giungla nascosta disegnate da Barry Smith, che fu poi costretto, con il passaggio della periodicità di Conan the Barbarian da bimestrale a mensile, a dedicarsi completamente alle storie del barbaro di Howard.



L'appuntamento in edicola con Gli albi dei supereroi era per me, in quegli anni ormai trascorsi da quasi mezzo secolo, uno dei più graditi, anche per la particolare formula editoriale della collana di variare personaggio di albo in albo, sebbene fu proprio questa sua caratteristica a decretarne, dopo 49 numeri, la prematura fine.* Successe infatti che con il tempo molti lettori cominciarono a concentrarsi sui personaggi che preferivano, tralasciando di comprare i numeri in cui comparivano gli altri, e devo dire che la cosa per me più singolare di tutte è stato scoprire, alla fine, che i personaggi che vendevano di più in Italia, I difensori e Conan su tutti, erano gli stessi che godevano di maggior fortuna nel paese d'origine. In altre parole, nonostante le diverse eredità culturali, i lettori di qua e di là dall'Atlantico sembravano condividere gli stessi gusti. Gli ASE furono inoltre la prima serie in assoluto dell'avventura editoriale Marvel-Corno a chiudere i battenti, seguita immediatamente dopo da Devil. E se anche io ero ormai abbastanza cresciuto da comprendere che le cose sono destinate a mutare nel tempo, l'effetto su di me fu comunque quello di un piccolo colpo al cuore.

Ma è ora arrivato il momento di chiudere il cerchio e svelare, come promesso nel post della volta scorsa, la reale natura della connessione tra questi due ultimi post dedicati a Ka-Zar e i precedenti quattro su Conan. A parte, s'intende, quella già stabilita che tutto è comunque nelle mani di un unico disegnatore, Barry Smith. Le due parole magiche sono Savage Tales, poiché è proprio su questo magazine, e precisamente nel suo primo e unico Annual (la serie è sopravvissuta solo per 11 numeri), che compaiono le ristampe in scale di grigi delle prime tre storie delle quattro pubblicate a colori su Astonishing Tales, che sarebbero poi le tre che formano il breve ciclo incentrato sulla figura di Garokk, il Dio Sole.
Con che risultato? Fate pure da soli il confronto.

Da "Back to Savage Land" - Astonishing Tales #3 pg 3 e Savage Tales Annual #1 pg 40



Da "The Sun God" - Astonishing Tales #4 pg 4 e Savage Tales Annual #1 pg 51



Da "Rampage" - Astonishing Tales #5 pg 2 e Savage Tales Annual #1 pg 59



Ma si era nel frattempo anche conclusa, con il numero 4 di Savage Tales e le parti 2 e 3 di Red Nails, la prima fase della carriera artistica di Barry Smith. Presa la decisione di lasciare la Marvel e il mondo del fumetto in generale, il giovane artista fonda la propria casa editrice, la Gorblimey Press, per dedicarsi (come ho raccontato a suo tempo nel quinto post della serie The Studio) alla produzione e alla vendita dei suoi poster, portfolio e stampe d'arte. In quanto a Savage Tales, ospitò Conan ancora soltanto per un numero, il quinto, prima che il personaggio, ormai famoso, fosse dirottato su un nuovo magazine creato ad hoc, The Savage Sword of Conan.

L'editoriale con cui Roy Thomas, sul numero 5 di Savage Tales, annuncia la prosecuzione delle avventure
del suo Conan su The Savage Sword of Conan.

Si rivelò una decisione fatale per quello che era stato, in ordine di tempo, il secondo magazine della Marvel a vedere la luce, dopo il fallimentare tentativo del 1968 con The Spectacular Spider-Man, durato solo due numeri. Le spalle pur larghe di Ka-Zar non si dimostrarono infatti in grado di reggere da sole il peso di Savage Tales, che, orfana di Conan, sopravvisse per soli altri sei numeri (più l'Annual).


* * *


* A questo link, la cronologia completa de Gli albi dei supereroi.

L'immagine di apertura del post è un dettaglio della copertina di Neal Adams per Savage Tales #5.

Incantesimi cinemusicali /9: Inhibition

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Tornano sul blog, a nessuna richiesta, gli Incantesimi cinemusicali, e lo fanno con un titolo, Inhibition, che appartiene a quel numero imprecisato di pellicole che mi hanno catturato fin dalla prima visione e richiedono che ogni tot di tempo io torni a immergermi in loro. Sebbene, forse, nel caso specifico di oggi, più che di "Incantesimo cinemusicale" si dovrebbe parlare di "Incantesimo cinemusicalpoetico". Vedremo presto perché, ma c'è prima da spendere due parole sul film.

E comincio col dire che siamo, con Inhibition, in piena exploitation anni '70, dalle parti cioè del mio genere e periodo di cinema preferiti, quello degli anni eroici del fumo di sigaretta libero sullo schermo e in sala. Ma sebbene per un verso perfettamente inserito in questo panorama, Inhibition è anche opera singolare, che vi si erge allo stesso tempo come un unicum. Già la sua origine, del resto, lo designa come tale: film d'esordio alla regia di Paolo Poeti, e unico suo vero film (Poeti si è poi occupato della regia di docu-film a carattere musicale, film per la tv e serie televisive), risulta anche essere l'unico soggetto/sceneggiatura realizzato in solitaria da certo Adriano Belli, che vanta per il resto solo collaborazioni alla scrittura in altri tre film realizzati tra i '60 e i '70 e due sceneggiature in proprio per due cartoni animati su Alì Baba negli anni '90 (fonte IMDB). Chiaro segno, mi pare, che nella vita si è occupato principalmente di altro.

La storia da lui raccontata in Inhibition, è quella di una donna francese sulla trentina, di nome Carol Levis (interpretata da Claudine Beccarie), che atterra in un non specificato paese dell'Africa settentrionale per prendere possesso della ricca proprietà africana, con scuderie annesse, lasciatele in eredità dal marito defunto. La accompagna la sua giovane segretaria Anna (Ilona Staller), che ha tra le sue mansioni anche quella di soddisfare a comando le imperiose esigenze sessuali della datrice di lavoro. La bella Carol si porta tuttavia con sé da Parigi un intero bagaglio di frustrazioni passate - frutto essenzialmente di rapporti d'amore malati, non ultimo quello col marito - e tutta la sua paura del futuro, dettata dalla consapevolezza che lo scorrere del tempo la svuoterà pian piano delle sue attrattive fisiche, cioè di tutto quello su cui lei ha fatto affidamento nella vita. I suoi passi si incrociano poi presto - in realtà subito, fin dal viaggio in aereo da Parigi in Africa - con quelli di un americano di nome Peter Smart (Ivan Rassimov, 1938-2003), dall'apparenza baldanzosa e sicura di sé, che ha compiuto la scelta radicale di lasciare la monotonia della sua tranquilla vita newyorkese per vivere di avventura in Africa. I due, per un lungo tratto di storia, si sfiorano soltanto, ma poi il comune interesse per i cavalli da corsa e qualche tiro della sorte li porta a confrontarsi con sempre maggiore assiduità sebbene senza mai rinunciare del tutto alla reciproca diffidenza. Ed è lungo tutto questo percorso che soprattutto si manifesta la vera singolarità della pellicola, con la sua continua sottrazione di punti stabili che impedisce alla storia di prendere una qualunque piega definita e/o prevedibile. I protagonisti sembrano in realtà muoversi sempre appena al di qua del ciglio del paradiso, ben esemplificato nel film dai tersi paesaggi africani e da certi nostalgici rimandi alla cultura hippy, ma il buio delle loro anime li trattiene sempre dal compiere il passo decisivo, mentre i metri di pellicola continuano a scorrere attraversati in tutta la loro lunghezza - a eccezione delle parti in cui è di scena il sesso, le uniche dove la forza della vita riconquista il suo primato - da una profonda nota pessimista e malinconica. Un buon esempio di ciò è offerto dal primo dei due spezzoni di film che ho scelto di pubblicare in questo post, il cui contenuto spiega anche il perché, come ho detto in precedenza, questo particolare Incantesimo cinemusicale sia meglio definibile nei termini di un Incantesimo cinemusicalpoetico.


Il film, per fortuna, non si perde nella pedanteria di dire chi sia il poeta francese. Sta allo spettatore sapere. Per quel che mi riguarda, io non ho incontrato la minima difficoltà, poiché la poesia citata mi accompagna fin dai tempi della mia adolescenza ed è tra le poesie che conosco meglio in assoluto: L'Éternité di Arthur Rimbaud.
Eccola nella traduzione di Ivos Margoni (Feltrinelli, 1964):

È ritrovata!
Che? l'eternità.
È il mare che si fonde
Con il sole.

Anima mia eterna,
Osserva il tuo voto
Malgrado la notte sola
Ed il giorno di fuoco.

Dunque ti disciogli
Dagli umani suffragi,
Dagli slanci comuni!
E voli a seconda...

- Mai la speranza.
Nessun orietur.
Scienza e pazienza,
Il supplizio è certo.

Non c'è più domani,
Braci di raso,
E l'ardore vostro
È il dovere.

È ritrovata!
Che? l'eternità.
È il mare che si fonde
Con il sole.


Su un piano più tecnico, si possono secondo me tranquillamente enumerare tra i punti di forza di Inhibition: la più che dignitosa scrittura di Antonio Belli, la buona prova registica di Paolo Poeti (che si firma però, facendo sua una moda del periodo, Paul Price) e l'ottimo livello di recitazione offerto dagli attori, sia protagonisti che comprimari. Ma senza dubbio fondamentale è anche l'apporto al film della lussureggiante colonna sonora firmata da Guido e Maurizio De Angelis, buona al punto da far guadagnare alla pellicola un posto in questa particolare rubrica del mio blog.


Il suo tema principale è in realtà concepito soprattutto come accompagnamento alle numerose scene erotiche del film, ed io lo avrei volentieri proposto insieme a una di queste, ma poiché temo anche, continuando di questo passo, di trovarmi alla fine con l'accesso limitato al blog, ho scelto di presentare semplicemente la parte di film relativa ai titoli di testa, unica altra occasione in cui è possibile godersi appieno la bella colonna sonora. E poiché in questi minuti iniziali alle parti musicali si alternano anche parti di parlato, è altrettanto possibile, vedendoli, farsi un'idea della pellicola in senso più generale. Buona visione e buon ascolto, dunque, se si va di seguirmi fino in fondo.


Nota finale: Non è in realtà neanche la prima volta che io mi occupo di questo film nel blog. Lo avevo già chiamato in causa due mesi e mezzo fa, in occasione della seconda parte della presentazione della testata dell'Anno Quinto, in riferimento al mazzo dei tarocchi realizzati da Fergus Hall per il film del ciclo Agente 007, Vivi e lascia morire, poi divenuti noti come Tarocchi delle streghe.

Alice in Wonderland o delle Sei Cose Impossibili

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E adesso? Adesso che cavolo scrivo? Ecco la mia reazione a caldo davanti a questa pagina bianca (o grigio scura) che dovrebbe esser riempita nientemeno che da un elenco di "sei cose impossibili". Siamo, per chiarire, dalle parti di un meme, o tag che dir si voglia, in cui sono stato coinvolto dall'amico blogger Roberto Nicolini del blog OpinioniWeb-xyz. La nomina, o S-TAG-giata come l'ha definita lui, risale in verità a una quantità spropositata di tempo fa, precisamente all'ottobre 2017, ma rimanda e rimanda mi trovo solo ora a provare a cavarne fuori qualcosa. "Provare"è la parola giusta, visto che ho stavolta la netta sensazione di trovarmi davanti a qualcosa di più difficile del solito.
Per fortuna, almeno il nome del meme mi suona bene: Alice in Wonderland. E mi invoglia a procedere nonostante tutto. In fondo, come si fa ad astenersi dal partecipare a un meme/tag che omaggia nel nome una delle tue opere letterarie preferite?
Orsù, dunque, bando alle ciance e buttiamoci nella mischia!

Tutto è nato, in origine, da un'idea di una blogger dal fantasioso nome di Cuore Rotante, che si è proposta di, cito testualmente, "creare un Tag con l’augurio che, come diceva la Regina ad Alice, allenandoci giornalmente a pensare a sei cose impossibili, possiamo avere quello stimolo in più che ci aiuti a credere che le giornate, a volte, possano anche stupirci ed essere migliori delle nostre aspettative, andando al di là di ogni nostro scetticismo.”
Una bella definizione, a cui lei ha fatto seguire queste poche regolette:
  • inserire il logo di Alice in Wonderland (quello che vedete qui sopra)
  • descrivere sei cose impossibili
  • nominare tutti i follower che volete

Ora, per come l'ho capita io, queste sei cose impossibili del tutto impossibili non devono esserlo, pena perdersi in un pensare errabondo e ozioso. (Un esempio: che senso avrebbe per me pensare ogni santo giorno, prima di colazione, che vorrei vedermi un'alba marziana dal vivo quando so che si tratta di un desiderio completamente irrealizzabile?). Dovrebbero invece piuttosto rappresentare un nostro ideale di auto-realizzazione a cui tendere con tutti noi stessi. Così la vedo io ed è appunto in tale direzione che, interpretazione corretta o meno, ho deciso di muovermi.

Ad accompagnarmi in questo breve ma intenso viaggio sarà soprattutto la stessa Alice, sebbene, da un certo punto in avanti, si unirà a lei anche uno dei numi tutelari del mio blog: Marcel Proust. Ma non ho neanche voluto mancare di approfittare un poco, come già fatto in alcune rare occasioni in passato, della cattiveria della "filosofia del martello" propugnata dal buon vecchio Friedrich Nietzsche (e non da Thor come credono alcuni). Con il risultato che segue.


Alice in Wonderland. Photo by Annie Leibovitz for Vogue (2003)


Le mie sei cose "impossibili"

1. "Nel pomeriggio tutto d'oro" * del 4 luglio 1862, quando, durante una gita in barca, Lewis Carroll narra per la prima volta ad Alice Pleasance Liddell la storia di Alice in Wonderland, la bambina aveva dieci anni e qualcosa. C'erano in quella stessa occasione, in barca con Alice e Carroll, anche le due sorelle di lei, Lorina Charlotte di tredici anni e Edith di otto.
Bene, la prima delle cose impossibili a cui aspiro è ricordare per filo e per segno tutto quello che ho vissuto nei miei primi dieci anni e qualcosa di vita, che sono esattamente quelli che ho trascorso nella casa in cui ho scelto di nascere. Questo da solo sarebbe già sufficiente a realizzare l'obiettivo massimo della mia esistenza, ma poiché i punti sono sei andiamo pure avanti.

2. E vedo subito la tana del coniglio, dove aspiro invece a farci precipitare dentro tutti i burocrati, tecnocrati ed Eurocrati che funestano quotidianamente le nostre vite. A seguire, una bella colata di cemento.

3. Il paese delle meraviglie si trova, in fin dei conti, dentro Alice, e un'altra delle cose massime a cui io aspiro è senza dubbio vivere ogni istante nella chiara consapevolezza che "io" non sono una cosa tra le altre cose bensì lo spazio in cui tutte le cose sono.

4. Alice in Wonderlandè senza dubbio un'opera d'arte, e anch'io aspiro a creare opere d'arte. Ma anche a non dimenticarmi mai che fare arte non è un fine ma un mezzo e che creare (scrivere, dipingere, comporre musica, ecc.) significa in primo luogo, al di là di ogni aspetto contingente, ritrovare e rimettersi sulla strada di casa.
Ma chi vedo ora là, tra gli invitati al tavolo da tè del cappellaio matto? Nientemeno che uno dei numi tutelari del mio blog, il buon Marcel Proust. E ha subito qualcosa da dire al riguardo, come del resto ha qualcosa da dire al riguardo di qualunque cosa. Sentiamolo: 
"Ogni artista appare come il cittadino di una patria conosciuta, da lui stesso dimenticata, diversa da quella da cui giungerà, salpando per la Terra, un altro grande artista. [...] Quando la visione dell'universo si modifica, si purifica, diviene più adeguata al ricordo della patria interiore, è naturale che questo si traduca in un'alterazione generale nella sonorità del musicista, come nel colore del pittore." **
Parole sante, mio caro Marcel, parole sante. Non solo hai dato una delle migliori definizioni possibili di cosa è lo stile in un artista ma hai anche enunciato una grande verità.

5. Quello descritto da Lewis Carroll è un mondo in cui vige un paradigma dominante diverso dal nostro. Nessuno dei due paradigmi, né l'altro né il nostro, è destinato a durare in eterno. Alice si risveglia dal suo sogno ed è bene che anche noi ci prepariamo a risvegliarci dal nostro. Quando sarà. Il cambio di paradigma si sente comunque già nell'aria ed è soprattutto chiaro che è imminente perché le forze che vi oppongono sono oggi più agguerrite più che mai e hanno occupato ogni posto disponibile nelle istituzioni e nell'informazione, soprattutto della carta stampata e televisiva. Si aggrappano con le unghie alla loro visione fossile del mondo e avversano e perseguitano con tutte le loro forze qualunque persona o gruppo di persone prospetti all'orizzonte una pur remota possibilità di cambiamento. E' del resto perfettamente naturale che il drago ferito, prima di vedersi tagliata la testa, sputi fuori tutto il suo veleno.

6. E ora per finire, dopo aver iniziato citando la mia nascita, mi sembra giusto terminare con qualcosa che riguardi la mia morte. Dopotutto anche della piccola Alice rimane ormai solo polvere, come è nel destino di qualunque essere che sia nato o nascerà su questo pianeta. Rimanere completamente inalterato al momento della mia morte fisica, come se riguardasse non me ma un perfetto estraneo, ecco un'altra cosa a cui aspiro.
Ed ecco anche che Marcel, tra un sorso e l'altro di tè, mi invita a ricordare come lui una volta espresse all'incirca lo stesso concetto, quando scrisse che noi "...non viviamo soli ma incatenati a un altro essere di una specie differente dal quale ci separano degli abissi, un essere che non ci conosce, e dal quale è impossibile farsi capire: il nostro corpo." ***

Je te salue, mon cher ami.

Marcel Proust fotografato da Man Ray sul letto di morte (1922)


Le mie nomine

Visto che, secondo le regole stabilite da Cuore Rotante, non c'è alcun limite al numero di follower che si possono inguaiare, allora nomino tutti quelli che sono riusciti ad arrivare fino alla fine della lettura di questo post. Buon lavoro, a chi vorrà.


* * *

Fonti delle citazioni

* All in the golden afternoon... è la frase di apertura di Alice in Wonderland di Lewis Carroll.

** Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto III. I Guermantes. Rizzoli 1991, pag.334. Traduzione di Maria Teresa Nessi Somaini.

*** Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto V. La prigioniera. Rizzoli 1991, pag.307. Traduzione di Maria Teresa Nessi Somaini.

Insieme raccontiamo 30 - 2122: i sopravvissuti

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Con questo post rientro nei ranghi e riprendo a partecipare alla bella iniziativa di Patricia Moll (qui il post di lancio sul blog Myrtilla's House) dopo alcuni mesi di pausa. Nella speranza che sia di buon auspicio a che riprenda fiato la sezione narrativa del mio blog, anche se trovo prematuro proporre una valutazione così ottimistica della situazione. Mi accontento, per il momento, di questo piccolo nuovo passo, che alcuni di voi, almeno gli esperti del genere, avranno intuito essere anche un modestissimo omaggio a un vecchio classico del cinema di fantascienza, un film del 1973 intitolato, da noi, 2022: i sopravvissuti (mentre il suo titolo originale è Soylent Green). Per ragioni di verosimiglianza, ho posticipato tutto di un secolo e tenuto conto della rivoluzione informatica successa nel frattempo, ma spero di essere riuscito lo stesso a conservare almeno una goccia dello spirito originario del film.




Ho scelto, anche stavolta, di adottare la formula 200/300 parole, senza però considerare nel conteggio il testo della canzone di Francesco Guccini Il vecchio e il bambino, da me utilizzata. Con quale risultato, lo lascio giudicare a voi.



#insiemeraccontiamo
#raccontibrevi


* * *


L'incipit di Patricia

Con la mente richiamò a sé l’ YTP 100, ultimo modello in fatto di tecnologia. Almeno per una settimana, perché un qualunque aggeggio dopo sette giorni era obsoleto. L'arte tecnologica era avanzatissima. A volte faticava a starle dietro ma col lavoro che faceva doveva adeguarsi.
Gli ordinò di scrivere.


Il mio finale (234 parole)

Un vecchio e un bambino si preser per mano 
e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano
e il sole brillava di luce non vera...

L' immensa pianura sembrava arrivare
fin dove l'occhio di un uomo poteva guardare
e tutto d' intorno non c'era nessuno:
solo il tetro contorno di torri di fumo...
I due camminavano, il giorno cadeva,
il vecchio parlava e piano piangeva:
con l' anima assente, con gli occhi bagnati,
seguiva il ricordo di miti passati...

I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
non sanno distinguere il vero dai sogni,
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero...

E il vecchio diceva, guardando lontano:
"Immagina questo coperto di grano,
immagina i frutti e immagina i fiori
e pensa alle voci e pensa ai colori

e in questa pianura, fin dove si perde,
crescevano gli alberi e tutto era verde,
cadeva la pioggia, segnavano i soli
il ritmo dell' uomo e delle stagioni..."

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
"Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"

Aggiunse la foto di un campo di grano e pensò: Invio!
Così, grazie all'efficacia della loro rete clandestina, un altro dei numerosi testi messi all'indice intorno alla metà del secolo scorso aveva appena superato la sempre più fallace barriera della censura governativa ed era tornato in circolazione. Lui, in particolare, era destinato alla diffusione dei testi proibiti in lingua italiana ed erano già decine quelli, di ogni genere e provenienza, che aveva disseminato in giro. Uniti a quelli diffusi nelle altre lingue, il loro effetto cominciava a farsi sentire. La maggior parte della gente aveva ormai compreso, a dispetto della martellante propaganda dei media pilotati dai gerarchi planetari, che ancora meno di un secolo fa era esistita una realtà molto diversa da quella che conoscevano loro e ne stava traendo delle conclusioni. Cominciavano anche a comprendere, pian piano, la differenza tra naturale e artificiale, tra reale e virtuale. E presto, forse molto presto, avrebbero presentato un conto salato a coloro che si erano arrogati il diritto di guidare il mondo.

Il ribelle sorrise tra sé e sé, mentre si apprestava a usare ancora il suo YTP 100 per diffondere il successivo testo proibito: un estratto da “Petrolio”, di Pier Paolo Pasolini. Scelse, per accompagnarlo, una bella foto di lucciole risplendenti nella notte. Sembra proprio il riflesso di un cielo stellato tra l’erba, pensò, gustandosi il sapore arcaico, ma sempre più familiare, di quelle parole.


La foto scelta da Patricia Moll per accompagnare il suo incipit


* * *


L'immagine di apertura del post è un frame del film 2022: i sopravvissuti (Soylent Green).

The Studio Section Six - 1976-79: Gli anni di The Studio /1

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Se un giorno dovessi decidere di organizzare questa lunga serie di articoli in un unico discorso continuativo, allora tutto dovrebbe cominciare da questo post, cioè dal parlare degli anni che videro effettivamente in essere l'esperienza di The Studio e dal dire cosa sia da intendersi effettivamente con questo nome, che io ho finora usato in libertà senza quasi spendere una parola sul suo vero significato e sulla sua origine. Il punto è che mi è piaciuto seguire una strada diversa e svelare un passo alla volta l'identità dei suoi quattro magnifici protagonisti: Barry Smith (che modificherà il suo cognome in Windsor-Smith), Jeffrey "Jeff" Jones, Bernie "Berni" Wrightson e Michael William "Mike" Kaluta, un collettivo di artisti che ha dato vita, tra il 1976 e il 1979, a un'esperienza tra le più celebrate ma anche senza dubbio tra le più ricche di paradossi dell'intera storia del fumetto.
E possiamo cominciare con il dire che il primo di questi paradossi è che l'esperienza di The Studio ha in realtà così poco a che fare con il fumetto da nascere addirittura in contrapposizione a questo medium espressivo o arte che dir si voglia. Ricorderete forse, a questo proposito, come io abbia concluso ognuna delle quattro prime Sezioni sempre più o meno allo stesso modo, con l'artista di turno che abbandona l'industria del fumetto per dedicarsi ad altro, in particolare all'illustrazione e alla pittura. I motivi sono vari, dal bisogno di indipendenza alla voglia di crescere e sperimentare nuove strade, alla necessità di metter la parola fine alle dispute infinite su deadline, copyright e percentuali. Barry Smith fonderà addirittura una propria casa editrice, la Gorblimey Press, per rimarcare ancor più la distanza; Jones, Wrightson e Kaluta continueranno a lavorare per altri, ma in modo da garantirsi comunque la loro indipendenza. Come la si metta, una cosa è certa: la breve ma intensa esperienza di The Studio segnò per tutti e quattro i nostri protagonisti il loro punto di massima distanza dalla loro passione primigenia per il fumetto.


Jeff Jones, Chastity, 1978


Con il nome "The Studio" va quindi intesa in primo luogo un'associazione, o conventicola, di artisti, e poi, per estensione, l'esperienza di cui i quattro sono stati protagonisti. Ma The Studioè anche altro, per esempio uno spazio fisico rappresentato da un attico situato al dodicesimo piano di un edificio della Ventiseiesima West Street di New York e costituito di una sola grande stanza di 180 metri quadrati con un soffitto alto cinque metri. I quattro "fab four" del fumetto ne presero possesso e ne fecero ufficialmente il loro Studio nel giugno del 1976. E sempre The Studio si chiama un volume curato da un misterioso J.S. (alla cui reale identità non sono mai riuscito a risalire), uscito nel 1979 a testimonianza dell'esperienza stessa, nelle cui pagine sono riprodotte un bel po' delle opere realizzate dai quattro artisti dal momento della fondazione del collettivo, accompagnate da un'introduzione generale e da un intervista a ciascuno di loro.




Di Jones, Kaluta e Wrightson, abbiamo già visto che si frequentavano da anni e che per un periodo avevano anche abitato insieme. Non è invece dato sapere quando esattamente il loro cammino si sia intrecciato la prima volta con quello di Barry Smith, ma è plausibile supporre che sia successo nell'una o l'altra delle varie Convention del fumetto a cui i quattro erano spesso invitati per tenere conferenze e/o ritirare premi alla loro attività. Così come è verosimile supporre che i quattro si siano supportati a vicenda nella loro scelta di abbandonare il fumetto per dedicarsi ad altro e abbiano in questo modo gettato le basi per la nascita della loro piccola confraternita.

L'ideale perseguito dai quattro artisti, secondo il misterioso J.S. del volume The Studio, era quello di disporre di
uno studio d’artista del XIX secolo, ammobiliato con opulenti e rari oggetti d’arte, meglio se depredati dai confini dell’Impero.

Ma la realtà, di cui lui è stato diretto testimone, era un po' diversa:
Un malconcio divano in pelle collocato nell’area della reception al posto di uno ricoperto di pelli striate... una boccia piena di penny e denti di plastica collocata tra il lavabo e il frigorifero. Un ombrello capovolto  appeso a un tubo situato a più di tre metri di altezza. Una macchina fotografica antica che occhieggia con la sua eleganza a un teschio posato su una scatola di lucido da scarpe collocata su una libreria di metallo scheggiato. In un’altra parte dello Studio, una vasta collezione di provette, ampolle, cateteri, pipette e cilindri graduati su cui si rispecchia la figura di uno scheletro da scuola di medicina che oscilla con non-chalance appeso al soffitto. Ma ci sono anche spruzzate di piume dai colori vivaci, e dipinti di Rossetti e Burne-Jones, sebbene si tratti di riproduzioni. Immagini languide che condividono gli spazi delle pareti con gli schizzi, i dipinti, i poster e i biglietti da visita di un’altra generazione di un tempo e spazioUn malconcio divano in pelle è collocato nell’area della reception al posto di uno ricoperto di pelli striate. Invece di un calice alato, una boccia piena di penny e denti di plastica è collocata tra il lavabo e il frigorifero. Un ombrello capovolto pende appeso a un tubo situato a più di tre metri di altezza. Una macchina fotografica antica occhieggia con eleganza a un teschio posato su una scatola di lucido da scarpe collocata su una libreria di metallo scheggiato. In un’altra parte dello Studio, una vasta collezione di provette, ampolle, cateteri, pipette e cilindri graduati rispecchia la figura di uno scheletro da scuola di medicina che oscilla con non-chalance appeso al soffitto. Ma ci sono anche spruzzate di piume dai colori vivaci, e dipinti di Rossetti e Burne-Jones, sebbene si tratti di riproduzioni. Ma queste immagini languide condividono lo spazio delle pareti con gli schizzi, i dipinti, i poster e i biglietti da visita di una generazione di un altro spazio e di un altro tempo.


Bernie Wrightson, Ssshhh!, 1978


Proprio come i membri della confraternita preraffaellita a cui si ispirano, anche i membri del collettivo The Studio sono fermamente convinti che la vera bellezza non appartenga ai tempi presenti ma sia da ricercare da qualche parte nel passato. E non può essere certo una sorpresa per nessuno scoprire che l'effetto di questa convinzione determini, nel caso dei quattro, un'impressione ancora più anacronistica di quella prodotta ai loro tempi da Rossetti, Lord Leighton e tutti gli altri preraffaelliti.
Il più fedele seguace di quest'ultimi è senza dubbio Barry Windsor-Smith, non a caso nato sul suolo britannico, ed è infatti lui, più dei suoi compagni, a cercare soprattutto nel medioevo il suo ideale di bellezza. Jeff Jones gli si avvicina molto come ispirazione, ma al primo posto per lui viene il suo connazionale Whistler, con la sua tavolozza di colori autunnali. Bernie Wrightson guarda invece in particolare ai vecchi incisori europei, Gustave Dorè in testa. Mentre Kaluta ha una passione per l'art nouveau e dintorni: Klimt, Mucha, Kupka...

Come scrive ancora il nostro misterioso J.S.:
La loro opera è radicata nel rifiuto assoluto dell'attenzione al quotidiano che permeava l’atmosfera degli anni ’60 e nella sete di occulto, di mistero, di erotismo e religiosità, se possibile intrecciate tutte insieme in simboli o immagini. Rappresentano, come gruppo, la componente più radicale del fumetto esoterico, del tutto disinteressata al realismo sociale di Robert Crumb o Gilbert Shelton. Mentre come pittori hanno poco o nessun interesse nei confronti del moderno espressionismo astratto o nel suo ramo collaterale, la Pop Art.

Non che non volessero davvero agire sulla società, ma volevano farlo nello stesso modo teorizzato un secolo prima da John Ruskin o William Morris: infiltrando la bellezza nelle pieghe del quotidiano. E ogni loro poster affisso alla parete di una stanza era un minuscolo passo mosso in direzione di quest'obiettivo.

E' comunque evidente come la rottura dei quattro con il loro passato fumettistico avvenga in realtà all'insegna della continuità stilistica e di contenuti. E anche questo può forse rientrare tra i paradossi a cui accennavo sopra. Il soggetto delle prime opere in proprio di Barry Windsor-Smith è ancora lo stesso Conan che gli ha procurato legioni di fan ai tempi di Conan the Barbarian. Così come il tributo al corpo femminile al centro delle rivoluzionarie tavole in bianco e nero di Idyl, rimane il tema centrale delle tele di Jeff Jones. In quanto a Kaluta, le pagine da lui disegnate per il fumetto noir The Shadow, trasudavano già tutto il suo amore per l'art nouveau. E Bernie Wrightson? Nel suo caso sarà in particolare la persistenza di una sua ossessione a garantire la continuità con la sua precedente produzione a fumetti. Lo vedremo in uno dei prossimi post di questa Sezione. Intanto, ad aspettarci al varco, ci sono un paio di battaglie, tra cui una antropomiomachia.


Barry Windsor-Smith, The Ram and the Peacock, 1974


* * *


The Studio - Complete Comics Chronology V: February 1970 - Maj 1970


Jeffrey Catherine Jones: "The return of the fiend" (7 pg.)
All Stars #2 - San Francisco Comic Book Co., 1970 (Fanzine)
Editors: Marty Arbunish, Bill Dubay
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Illustration ("Conan")
Anomaly #2 - Jan S. Strnad; 1970 (Fanzine)
Editors: Jan Steven Strnad, Don Bain
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover
Comicology #6 - Doug Fratz; 1970 (Fanzine)
Editor: Doug Fratz
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Conan" and other 3 b/w illustrations (4 pg.)
Seraphim #5 - Tom Veilleux, 1970 (Fanzine)
Editor: Tom Veilleux
Jeffrey Catherine Jones: Illustration (1 pg.)
Seraphim #5 - Tom Veilleux, 1970 (Fanzine)
Editor: Tom Veilleux
Barry Windsor-Smith: "The Warlock Tree!" (7 pg.)
Chamber of Darkness #3 - Marvel Comics group, February 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Gerry Conway
Inker: Syd Shores
Michael William Kaluta: "Trick or Treat" (2 pg.)
The Witching Hour #7 - DC Comics, February 1970 (Comic-book)
Editor: Dick Giordano
Writer: Jack Miller
Jeffrey Catherine Jones: Cover art
Web Of Horror #2 - Major Magazines, February 1970 (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Mother Toad" (5 pg.)
Web Of Horror #2 - Major Magazines, February 1970 (Magazine) (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Writer: Terry Bisson
Michael William Kaluta: "Sea Of Graves" (7 pg.)
Web Of Horror #2 - Major Magazines, February 1970 (Magazine) (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Writer: Eando Binder
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Breathless!" (7 pg.)
Web Of Horror #2 - Major Magazines, February 1970 (Magazine) (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Writer: Marv Wolfman
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Limpstrel 1 & 2" (2 pg.)
Witzend #7 - Wonderful Publishing Company, Spring 1970 (Fanzine)
Editor: Bill Pearson
Barry Windsor-Smith: "The Sword And The Sorcerers!"* (7 pg.) (Link)
Chamber of Darkness #4 - Marvel Comics group, April 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas
Jeffrey Catherine Jones: Back cover
ERBdom #33 - Camille Cazedessus Jr., April 1970 (Fanzine)
Editor: Camille Cazedessus Jr.
Jeffrey Catherine Jones: Cover (w/ Vaughn Bodé) (Link)
Vampirella #4 - Warren Publishing, April 1970 (Magazine)
Editor: Bill Parente
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover art + "Web Of Horror Comic Artist Contest" centerfold
Web Of Horror #3 - Major Magazines, April 1970 (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Michael William Kaluta: "Dead End" (6 pg.)
Web Of Horror #3 - Major Magazines, April 1970 (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Writer: Otto Oscar Binder
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Feed It!" (6 pg.)
Web Of Horror #3 - Major Magazines, April 1970 (Magazine)
Editor: Terry Bisson
Writer: Mike Friedrich
Jeffrey Catherine Jones: Cover art
Eerie #27 - Warren Publishing, Maj 1970 (Magazine)
Editor: Bill Parente
Michael William 'Mike' Kaluta: Interview w/ 2 illustrations
I'll Be Damned #1 - Damnation Enterprises, Maj 1970 (Fanzine)
Editor: Mark A. Feldman

Clicca sulla scritta blu per vedere in grande formato, se disponibili, copertine e pagine interne degli albi in lista.



* * *

L'immagine di apertura del post è: Michael William kaluta, Solo, 1976 (detail).

The Studio Section Six - 1976-79: Gli anni di The Studio /2

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Ricorderete, forse, come mi ero divertito, nelle prime quattro Sezioni, a riempire un passo alla volta un rettangolo diviso in quattro parti. Una volta completato con la Section Four, il giochino dava come risultato il logo ufficiale di The Studio:




Ma vi è, in questo, anche un riferimento fisico alla realtà dello Studio, con la sua unica grande stanza divisa in quattro parti, ognuna occupata da uno dei nostri fab four. Ecco infatti cosa si ottiene se, prolungando oltre il mio gioco, sostituiamo ogni quarto di logo con la corrispondente sezione di locale, cioè con il singolo studio di ogni artista così come lui lo ha allestito:


Le quattro suddivisioni dello Studio in base alla successione delle mie Section I-IV:
1) Barry Smith; 2) Mike Kaluta; 3) Jeff Jones; 4) Bernie Wrightson.


Che sebbene non significhi per niente un'effettiva corrispondenza con la suddivisione reale del locale, si tratta comunque di una particolare suddivisione degli spazi che vanifica in partenza qualunque tentativo di esperienza collettiva. Poiché, come spiegò allora Jeff Jones:
Abbiamo il nostro angolo, il più lontano possibile fisicamente dagli altri, con un segno in mezzo alla stanza che fa da linea divisoria, e i nostri tavoli da disegno agli angoli.

Una separazione radicale degli spazi a cui andò poi ad aggiungersi, man mano che ciascuno dei quattro diventava più consapevole delle abitudini dei compagni, una separazione dei tempi. Ancora nelle parole di Jeff Jones:
Programmiamo sempre i nostri orari di lavoro in modo da evitare gli altri. Io vengo molto presto, Berni un po’ più tardi, Barry lavora per la maggior parte del tempo a casa e Michael dipinge in piena notte.

In altre parole, l'idea di collettivo alla base della nascita di The Studio si trovò soggetta, fin da subito, a una costante opera di sabotaggio da parte dei suoi stessi membri: quattro individualità probabilmente troppo forti e troppo poco disponibili a "indebolirsi", anche solo per quel tanto necessario a far parte di un'associazione di persone riunite sotto un unico tetto. Un'opera di sabotaggio che potremmo anche definire, senza particolare esagerazioni, nei termini di una "lotta per la riconquista della solitudine perduta". Non a caso ho esordito, nel precedente post, con l'indicare l'esperienza di The Studio come caratterizzata da una serie di paradossi. E neanche potrà più sorprendere, dopo simili premesse, che non fosse destinata a durare.


Jeff Jones, The Wall, 1977


Ma avevo anche accennato, in chiusura del precedente post, a un'altra lotta, che si sovrappose fin dell'inizio a quella appena descritta. L'ho scherzosamente definita, parafrasando il titolo della pseudo-omerica Batracomiomachia, "antropomiomachia", ossia la lotta tra uomini e topi.
E' forse da considerarsi solo una divagazione ai fini del mio discorso, ma poiché a Jeffrey Catherine Jones è piaciuto includerlo il brano nel suo breve testo autobiografico A Collecting Remembrance, trovo più che accettabile offrirne qui la mia traduzione:

Una mattina presto, voglio dire prima dell'alba, entrai nello Studio che condividevo in quel periodo con Kaluta, Windsor-Smith e Wrightson. Doveva essere il 1978, credo, perché a quel tempo io e Michael vivevamo ormai nello Studio, visitando i nostri appartamenti solo occasionalmente per ritirare la posta. Ci incrociavamo intorno a quest’ora del giorno perché io la notte dormivo, mentre Michael dormiva... beh, nel 1978, Michael era un dormiglione di prima categoria. In quella mattina memorabile, mentre aprivo la grande serratura orizzontale d'acciaio della nostra grande porta d'acciaio, trovai Michael accucciato dietro il tavolo da disegno, ora in posizione verticale, con una pistola. Una pistola. "Benvenuto in ‘Desolation Row’" mi disse, mentre scrutava con un occhio sopra la parte superiore del tavolo. Devo fare un salto indietro di un mese per dire che cosa aveva portato a questa situazione all’apparenza così disperata. Fin dal momento in cui ci eravamo trasferiti nello Studio, nel giugno del 1976 - Michael sarebbe arrivato alcuni mesi dopo -, sentivamo, nelle ore più silenziose della note, dei rumori di sottofondo. Erano I topi. Beh, all'inizio un paio di noi pensavano che fossero carini e un altro paio di noi no. Quando poi i topi cominciarono, in aggiunta alle loro escursioni notturne, a masticare i nostri lavori, le pile di poster e i cavi elettrici (trovammo un topo morto stecchito con i denti ancora attaccati a una prolunga), decidemmo che non erano più carini. Ma per noi bambinoni dal cuore grande degli anni '60, "far la pelle ai topi" non era certo la prima opzione. Decidemmo così che la soluzione migliore fosse quella delle trappole “compassionevoli", che li avrebbero catturati vivi. E dopo? Bene, Michael e io acquistammo un acquario in cui ospitare i topi, un po’ come fossero degli animali domestici. Non riuscimmo a trovare delle vere trappole “compassionevoli” ma acquistammo delle loro versioni pirata al negozio di ferramenta più vicino. Inutile dire che non sempre funzionavano come dovevano. Alcuni topi venivano catturati, ma altri scappavano e pochi altri ancora li trovavamo morti o quasi morti con la porticina della trappola che si era abbassata sulle loro parti posteriori lasciandoli per metà fuori. Io e Michael mettevamo i topi che catturavamo nell'acquario e li nutrivamo con del burro di arachidi. Una sera a mezzanotte, un giorno in cui avevamo deciso che l'acquario era abbastanza pieno, Michael e io lo portammo giù con l'ascensore dal nostro dodicesimo piano, attraverso l'atrio fin nella notte. Calati nei panni di salvatori dei topi, li portammo dall’altro lato della strada, fino a un parcheggio vuoto. Gli edifici si ergevano alti e scuri su ogni lato e credo che ci domandammo dove sarebbero finiti i topi. Ma questo sarebbe stato il problema di qualcun altro. Mentre tamburellavamo sull'acquario con un bastone, tutti i topi sciamarono nella notte. Sì, sciamarono, muovendosi in gruppo come un’unica chiazza scura di nuovo al di là della strada e di nuovo nel nostro edificio. Michael era rimasto seduto per ore dietro al suo tavolo da disegno con la pistola, una pistola ad aria compressa, a cogliere sul fatto i topi mentre strisciavano lungo la parete opposta fin sotto i termosifoni. "La pistola non li uccide davvero" mi spiegò. "Rimangono soltanto storditi". "E poi cosa ne fai?" gli chiesi. "Li metto in un sacchetto di carta e li faccio precipitare dalla finestra del dodicesimo piano" mi rispose con un sorriso.*


* * *

The Studio - Complete Comics Chronology VI: Maj 1970 - November 1970


Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "The Secret Of The Egyptian Cat" (10 pg.) (Link)
House of Mystery #186 - DC Comics, Maj 1970 (Comic-book)
Editor: Joe Orlando
Writer: Robert 'Bob' Kanigher
Barry Windsor-Smith: "The Demon That Devoured Hollywood!" (6 pg.)
Tower of Shadows #5 - Marvel Comics group, Maj 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas
Inker: Dan Adkins
Jeffrey Catherine Jones: "An Axe to Grind" (7 pg.) (Link)
Vampirella #5 - Warren Publishing, June 1970 (Magazine)
Editor: Bill Parente
7 pages
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Dark As Death" (3 pg.)
Challengers of the Unknown #74 - DC Comics, June 1970 (Comic-book)
Editor: Murray Boltinoff
Writer: Al Case
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Mirror, Mirror on the Wall,
Who's the Deadliest of All?" (8 pg.)
The Unexpected #119 - DC Comics, June 1970 (Comic-book)
Editor: Murray Boltinoff
Michael William Kaluta: "Eyes of Mars" (5 pg.) (Link)
Graphic Showcase #3 - CCAS Publications, Summer 1970 (Fanzine)
Editor: T. Long
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover + 3 illustrations
Infinity #1 - Adam Malin, Gary Berman; Summer 1970 (Fanzine)
Editors: Gary Berman, Richard Garrison, Adam Malin, Doug Murray
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover (Link)
This Is Legend #1 - Richard Jennings, Summer 1970 (Fanzine)
Editor: Richard Jennings
Michael William Kaluta: "Frontispiece: Ex Libris" (1 pg.) and "The Gardener" (5 pg.) (Link)
This Is Legend #1 - Richard Jennings, Summer 1970 (Fanzine)
Editor: Richard Jennings
Jeff Jones, Alan Weiss, Berni Wrightson: "The Legend Of Sleepy Hollow" (11 pg.) (Link)
This Is Legend #1 - Richard Jennings, Summer 1970 (Fanzine)
Editor: Richard Jennings
Writer: Virgil North (Adaptation from Washington Irving's short story)
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Stake-Out" (4 pg.) (Link)
I'll Be Damned #2 - Mark Feldman, July 1970 (Fanzine)
Editor: Mark A. Feldman
Mike Kaluta (w/ Berni Wrightson?): "The Coming Of Ghaglan" (6 pg.)
House of Secrets #87 - DC Comics, August 1970 (Comic-book)
Editor: Dick Giordano
Writer: Raymond Marais
Barry Windsor-Smith: "The Scream of Things"
Tower of Shadows #7 - Marvel Comics group, September 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Allyn Brodsky; Inker: Vince Colletta
7 pages
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover + "Gargoyle Every Night!" (7 pg.) (Link)
Chamber of Darkness #7 - Marvel Comics group, October 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas; Inker: Johnny Craig
Barry Smith: Cover + "The Coming Of Conan!" (22 pg.) (Link)
Conan the Barbarian #1 - Marvel Comics group, October 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas
Inkers: John Verpoorten (Cover) and Dan Adkins (Story)
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "House Of Madness!" (8 pg.)
House of Mystery #188 - DC Comics, October 1970 (Comic-book)
Editor: Joe Orlando
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "The Hounds of Night!" (1 pg.)
The Unexpected #121 - DC Comics, October 1970
Editor: Murray Boltinoff
Writer: Murray Boltinoff [as Al Case]
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover + "Wrightson’s Revolting Rhymes" (8 pg.) (Link)
Abyss #1 - Abyss Publications, November 1970 (Fanzine)
Michael William Kaluta: "The Hunter and The Hunted" (4 pg.) + "Apprenticeship" (4 pg.) +
Back cover (Link)
Abyss #1 - Abyss Publications, November 1970 (Fanzine)
Jeffrey Catherine Jones: Inside front cover + "Union" (8 pg.) (Link)
Abyss #1 - Abyss Publications, November 1970 (Fanzine)

Clicca sulla scritta blu per vedere in grande formato, se disponibili, copertine e pagine interne degli albi in lista.



* * *


* Jeffrey Catherine Jones, A Recollecting Remembrance (1997-2003)

Le altre due citazioni di Jeff Jones incluse nel testo sono tratte dal volume The Studio. Dragon's Dream, 1979.

L'immagine di apertura del post è: Jeff Jones, In a Sheltered Corner, 1977 (detail).


The Studio Section Six - 1976-79: Gli anni di The Studio /3

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La "antropomiomachia", o lotta tra uomini e topi, con cui ho concluso il post precedente ci ha anche fornito, come di passaggio, alcune preziose informazioni sulla genesi e lo sviluppo dell'esperienza di The Studio in generale. E' ora tempo di scendere un po' più nei dettagli proprio a questo riguardo.
Come racconta Bernie Wrightson in A look Back, furono per primi lui e Barry Smith ad sentire l'esigenza di avere uno spazio fisico più grande di un appartamento in cui svolgere il proprio lavoro:
In quel periodo, tutti e due abitavamo appartamenti molto piccoli, mentre però iniziavamo a lavorare su opere di grandi dimensioni. Barry in particolare stava lavorando a un'opera di due metri di lunghezza che aveva dovuto dividere in più sezioni.*

Quest'opera di Smith citata da Wrightson è Artemis and Apollo, iniziata dall'artista nei primi mesi del 1976, al suo ritorno dall'Europa. Era rimasto in Inghilterra alcuni mesi, dove gli avevano curato un linfoma con la radioterapia, ma con effetti devastanti sulla sua personalità. Fu in questo stato di profondo malessere che dette inizio a un elaboratissimo disegno a penna lungo due metri con al centro le due divinità dell'antica Grecia. "Un'allegoria formata di mille allegorie" nelle sue parole, che finì però anche con il trasformarsi per lui in una vera ossessione.
Come racconta a J.S. nella sua intervista per il volume The Studio, dopo sette versioni interrotte a metà e cestinate:
È quanto di più sudato e profondamente onesto io abbia mai fatto. E tuttavia fu un totale insuccesso, perché non riuscii a portarlo a termine... Ti dico che in una calda notte d’estate del 1976 ero così abbattuto da essere pronto a gettarmi dalla finestra – sai, con qualche poetica nota d’addio appuntata sul petto. Nei mesi precedenti avevo raccolto ogni possibile parola scritta sulla mitologia greca, su Artemide e Apollo in particolare. Sedevo nello Studio con il mio quinto bicchierino di Scotch in mano circondato da libri e ammennicoli vari concernenti il dipinto che avevo davanti. Dicevo a me stesso che qualunque cosa io avessi voluto ottenere con questo dipinto non aveva importanza, che il pubblico non ne avrebbe mai saputo niente; solo io me ne preoccupavo così stupidamente. Cercavo di persuadermi alla resa. Poi, senza pensare presi Pantheon of Heathen Gods di Tooke, speditomi durante il mio lavoro di ricerca da un amico solidale. La pagina si aprì sulla massima di Apollo: Conosci te stesso. Conosci te stesso, è tutto quello che dovevo sapere. Mi concentrai e mi rimisi al lavoro. Non sembra un film? Non immagini Errol Flyn a recitare la parte? Ma è successo davvero.

Ma il male assoluto contro cui doveva combattere erano i persistenti effetti su di lui del radio:
Mentre il dipinto andava avanti, la mia concezione di quel che facevo era in sobbollimento allo stesso modo del mio organismo a opera del radio. Un giorno prendevo una decisione e agivo, e una settimana o un mese dopo non ne ricordavo più il senso.

Alla fine, tuttavia, era ugualmente riuscito a creare qualcosa dall'aspetto abbastanza compiuto: un semioriginale colorato sopra una foto ad alta risoluzione dell’originale. Ma poi l'editore a cui lui lo aveva affidato finì col perderlo, all’aeroporto di San Francisco.
Come reagì l'artista alla perdita? Nel modo più antico-greco immaginabile: rendendo omaggio agli imperscrutabili disegni del fato. Prese uno dei centinaia di studi fatti per la figura di Artemide e ne ricavò un dipinto su legno di 80 centimetri di lato che gli richiese sette mesi di lavoro. Era il suo primo dipinto a olio in assoluto, e lo intitolò Fate Sowing the Stars.




Ecco la sua descrizione dell'opera:
A sinistra c’è la rappresentazione del disordine, la guerra in questo caso, a destra l’armonia. Le Sibille stanno lì solo a fare presenza, sans title. Tutto il mio interesse era per la dea bianca che rappresenta il fato: il suo volto è una maschera di distacco, niente giudizi, critiche, o dubbi. Fa quel che deve fare e noi non abbiamo voce in capitolo.

Ma in realtà non si arrese veramente e ancora ai tempi di The Studio dette inizio alla versione che lui definiva scherzosamente Apollo VIII. Una riproduzione del dettaglio centrale di una versione precedente dell'opera era in ogni caso già apparsa, nel gennaio 1977, come copertina del numero 7 del magazine di SF e fantasy Star Reach.




Ad accompagnarla, nelle pagine interne, una sorta di comunicato stampa della Gorblimey Press, attraverso il quale Barry Smith dichiarava trattarsi della foto colorata di un dettaglio di quella che era allora l'ultima versione dell'opera (la quinta), ancora provvisoria, sebbene nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere, esattamente come le altre quattro che l'avevano preceduta, definitiva.
Particolarmente rivelatrici sono, a questo riguardo, le parole con cui l'artista apriva il suo "comunicato":
Il perfezionista non è qualcosa di realmente esistente. Chi è così etichettato non gode segretamente dell'epiteto né si sente orgoglioso di portare come titolo una definizione così impropria. Io penso che qualcuno che abbia acquisito con merito questa nomea andrebbe piuttosto definito, più correttamente, un uomo che non si auto-inganna.

Seguirono poi, negli anni, nuove versioni ancora di Artemis and Apollo, di diverso formato e realizzate con tecniche sempre diverse, fino ad arrivare finalmente all'ultima, definitiva e straordinaria versione (che va comunque detto Barry Smith non ha incluso in nessuno dei cataloghi del suo sito ufficiale) datata 1990. Quella di cui presento l'immagine intera qui sotto e due suoi dettagli in altri punti della pagina.




Ma è adesso il momento di riprendere, dopo questa lunga ma spero appassionante divagazione, la storia delle origini di The Studio da dove mi ero fermato. Presa la loro decisione, Barry Smith e Bernie Wrightson pensarono subito di coinvolgere nel progetto gli amici colleghi Jeff Jones e Mike Kaluta e mettersi alla ricerca di un posto dove lavorare insieme (ma separati).
Visitammo diversi posti nell'arco di una decina di giorni, ma alla fine del giro tornammo al primo o secondo posto visitato. Non che a prima vista ci avesse fatto una così bella impressione, sporco e pieno di macchinari e immondizia varia. Ma dopo aver visto altri posti davvero incredibili - a dir poco disgustosi - sparsi nel resto della città, alla fine decidemmo per quello.*

Ma mentre Jeff Jones aderì prontamente all'idea, Mike Kaluta dapprima si rifiutò, perché pensava di non essere in grado di coprire la sua parte di spese d'affitto. Solo dopo alcuni mesi si convinse del contrario e divenne a tutti gli effetti il quarto dei Fab Four di The Studio.
In realtà, come raccontato da Bernie Wrightson:
[Barry, Jeff e io] iniziammo un'intesa opera di persuasione su Mike, mettendolo alle strette e facendolo sentire in colpa. Di fatto, lo costringemmo a diventare dei nostri. E quando finalmente fu uno di noi, si rese presto conto che poteva permettersi di dividere le spese dell'affitto.*

Niente di tutto questo però impedisce ancora il sorgere di una domanda, soprattutto alla luce delle traballanti premesse a cui ho accennato nel post precedente: l'esperienza di The Studio fu davvero qualcosa di utile e/o necessario?
I suoi quattro protagonisti sembrano tutti concordare di sì.

Barry Smith: "Mi costringevano a mettercela tutta, a non farmi vincere dalla pigrizia. Solo guardare i loro lavori mi trascinava e mi spronava al fare del mio meglio".

Jeff Jones: "È importante lavorare qui. Abbiamo trovato un’atmosfera di ispirazione e creatività. Nel momento in cui rimango invischiato in un dettaglio di qualcosa che sto realizzando, posso spostarmi di sette metri e vedere un’opera meravigliosa creata da qualcun altro. Loro possono avere problemi analoghi un’ora dopo, il giorno dopo, ma non nello stesso momento. Basta questo a fare del luogo un posto magnifico dove lavorare".

Mike Kaluta: "Iniziai a sentirmi a casa in questo posto quando mi resi conto che non dovevo più stare seduto da solo in una stanzetta a guardare un’opera che non stava riuscendo bene. Potevo percorrere sedici metri, fino al lato opposto dello Studio, e trovarmi in un modo completamente diverso".

Bernie Wrightson: "Dal punto di vista artistico, lo Studio mi è di grande aiuto. Penso che un artista abbia bisogno di un posto del genere per ottenere un'atmosfera di un certo tipo. Ha bisogno di essere immerso in un'atmosfera dove può lavorare in compagnia di altri artisti, i suoi pari, altre persone che rispetta. E' un'opportunità unica di osservare gli altri lavorare nelle sue stesse condizioni".*

Possiamo così dire, tirando le somme, che si trattò in primo luogo di una delicata questione di equilibrio: tra l'esigenza della solitudine, profondamente sentita da un gran numero di artisti di ogni epoca e paese, e i vantaggi della convivenza tra simili appena esposti dai nostri quattro protagonisti. E non è azzardato concludere, senza con questo voler minimamente insinuare che siamo arrivati all'epilogo di questa Section Six, che l'esperienza di The Studio durò finché il primo dei due termini di questo equilibrio non prese il definitivo sopravvento sull'altro. Non un giorno di più non un giorno di meno.


Barry Windsor-Smith, Artemis and Apollo, 1990 (detail). Dal sito: Ivaluable. The world's premiere auctions and galleries


* * *

The Studio - Complete Comics Chronology VII: November 1970 - January 1971


Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover
Raunch #4 - Gale Burnick, November 1970 (Fanzine)
Editor: Gale Burnick
Jeffrey Catherine 'Jeff' Jones: Cover + Interview w/ art
Reality #1 - Robert Gestenhaber, November 1970 (Fanzine)
Editor: Robert Gestenhaber
Michael William 'Mike' Kaluta: "Death is the Sailor" pt. 1* + 2 illustrations
Reality #1 - Robert Gestenhaber, November 1970 (Fanzine)
Editor: Robert Gestenhaber
* Originally scheduled to be included in "Web of Horror" #4
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover
Tower of Shadows #8 - Marvel Comics group, November 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Barry Windsor-Smith: "Back To the Savage Land" (10 pg.)
Astonishing Tales #3 - Marvel Comics group, December 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Gerry Conway
Inker: Sam Grainger
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover
Chamber of Darkness #8 - Marvel Comics group, December 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Barry Windsor-Smith: Cover + "Lair Of The Beast-Men!" (19 pg.)
Conan the Barbarian #2 - Marvel Comics group, December 1970 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas; Inker: Sal Buscema
Barry Windsor-Smith: Cover
Marvelmania Monthly Magazine #2 - Marvelmania International, 1970* (Fanzine)
Editors: Mark Evanier, Steve Sherman
* Plus #3, 4, 6: Various illustrations
Michael William 'Mike' Kaluta: "Artificial Limbs" (1 pg.) + "Death is a Sailor" Pt. 2
+ "As Night Falls: Michelle's Song" (2 pg.) + "Time Lapse" (1 pg.) + Back cover
Reality #2 - Robert Gestenhaber, December 1970 (Fanzine)
Editor: Robert Gestenhaber
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: 1 illustration
Reality #2 - Robert Gestenhaber, December 1970 (Fanzine)
Editor: Robert Gestenhaber
Jeffrey Catherine 'Jeff' Jones: 1 illustration
ERBdom #42 - Camille (Caz) Cazedessus, January 1971 (Fanzine)
Editor: Camille (Caz) Cazedessus
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover + Inside front cover ("Frankenstein story")
+ "Out On A Limb"* (6 pg.)
I'll Be Damned #4 - Damnation Enterprises, January 1971 (Fanzine)
Editor: Mark A. Feldman
* Originally intended for the 4rt issue of "Web of Horror"
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover art
Tower of Shadows #9 - Marvel Comics group, January 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Jeffrey Catherine Jones: "Vampi's Feary Tales: Lilith" (1 pg.)
Vampirella #9 - Warren Publishing, January 1971 (Magazine)
Editors: Nicola Cuti, Archie Goodwin, Bill Parente, James Warren
Writer: Nicola Cuti
Barry Windsor-Smith: "The Boy Who Loved Trees" (6 pg.)
Vampirella #9 - Warren Publishing, January 1971 (Magazine)
Editors: Nicola Cuti, Archie Goodwin, Bill Parente, James Warren
Writers: Gardner F. Fox, Barry Windsor-Smith
Berni Wrightson: 1 illustration ("Flash Gordon")
Comic Crusader #11 - Martin L. Greim, 1971 (Fanzine)
Editor: Martin L. Greim
Berni Wrightson: 1 illustration
Fantastic Fanzine #13 - Gary Groth, 1971 (Fanzine)
Editor: Gary Groth
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Illustration ("King Kull")
Infinity #2 - Adam Malin, Gary Berman; 1971 (Fanzine)
Editors: Gary Berman, Richard Garrison, Adam Malin, Doug Murray
Jeffrey Catherine 'Jeff' Jones: Illustration ("Wolfling") and Backcover
Infinity #2 - Adam Malin, Gary Berman; 1971 (Fanzine)
Editors: Gary Berman, Richard Garrison, Adam Malin, Doug Murray
Michael William Kaluta: Illustration ("Spaceman")
Infinity #2 - Adam Malin, Gary Berman; 1971 (Fanzine)
Editors: Gary Berman, Richard Garrison, Adam Malin, Doug Murray

Clicca sulla scritta blu per vedere in grande formato, se disponibili, copertine e pagine interne degli albi in lista.



* * *


* Bernie Wrightson, A Look Back. Underwood-Miller, 1979, 1991; Edited by Christopher Zavisa. Pg. 318

Tutte le altre citazioni, eccetto dove diversamente indicato, sono tratte dal volume The Studio. Dragon's Dream, 1979.

L'immagine di apertura del post è: Barry Windsor-Smith, Artemis and Apollo, 1990 (detail). Dal sito: Ivaluable. The world's premiere auctions and galleries

Il regno di ERB: The Greatest Adventure /1

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Nota introduttiva: Il presente post non segna, come può sembrare, l'inizio di una nuova serie che va aggiungersi alle tante già in corso nel blog, ma è la diretta prosecuzione del sesto post della serie Meriem, la prima tarzanide. Mentre la sigla ERB va interpretata, per chi già non lo avesse intuito, come l'acronimo del nome dello scrittore americano Edgar Rice Burroughs (1875-1950), il celebre creatore di Tarzan, John Carter, Dejah Thoris e molti altri personaggi divenuti parte dell'immaginario collettivo. Che poi sia pure storicamente esistito, nel Galles meridionale, un "regno di Erb", dal nome di un oscuro monarca medievale vissuto nel VI secolo, questo è qualcosa di puramente incidentale.


* * *


Bill Cantey, appassionato studioso di Edgar Rice Burroughs e del suo universo narrativo, ha scritto in un articolo apparso nell'inverno 1973 sul numero 27 della fanzine The Collector, alcune parole che mi hanno fatto attraversare da un brivido, al pensiero che avrei potuto scriverle alla lettera io stesso, semplicemente parlando di me e del mio percorso di lettore cinefilo in relazione al personaggio di Tarzan. Cantey così scrive, in riferimento a se stesso:
...questo fan è stato più fortunato di tanti altri, dal momento che i film con Johnny Weismuller sono un suo amato ricordo dell'infanzia; mentre ho scoperto e mi sono goduto per la prima volta i libri di Burroughs nella prima adolescenza. Per questo recensire gli uni e gli altri sarà sempre un piacere per me.*


La vera domanda.


Il punto è, come spiega ancora Cantey, che gli appassionati dei romanzi di Tarzan hanno le convulsioni ogni volta che, al cinema o altrove, si trovano davanti all'uomo scimmia nella versione "io Tarzan, tu Jane". E probabilmente anche io e lui avremmo avuto le convulsioni, se non avessimo avuto in sorte di vedere prima i film e solo in seguito leggere i romanzi di Tarzan.
Ma devo anche aggiungere, a questo punto, che io, da sciocco adolescente alle prime armi qual ero, mi sentivo perfino un po' un privilegiato all'idea di possedere un simile segreto che pochi altri avevano, che cioè l'uomo scimmia stile "io Tarzan, tu Jane" era una pura invenzione cinematografica, lontana mille miglia dal "vero" protagonista del ciclo di romanzi di Edgar Rice Burroughs.

Ma anche i romanzi originali di Tarzan a un certo punto hanno smesso di piacermi. E non per ragioni di raggiunti limiti di età anagrafica, ma semplicemente perché, come ho accennato all'inizio di questa serie di post, da un certo momento in avanti, e precisamente dopo Tarzan e gli uomini formica, decimo romanzo del ciclo burroughsiano, hanno perso la loro dimensione di saga per diventare una successione di avventure sparse che non facevano altro che annoiarmi. Così, dopo alcuni tentativi abortiti, ho deciso semplicemente, di lasciar perdere. Del resto, lo scrittore aveva già messo in tavola gran parte delle sue specialità nei primi volumi della serie, in particolare i suoi mondi fantastici: l'antico regno perduto, e decaduto, di Opar, dove le donne per qualche motivo (utile alla trama) si erano conservate bellissime e gli uomini erano degenerati in esseri brutali dall'aspetto semi-scimmiesco; la terra nascosta nel cuore dell'Africa e pressoché inaccessibile di Pal-ul-don, dove le bellicose tribù rivali dei Waz-don e degli Ho-don si combattono eternamente in mezzo a rettili e mammiferi più o meno coincidenti con quelli della nostra preistoria; il continente di Pellucidar, nascosto al di sotto della crosta terrestre, con cui Burroughs si appropria del mito semi-scientifico della terra cava e... No, per la verità no; quest'ultimo mondo immaginario non compare in nessuno dei primi dieci romanzi di Tarzan ma solo nel tredicesimo, che è però anche il quarto romanzo del ciclo di Pellucidar. Trattasi, in altre parole, di un cross-over...




Ma perché, potreste chiedervi a questo punto, insisto su una premessa di carattere così generale in un post che dovrebbe, secondo quanto ho scritto più sopra, semplicemente riprendere e portare avanti il discorso da me sviluppato nelle prime sei parti della mia serie su Meriem?
Una risposta potrebbe essere: perché non perdo mai occasione, ogni volta che mi si presenta in questo blog, di fare un po' di autobiobibliografia.
Ma c'è anche una ragione più "tecnica": questo mio nuovo capitolo su Meriem ha a che vedere con una serie di nove comic-books che compongono un'unica lunga storia intitolata The Greatest Adventure, di cui lei è protagonista insieme a molti altri personaggi dell'universo letterario di Edgar Rice Burroughs. Questa serie a fumetti, pubblicata dalla Dynamite, si è conclusa soltanto da un paio di mesi ed è questo il principale motivo per cui il presente post non poteva vedere la luce prima di adesso.

Forse ricorderete anche, visto che ne ho accennato alcune volte in passato, che io non leggo nuovi fumetti da quasi vent'anni (a parte un'unica eccezione, risalente ormai a più di un decennio fa, di cui forse un giorno parlerò) e devo proprio dire che mi ha fatto un certo effetto trovarmi a leggere una serie nuova di zecca dopo così tanto tempo, quasi come violare un tabù. Ma una volta che mi ero assunto il compito di presentare nel mio blog tutto, ma proprio tutto, quel che ha riguardato il personaggio di Meriem nel suo secolo e passa di presenza nella cultura popolare, non potevo certo esimermi dall'andare fino in fondo.


Il primo numero di The Greatest Adventure nelle sue tre edizioni con copertine diverse.
Nella prima a sinistra, Meriem è al centro della scena, attorniata da Jason Gridley,
la coppia John Carter e Dejah Thoris, il marito Korak e il suocero Tarzan.


Ed eccomi perciò "costretto" a parlarvi di The Greatest Adventure, una serie a fumetti non priva di interesse, il cui più grande limite è, secondo me, la scarsa qualità dei disegni, incapace di elevarsi al di sopra del livello medio dei prodotti Dynamite. Mentre il suo punto di forza è, sempre secondo me, l'aver raggiunto dal punto di vista narrativo un risultato dignitoso, pur partendo da una premessa strana e rischiosa come può essere il riunire insieme, in un'unica avventura, tutti i principali personaggi e i principali mondi fantastici usciti dalla penna di Edgar Rice Burroughs.

Dico inoltre subito, prima di tornare ad allargare il discorso, che neanche questa volta il personaggio di Meriem spicca il volo, ma che anzi, a differenza di altri, non si ritaglia mai un ruolo di primo piano in tutta la vicenda, neanche in quello suo prediletto di rapita. Da qui la necessità per me, a partire da questo post, di allargare il discorso. L'unica nota potenzialmente interessante che la riguarda, è la scelta dello sceneggiatore di coinvolgerla nell'Avventura Più Grande nel doppio ruolo di medico della spedizione in camice bianco (scopriamo così che Meriem in Inghilterra si è laureata in medicina) e di tarzanide con costume intero di leopardo.




Più peso di lei nella vicenda lo hanno sicuramente altri personaggi, a cominciare da colui che si addossa il compito di narrare gli eventi in prima persona: Jason Gridley, un nome che probabilmente dirà qualcosa solo agli ultra-specialisti dell'universo letterario di Burroughs.

Jason Gridley è uno dei protagonisti dei romanzi del ciclo di Pellucidar e anche, nella finzione narrativa, un vicino di casa del loro autore, Edgar Rice Burroughs. Gridley risiede infatti a Tarzana, città fondata dal celebre scrittore nei pressi di Los Angeles. E' inoltre uno scienziato, il cui contributo più importante all'umana conoscenza è stato l'aver scoperto l'esistenza, mentre era alla ricerca di un modo per eliminare alcuni disturbi elettrici nelle trasmissioni radio, di una corrente di sottofondo nell'etere non operante in conformità a nessuna delle leggi scientifiche allora conosciute e che diverrà nota, almeno ai lettori dei romanzi di Burroughs, come "onda di Gridley".


Il nucleo originario di Tarzana, fondato da Burroughs nel 1922. Il posto diverrà poi, negli anni,
un distretto residenziale di Los Angeles, con numerose attività commerciali e turistiche collegate.


E' nel prologo di Tanar of Pellucidar, terzo romanzo del ciclo di Pellucidar, che Jason Gridely entra nell'universo narrativo di Burroughs, e lo fa attraverso un vero e proprio gioiellino di metanarrativa del quale vale senz'altro la pena citare qualcosa. E' lo stesso Burroughs qui a parlare in prima persona, mentre siede con Gridley nel laboratorio di quest'ultimo a Tarzana.

    “Lo sa, Ammiraglio,” mi disse (mi chiama Ammiraglio a causa del berretto da marinaio che indosso in spiaggia) “che quando ero bambino credevo ogni parola di quelle sue pazze storie su Marte e Pellucidar [all'epoca di questa conversazione immaginaria, Burroughs non aveva ancora dato inizio al suo ciclo di Venere]. Il mondo interno al centro della Terra era per me reale come la Sierra Nevada, la valle di San Joaquin o il Golden Gate, e mi sembrava di conoscere le città gemelle di Helium meglio di Los Angeles.
    “Non ci vedevo nulla di impossibile nel viaggio di David Innes e del vecchio Perry attraverso la crosta terrestre fino a Pellucidar. Nossignore, era tutto vangelo per me quando ero bambino.”
    “E ora che hai ventitré anni sai che non può essere vero" replicai con un sorriso.
“Non vorrà farmi credere che invece è vero?” ribatté lui, ridendo.
    “Non ho mai detto a nessuno che debba essere vero” gli risposi. “Io lascio che la gente creda quello che vuole, ma per me stesso mi riservo il diretto di fare diversamente”.
    “Ma lei sa perfettamente che sarebbe impossibile per la talpa meccanica di Perry perforare per cinquecento miglia la crosta terrestre, così come sa che non c'è nessun mondo interno popolato di strani rettili e uomini dell'età della pietra, e che non esiste nessun Imperatore di Pellucidar”. Jason si stava scaldando, ma il suo senso dell'humor gli giunse in soccorso e si mise a ridere.
    “Mi piace credere che esista una Dian la Bella” dissi.
    “Sì” assentì lui, “ma mi dispiace che lei abbia ucciso Hooja l'Astuto. Era un cattivo formidabile”.
    “Non c'è mai penuria di cattivi” gli rammentai.
    “Aiutano le ragazze a mantenere i loro figurini e il loro aspetto da scolarette”.
    “E come?” gli chiesi.
    “Con l'esercizio che gli fanno fare a essere inseguite”.
    “Mi prendi in giro” lo rimproverai. “Ma tieni a mente, per favore, che io non sono che un semplice cronista. Se le donzelle fuggono e i cattivi le inseguono io devo riportare i fatti con fedeltà”.
    “Balle!” esclamò lui, in puro inglese accademico statunitense.
    Jason si rimise le cuffie e io mi rituffai nella lettura delle pagine scritte da un antico bugiardo, che avrebbe dovuto fare una fortuna grazie alla credulità dei lettori, ma che non sembra ci sia riuscito. Sedemmo insieme così per un po' di tempo.**

E' noto come l'ironia a Burroughs non abbia mai fatto difetto, soprattutto se rivolta a se stesso, e a questo riguardo qui appare indubbiamente in gran forma. Ma ancora non si accontenta e alcune righe dopo decide di spingere oltre il suo gioco metaletterario. Immaginando che il vecchio Perry spedisca un messaggio dal centro della Terra fino al laboratorio di Gridley utilizzando l'onda di Gridley, così scrive:

   “Questo è l'Osservatorio Imperiale di Greenwich, Pellucidar; è Abner Perry che parla. Voi chi siete?”
    “Questo è il laboratorio di ricerca privato di Jason Gridley, Tarzana, California; E' Gridley che parla” replicò Jason.
    “Voglio entrare in comunicazione con Edgar Rice Burroughs; lo conosce?”.
    “E' qui seduto con me ad ascoltare” rispose Jason.
    “Dio sia ringraziato, se è la verità, ma come faccio a sapere che è vero?” domandò Perry.
    Scribacchiai in fretta un appunto a Jason: “Chiedigli se si ricorda del fuoco nella sua prima fabbrica di polvere da sparo e che l'edificio sarebbe andato distrutto se loro non avessero estinto le fiamme gettandoci sopra altra polvere da sparo?”.
    Jason prima ridacchiò leggendo l'appunto, poi lo trasmise.
    “E' stato poco gentile da parte di David [Innes] raccontare un episodio del genere” fu la replica, “ma adesso so che Burroughs deve essere per forza lì, perché solo lui può sapere di quell'incidente. Ho un lungo messaggio per lui. Siete pronto?”
    “Sì,” rispose Jason.***

In altre parole, un personaggio fittizio chiede a un personaggio fittizio suo pari una prova riguardo la verità della presenza con lui del loro creatore. Il quale utilizza, come prova, il racconto di un episodio che gli avrebbe raccontato un terzo personaggio fittizio sempre di sua creazione. Tutti artifici che oggi possono anche apparirci familiari o perfino scontati, ma non dobbiamo mai dimenticare che queste righe che abbiamo appena letto appartengono agli anni venti del Novecento. Niente male davvero per uno scrittore che nella sua vita si è sempre definito privo di qualsiasi vocazione letteraria.
Per inciso, il messaggio che Gridley e Burroughs ricevono dal centro della terra, altro non è che il resto del contenuto del libro Tanar of Pellucidar.




* * *


* Bill Cantey, The Legacy of Edgar Rice Burroughs. In: The Collector #27, Spring 1973.

**, *** Estratti da: Edgar Rice Burroughs, Tanar of Pellucidar. Prima edizione: Blue Book Magazine, March-August 1929. Traduzione mia.

L'immagine di apertura del post è: Jeffrey Catherine Jones, Pellucidar, 1998.

25 indiscrete domande cinematografiche - Il remake

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In teoria questo dovrebbe essere un meme una tantum... fatto una volta, finita lì. Invece eccomi di nuovo preso all'amo, a quasi due anni di distanza dalla volta precedente (aprile 2016). E se allora era stato il vulcanico Miki Moz a nominarmi, il responsabile del misfatto stavolta altri non è che Cassidy del blog La Bara Volante, maestro recensore di cinema, e anche un po' di fumetto, che mi ha nominato in questo suo post. Certo avrei potuto ragionevolmente oppormi e rifiutare questa seconda nomination, se oltre al sempiterno piacere che mi dà parlare di cinema non fosse anche subentrata la curiosità di vedere cosa succede a rispondere alle stesse domande a distanza di tempo. Il risultato? Credo tutto sommato abbastanza inedito, perché sebbene in molti casi io abbia confermato le risposte di allora (i miei gusti non sono cambiati di una virgola), è anche vero che ho aggiunto precisazioni di varia natura, sufficienti secondo me a giustificare l'esistenza di questo remake delle mie risposte alle

25 indiscrete domande cinematografiche


1. Il personaggio cinematografico che vorrei essere?
Nel 2016 ho risposto Tarzan. Ma in fin dei conti a me Jane è sempre rimasta un po' pesa come moglie, quindi stavolta mi prendo una scappatella e rispondo Flesh Gordon... Sì, proprio lui, quello un po' tonto che fa coppia con Dale Ardor.


Al centro dell'immagine, Dale Ardor (Suzanne Fields) e Flesh Gordon (Jason Williams) nel film Flesh Gordon (1974).


2. Genere che amo e genere che odio?
Che amo: horror (eccetto film di zombi), thriller, erotico, fantascienza umanistica alla Tarkovskij.
Che non apprezzo: western, guerra (eccetto Full Metal Jacket di Kubrick e L'Infanzia di Ivan di Tarkovskij), fantasy.
Che odio: qualunque film di argomento sportivo chiunque ne sia il regista.

3. Film in lingua originale o doppiati?
Alterno. Un po' e un po'.

4. L'ultimo film che ho comprato?
Pinocchio, che ancora mancava alla mia collezione di classici Disney. Ne compro uno l'anno.

5. Sono mai andato al cinema da solo?
Certo che sì, essendo un solitario per natura.

6. Cosa ne penso dei Blu-Ray?
Ne penso bene. Perché no?

7. Che rapporto ho con il 3D?
Dovrei aver usufruito del servizio per poterlo dire. In compenso ho ascoltato con stupore la descrizione fattami dai miei due nipotini della loro esperienza con il 4D.

8. Cosa rende un film uno dei miei preferiti?
In alcuni casi, l’originalità della storia e/o la presenza di elementi controversi, in altri l’accordo più o meno armonico tra bella musica, bella fotografia, bella sceneggiatura, bella regia e belle attrici.

9. Preferisco vedere i film da solo o in compagnia?
Senza dubbio da solo. In compagnia raramente mi godo a dovere un film.

10. Ultimo film che ho visto?
The Velvet Vampire, un vecchio B-movie degli anni '70 (sono un maniaco, lo so bene).

11. Un film che mi ha fatto riflettere?
Tutti i grandi film del grande Andrej Tarkovskij, con la possibile eccezione di Nostalghia che secondo me risente non poco di una brutta sceneggiatura. Aggiungo comunque, a scanso di equivoci, che non faccio mai ricerca esplicita di film che mi facciano riflettere. Considero più fondamentali per la visione altri parametri (vedi risposta 8).

12. Un film che mi ha fatto ridere?
Nel 2016 ho indicato Casotto di Sergio Citti. Stavolta potrei citare un film che credo di aver visto solo io: Quell'oscuro desiderio di Enzo Milioni.
Due abitanti di un lontano pianeta vincono un viaggio premio sulla Terra e vengono così trasferiti nel corpo di due ignari cittadini pugliesi. Il seguito è un completo delirio pseudofantascientifico quasi senza né capo né coda, che si fa però apprezzare per l'irresistibile performance di una neonata coppia comica, formata da Nicola Salatino e Gianni Ciardo, purtroppo mai più sfruttata dopo questa pellicola.


Nico Salatino (a sinistra) e Gianni Ciardo (al centro)
nel film Quello strano desiderio (1979)


13. Un film che mi ha fatto piangere?
Da piccolo, Bambi. Mentre, in tempi più recenti, diciamo che film come Racconti da Stoccolma (2006) o Dead Europe (2012) mi hanno messo a dura prova sotto questo punto di vista.

14. Un film orribile?
Ne cito due e dello stesso regista: Zabriskie PointIdentificazione di una donna di Michelangelo Antonioni. Personalmente li considero tra i migliori candidati possibili ai Razzie Awards in tutte le categorie.

15. Un film che non ho visto perché mi sono addormentato?
In tempi non troppo lontani il primo Harry PotterMatrix. Più in generale, posso dire che i ritmi accelerati mi favoriscono il sonno e dubito perciò che riuscirei a vedere un action movie vero e proprio fino alla fine, se ne guardassi.

16. Un film che non ho visto perché stavo facendo le "cosacce"?
Una volta mi è successo al cinema. Ma chi se lo ricorda il titolo!

17. Il film più lungo che ho visto?
Credo il director cut di Fino alla fine del mondo di Wim Wenders: 281 minuti.

18. Il film che mi ha deluso?
King Kong di Peter Jackson. Buono al massimo come attrazione da Luna Park.

19. Un film che so a memoria?
Sono troppi per citarli tutti. I film che mi piacciono li guardo a ripetizione.

20. Un film che ho visto al cinema perché mi ci hanno trascinato?
La ricerca della felicità di Muccino. Traumatico!

21. Il film più bello tratto da un libro?
Abundantis abundantibus... ne cito cinque: Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler; Solaris di Andreij Tarkovsky dal romanzo di Stanislaw Lem; L'Esorcista di William Friedkin dal romanzo di William Peter Blatty; Lasciami entrare di Tomas Alfredson dal romanzo di John Ajvide Lindqvist; The Favourite Game di Bernar Hébert dal romanzo di Leonard Cohen.


Leo (JR Bourne) e Lisa (Michèle-Barbara Pelletier) nel film The Favourite Game (2003)


22. Il film più datato che ho visto?
Nel 2016 risposi Häxan. Ma si era trattato di una svista. Ero andato a memoria e avevo senza volerlo anticipato di molto la data di uscita del film che è invece del 1922. Ora ho la possibilità di correggere l'errore. Credo che, senza tener conto dei film sperimentali dei primordi del cinema, la risposta giusta sia l'italiano Inferno, del 1911. Per chi non lo conoscesse, è una boiata pazzesca tratta dall'omonima Cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri. Solo i due attori che interpretano Dante e Virgilio - a quanto ho capito assoldati più per le capacità alpinistiche che attoriali - si meriterebbero la creazione di un girone infernale apposito.

23. Miglior colonna sonora?
Confermo senza esitazioni Il fantasma del palcoscenico di Paul Williams. In realtà me ne piacciono anche molte altre di colonne sonore, ma per quelle vi invito a seguire, nel mio blog, la serie di post dedicata agli Incantesimi cinemusicali.

24. Migliore saga cinematografica?
Tenendo conto che non sono mai riuscito a farmi coinvolgere da nessuna saga fantascientifica, horror o fantasy (neanche in quei casi - per esempio L'ululato o Alien - in cui il primo film della saga rientri tra i miei Kult), non è che mi resta molto a disposizione. Per questo riconfermo la mia scelta del 2016 del ciclo di Emmanuelle con Sylvia Kristel, pur tra i suoi alti e bassi.

25. Miglior remake?
Let Me In, ossia Lasciami entrare nell'edizione anglo-americana co-prodotta dalla mitica Hammer Films. Più o meno al livello dell’originale svedese.
Ma anche questo post non scherza.


Larga la foglia, stretta la via, ora tocca a voi dire la vostra
che io ho detto la mia!


Mentre i miei magnifici sette nominati sono:

Francesca A. Vanni del blog I libri di Francesca
Red Bavon del blog Pictures of You
Alessia H.V. del blog omonimo
Kukuviza del blog CineCivetta
Pirkaf del blog Frammenti e Tormenti
Clementina Daniela Sanguanini del blog L'angolo di Cle
Maria Teresa Steri del blog Anima di Carta

P.S. Per scegliere i miei sette nominati ho utilizzato la casella "Cerca" nei loro blog. Credo così di aver coinvolto tutte persone che non hanno mai partecipato prima a questo meme. Purtroppo ho anche dovuto escludere in partenza chi non dispone della suddetta casella di ricerca nella propria Home Page.


* * *


Nella foto di apertura del post: Kodi Smit-McPhee e Chloë Grace Moretz in Let Me In di Matt Reeves (2010).

Il mio primo computer - La tag benedetta da SanTag nerdAntonio

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Uno spettro si aggira da alcuni giorni nella blogosfera. E trascina rumorosamente con sé l'ennesima catena di San Taggantonio. Dal titolo, stavolta: Il mio primo computer, la tag benedetta da SanTag nerdAntonio! Come dire che siamo nel campo dell'indagine paleostorica, messa in piedi da uno dei più valenti, e prolifici, blogger che io conosca: Red Bavon del blog Pictures of You. Sebbene, per la verità, sia stato l'altrettanto valente e prolifico Lucius Etruscus a ungere me, in questo suo post, dopo che il Bavone Rosso ha unto lui. E non sia mai che io rifiuti una cortese unzione.

Ma prima di dire la mia, ecco alcuni prelievi dal post di lancio del Tag su Pictures of You, con l'essenziale di quel che vi serve sapere, nel caso voleste aggregarvi:

Questa catena non ha elenchi di domande obbligatorie e non ha impegni di nominare alcuno. Questa catena ha solo due regole:

scrivete del vostro primo computer
se avete continuato la catena, a chi vi ha unto inviate il link al vostro anello[Cioè, N.d.R., se partecipate perché avete letto questo post, a me]

La catena è – contrariamente al suo nome – a tastiera libera. Per aiutarvi a mettere le mani sulla tastiera, suggerisco alcune domande con cui iniziare, ma – ripeto – sono solo suggerimenti.

Quale è stato il mio primo computer?

Chi ha comprato o regalato il mio primo computer?

Quali sono stati i primi software che usavo sul mio primo computer?

Chi mi ha iniziato all’uso del mio primo computer?

Insieme a chi usavo il mio primo computer?

Che fine ha fatto il mio primo computer?

Fine dei prelievi. Aggiungo soltanto, prima di addentrarmi a mia volta nel Tag, che sentendomi io poco portato per l'argomento non ho proceduto a tastiera libera ma mi sono attenuto scrupolosamente al percorso in sei domande. Con questo risultato:

Domanda 1. Quale è stato il mio primo computer?
Non ne ho la più pallida idea. Nel senso che non ricordo nulla delle sue caratteristiche tecniche, eccettuato le dimensioni del monitor che sono quasi sicuro fosse un 13 pollici. Si trattava in ogni caso di un normale computer da tavolo dell'epoca (1989), di medie prestazioni, assemblato da mio cugino che di lavoro fa il tecnico informatico, dopo che io avevo acquistato separatamente, a mio gusto, i vari componenti.

Domanda 2. Chi ha comprato o regalato il mio primo computer?
Risposta già inclusa nella precedente risposta.

Domanda 3. Quali sono stati i primi software che usavo sul mio primo computer?
In quel periodo, la fine degli anni '80, il mio interesse primario era ancora la grafica. E avevo appunto acquistato il computer per aggiornare, con la grafica computerizzata, le mie competenze in materia, così da non fare la fine del dodo (o, per stare più nell'attualità, del rinoceronte bianco). Il mio programma di elezione era per questo Corel Draw, che oggi neanche sento più nominare. Di altri programmi utilizzati all'epoca, non ho memoria.




Domanda 4. Chi mi ha iniziato all’uso del mio primo computer?
Ed ecco arrivato il punto dolente della storia. Animato dalla mia neonata volontà di diventare un grafico armato di computer, anziché solo di china e pennello, mi sono iscritto a un costoso corso di computer grafica proposto da una celebre scuola di dattilografia dell'epoca, qualcosa della durata di tre mesi o giù di lì. Ebbene, vuoi per la brevità del corso vuoi per la negligenza dell'insegnante, raccattato chissà dove e perché, ne sono uscito con qualcosa di meno di una infarinatura in materia accompagnata da un pezzo di carta che, come tutti i pezzi di carta, è utile solo per il primo approccio. Perché la vita vera, poi, è un'altra cosa. Mi sono infatti dedicato, nei due mesi successivi, a una serie di colloqui di lavoro - per uno dei quali mi sono spinto fino a Milano - dall'esito talmente scoraggiante che alla fine... lo vedremo alla domanda 6. Il punto è che i colloqui in sé andavano pure bene, ma quando poi si passava dall'orale allo scritto e venivo messo per prova davanti al più aggiornato software di grafica per Macintosh di ultima generazione, ecco che non sapevo più che pesci prendere. Ho così capito, dopo quattro o forse cinque colloqui, che era inutile continuare a sprecare tempo e soldi per viaggiare a vuoto.

Domanda 5. Insieme a chi usavo il mio primo computer?
Insieme a nessuno. Tanto più che non ho neanche mai giocato a un videogame in vita mia.

Domanda 6. Che fine ha fatto il mio primo computer?
Barattato, al termine della suddetta serie di colloqui infruttuosi, con un biglietto aereo per Los Angeles. Era l'estate del 1990 e non mi sono mai pentito dello scambio.




E ora, chi vuole aggregarsi è il benvenuto. Ricordatevi soltanto di lasciarmi nei commenti il link al vostro contributo, così che poi posso aggiungerlo qua sotto.

Hanno per ora aderito:

Ariano Geta, del blog omonimo, con il post Il mio primo computer, ovvero: quando il me.me. chiama e il blogger risponde.

Segnalazione: I grandi sceneggiati della televisione italiana

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E' da pochi giorni disponibile nelle edicole, a cura di Centauria (ex Fabbri) in collaborazione con RAI.com., il primo numero de I grandi sceneggiati della televisione italiana, collana destinata a comprendere tutti quegli storici sceneggiati che forse ancora oggi rappresentano il punto più alto toccato dalle produzioni televisive italiane. Molti titoli saranno senz'altro familiari a chi, come me, ha una certa età, e magari sarà altrettanto felice di me di cogliere in tutto, o in parte, questa occasione. Per quel che mi riguarda, fedele alla mia scelta di attenermi il più possibile all'essenziale, mi procurerò solo i titoli a cui più sono affezionato nel mio ricordo. Per fortuna la prima uscita, con i primi quattro capitoli dell'Odissea di Franco Rossi, rientra in questa mia personale categoria. Così come vi rientra, ovviamente, la seconda, con i rimanenti quattro capitoli dello sceneggiato. E pure la terza, che presenta per intero Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini. Dopodiché, comincerò a selezionare gli acquisti.



Per i dati tecnici, quel che più serve sapere è che ogni uscita comprende due DVD e una mini brochure con notizie sullo sceneggiato in questione. Il prezzo è di € 3.99 per la prima uscita e, salvo variazioni, di € 10.99 per le successive.
Sono previste in totale, sempre salvo variazioni, 80 uscite a periodicità settimanale. Ecco il calendario delle prime 31:
  1. 15/03: Odissea 1-4
  2. 29/03: Odissea 5-8
  3. 05/04: Le avventure di Pinocchio 1-6
  4. 12/04: I promessi sposi 1-4
  5. 19/04: I promessi sposi 5-8
  6. 26/04: Il conte di Montecristo 1-4
  7. 03/05: Il conte di Montecristo 5-8
  8. 10/05: Il mulino del Po 1-5
  9. 17/05: I fratelli Karamazov 1-4
  10. 24/05: I fratelli Karamazov 5-7
  11. 31/05: Il giornalino di Gian Burrasca 1-4
  12. 07/06: Il giornalino di Gian Burrasca 5-8
  13. 14/06: ...E le stelle stanno a guardare 1-5
  14. 21/06: ...E le stelle stanno a guardare 6-9
  15. 28/06: La cittadella 1-4
  16. 05/07: La cittadella 5-7
  17. 12/07: I miserabili 1-5
  18. 19/07: I miserabili 6-10
  19. 26/07: La freccia nera 1-4
  20. 02/08: La freccia nera 5-7
  21. 09/08: L’idiota 1-3
  22. 16/08: L’idiota 4-6
  23. 23/08 Le sorelle Materassi 1-3
  24. 30/08 Orgoglio e pregiudizio 1-5
  25. 06/09: I Buddenbrook 1-4
  26. 13/09: I Buddenbrook 5-7
  27. 20/09: Jane Eyre 1-5
  28. 27/09: David Copperfield 1-4
  29. 04/10: David Copperfield 5-8
  30. 11/10: Una tragedia americana 1-4
  31. 18/10: Una tragedia americana 5-7
Fonte: Centauria.it


Rimango a questo punto in fervida attesa di sapere quando arriverà quella a cui io tengo di più: Le avventure di Ciuffettino.




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Nell'immagine di apertura, uno dei momenti più celebri dello sceneggiato televisivo Odissea (1968).

Il regno di ERB: The Greatest Adventure /2

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Come forse ricorderete, il post precedente era dedicato quasi per intero a introdurre lo scienziato Jason Gridley, figura di primo piano in The Greatest Adventure, la recentissima serie a fumetti che riporta sulla scena, dopo l'ennesimo intervallo decennale, Meriem, la prima Tarzanide della storia. E ho cominciato dall'inizio, cioè dal romanzo Tanar of Pellucidar di Edgar Rice Burroughs, dove Gridley fa la sua prima apparizione in assoluto, come abitante di Tarzana e vicino di casa di Burroughs che, all'epoca della composizione del romanzo, viveva appunto nella cittadina da lui fondata a nome del suo eroe più famoso. Abbiamo inoltre visto, nella stessa occasione, come sia proprio attraverso la cosiddetta onda di Gridley che Burroughs viene a conoscenza delle vicende che farà poi confluire nelle pagine del suo Tanar of Pellucidar.
Il presente post riprende il discorso da dove lo avevo lasciato, ma concentrandosi stavolta sul successivo romanzo del ciclo di Pellucidar, il quarto, che è allo stesso tempo anche il tredicesimo romanzo del ciclo di Tarzan, come ben evidenzia il titolo Tarzan at the Earth's Core. Al centro della Terra, perché il mondo di Pellucidar, elaborato da Burroughs sulla base della stessa teoria semi-scientifica della terra cava già sfruttata in precedenza da autori del fantastico come Edgar Allan Poe e Jules Verne, si trova appunto nelle viscere del nostro pianeta.
Quella che vi propongo ora di seguito, nella mia traduzione (è in ogni caso tutto materiale inedito in Italia), è la descrizione di Pellucidar che Burroughs offre, proprio all'inizio di Tarzan at the Earth's Core, a beneficio di quei suoi lettori che leggono le avventure del re della giungla ma non magari quelle di David Innes. Leggerla a nostra volta ci permetterà di sapere tutto quel che per il momento ci serve sapere su questo misterioso regno sotterraneo, che sostituisce, nell'universo fantastico dello scrittore americano, il più tradizionale regno di Agarthi.


Edgar Rice Burroughs


Pellucidar, come è noto a ogni ragazzo in età scolare, è un mondo interno a un mondo, spalmato sulla superficie interna di quella sfera cava che è la Terra.
A scoprirlo per primi furono David Innes e Abner Perry, in occasione del viaggio di prova sul prospettore meccanico inventato da Perry, col quale speravano di riuscire a localizzare nuovi giacimenti di antracite. A causa però della loro incapacità di deviare il muso della macchina una volta che questa ha iniziato a penetrare la crosta terrestre, hanno proseguito senza deviazioni per ottocento chilometri*. Finché, dopo tre giorni, quando Perry era già incosciente a causa dell’esaurimento delle scorte di ossigeno e David era sul punto di seguirlo, il muso del prospettore si è fatto strada attraverso la superficie del mondo interno e la cabina di guida si è riempita di nuova aria.
Negli anni trascorsi da allora, questi due esploratori hanno vissuto delle avventure ben strane. Perry non ha mai fatto ritorno alla superficie terrestre, Innes solo una volta – in occasione del suo difficile e pericoloso viaggio di ritorno nel prospettore allo scopo di procurarsi gli strumenti necessari a portare la civiltà del ventesimo secolo nell’impero da lui fondato nel mondo interno e ai suoi primitivi abitanti, rimasti all’età della pietra. Ma a causa dei reiterati scontri con altri uomini primitivi e con ancor più primitivi mammiferi e rettili, i progressi dell’impero di Pellucidar verso la civiltà sono stati irrisori e, per quel che riguarda l'estesa superficie del mondo interno , e il suo brulicare di forme di vita appartenenti a età diverse dalla nostra, David Innes e Abner Perry potrebbero benissimo non essere mai esistiti.
Ci basta infatti considerare che le aree della superficie di Pellucidar coperte dalla terra e dall’acqua sono in relazione opposta alle stesse aree della crosta esterna, per farci una pallida idea di quanto sia esteso questo maestoso mondo dentro un mondo.
Dunque, se si prende in esame solo l’area coperta dalla terra, ci troviamo allora di fronte alla strana anomalia di un mondo più grande all’interno di un mondo più piccolo, ma dopotutto Pellucidar è un mondo di costante deviazione da quelle che noi abitanti della crosta esterna abbiamo finito per accettare come inviolabili leggi di natura.
Al centro esatto della Terra splende il sole di Pellucidar, una sfera minuscola se comparata alla nostra, ma sufficiente a illuminare Pellucidar e inondare tutto il suo brulicare di vita di raggi che danno calore e vita. Con il sole eternamente allo zenit, non esiste notte su Pellucidar, ma un eterno meriggio senza fine.
Non essendoci stelle né alcun movimento apparente del sole, Pellucidar non ha punti cardinali; e neanche ha un orizzonte, giacché la sua superficie, dal punto di vista dell’osservatore, curva sempre verso l’alto in ogni direzione, così che pianure, mari o catene di montagne si allontanano e si inerpicano fino a confondersi nella distanza e verso l’alto. E ancora, in un mondo dove non esistono sole, stelle o luna come noi le conosciamo, non può esserci neanche il tempo così come noi lo conosciamo. In altri termini, Pellucidar è un mondo senza tempo, che può solo essere libero da quei flagelli umani che richiamano sempre alla nostra attenzione l'esempio della “formichina industriosa” o il fatto che “il tempo è denaro”. Sebbene queste cose possano rappresentare “il cuore del nostro mondo” e l’“essenza del contratto sociale”, nella beatifica esistenza di Pellucidar contano meno di zero.
Tre volte in passato noi del mondo esterno abbiamo ricevuto comunicazioni da Pellucidar. Sappiamo che il primo grande dono di civiltà di Perry all’età della pietra è stato la polvere da sparo. Sappiamo che lo fece seguire da fucili a ripetizione, piccole navi da guerra su cui aveva montato fucili non di grosso calibro, e sappiamo infine che perfezionò una radio che non poteva essere sintonizzata su nessuna onda o lunghezza d’onda conosciuta nel mondo esterno, e che toccò al giovane Jason Gridley di Tarzana, mentre sperimentava con la sua onda di Gridely di recente scoperta, captare il primo messaggio da Pellucidar.




E qui si richiude, per il momento, il cerchio. Ma prima di andare avanti soffermiamoci ancora un attimo su questa descrizione di Pellucidar a opera di Burroughs, e in particolare sul passaggio: "Pellucidar è un mondo di costante deviazione da quelle che noi abitanti della crosta esterna abbiamo finito per accettare come inviolabili leggi di natura". Ma quali sono esattamente queste deviazioni? Una la sottolinea lo stesso scrittore, rilevando come le parti che nel nostro mondo sono ricoperte d'acqua, in Pellucidar lo sono di terra, e viceversa, con la conseguenza paradossale che vi è più terra percorribile nel mondo più piccolo che su quello più grande che lo contiene. Un'altra deviazione ha invece a che fare con l'esistenza di un sole interno del diametro presunto di circa 1000 km**, più piccolo quindi della più piccola nana bianca conosciuta ma con una massa abbastanza contenuta da non far collassare la sottile crosta del globo terrestre. Si potrebbero infine citare, per ultimo, le sfide di vario genere che tutto l'insieme comporta al modello newtoniano della gravitazione universale con le sue leggi.

Naturalmente, mai come in questo caso, tutto è relativo, ed è facile capire come nella percezione di ipotetici abitanti del mondo interno sarebbe il nostro mondo di superficie a deviare dalle loro "inviolabili leggi di natura".

Ma torniamo ora alla parte iniziale di Tarzan at the Earth's Core, che così continua:

L’ultima notizia ricevuta da Perry prima che il suo messaggio si affievolisse e si interrompesse era che David Innes, primo imperatore di Pellucidar, languiva in un’oscura prigione nella terra dei Korsar, a un continente e un oceano di distanza dalla sua amata terra di Sari, che si trova su un grande altipiano non molto nell’entroterra rispetto al Lural Az.

Quest'ultimo passaggio è il trait-d'union di Tarzan at the Earth's Core con il precedente Tanar of Pellucidar, che si chiudeva appunto con la notizia della prigionia di David Innes e la conseguente decisione di Jason Gridley di fare ogni cosa in suo potere per liberarlo. Il suo pensiero va allora a Lord Greystoke, alias Tarzan delle scimmie, che è esattamente il tipo di persona, dalle capacità straordinarie e dalle enormi risorse economiche, di cui necessita perché l'impresa vada a buon fine.
Ed ecco ora la prima parte di un estratto dal lungo dialogo tra i due che fa seguito al loro incontro sul suolo africano.
E’ Tarzan qui a porre la domanda iniziale:

“Cosa la porta dal sud della California fin nel cuore dell’Africa?”.
Gridley sorrise. “Ora che sono davvero qui” rispose, “faccia a faccia con lei, mi devo all’improvviso confrontare con la mia convinzione che, dopo che avrà udito la mia storia, mi sarà difficile convincerla che non sono pazzo, e tuttavia nella mia mente sono così assolutamente convinto della verità di quel che sto per dirle che ho già investito una considerevole quantità di denaro e di tempo solo per metterle sotto gli occhi il mio progetto, allo scopo di ottenere un suo sostegno personale ed economico, e sono a mia volta pronto e volenteroso di investire ancora più del mio denaro e tutto il mio tempo. Sfortunatamente non sono in grado di finanziare per intero la spedizione con le mie sole risorse, ma non è questa la ragione principale che mi ha spinto a venire a cercarla. Non ho dubbi che avrei potuto reperire altrove il denaro necessario, ma io credo che lei sia particolarmente adatto per guidare un’impresa come quella che ho in mente.”
“Qualunque spedizione lei abbia in mente” replicò Tarzan, “i potenziali ricavi devono essere enormi se è così volenteroso di rischiare una gran quantità del suo denaro.”
“Al contrario” ribatté Gridely, “per quanto posso prevedere non ci sarà profitto finanziario per nessuno che vi sarà coinvolto”.
“E lei sarebbe un Americano?” commentò sorridendo Tarzan.
“Non siamo tutti pazzi per il denaro” rispose Gridley.
“Allora qual è l’incentivo? Si spieghi fino in fondo”.
“Ha mai sentito della teoria della Terra come sfera cava, contente al suo interno un mondo abitabile?”.
“La teoria che è stata definitivamente smentita dalla ricerca scientifica?” ribatté l’uomo scimmia.
“Ma è stata davvero smentita in modo soddisfacente?” chiese Gridley.
“Abbastanza da soddisfare gli scienziati” disse Tarzan.
“E da soddisfare me” replicò l’americano, “fino a quando non ho ricevuto di recente un messaggio direttamente dal mondo interno”.
“Lei mi sorprende” commentò l’uomo scimmia.
“Anch’io ne sono rimasto sorpreso, ma rimane il fatto che sono stato in comunicazione radio con Abner Perry del mondo interno di Pellucidar e ho portato una copia del messaggio con me oltre a una dichiarazione giurata della sua autenticità da parte di un uomo il cui nome le è familiare e che era con me durante la ricezione; in effetti ha ascoltato il messaggio nello stesso tempo in cui lo ascoltavo io. Eccoli qua”.
Jason Gridely lesse per una mezzora alcuni estratti dal manoscritto che aveva di fronte. “Questo” disse una volta che ebbe terminato di leggere, “è ciò che mi ha convinto dell’esistenza di Pellucidar, ed è la spiacevole situazione in cui si trova David Innes che mi ha spinto a venire da lei con la proposta di intraprendere una spedizione il cui principale scopo sarà salvarlo dalle prigioni dei Korsar”.


Daily strip dalla riduzione a fumetti di Tarzan at the Earth's Core (1947-48).
Adattamento di Rob Thompson; disegni di Burne Hogarth e Dan Barry.


Come si vede, Tarzan at the Earth's Core si mostra un seguito diretto di Tanar of Pellucidar anche nella scelta di Burroughs di riprendere il suo gioco metaletterario. Tarzan, come i protagonisti del ciclo di Pellucidar, è a sua volta in rapporti con il suo autore, Edgar Rice Burroughs, la cui autorevolezza è portata da Gridley a testimonianza dell'autenticità del manoscritto nelle sue mani, che è poi sempre Tanar of Pellucidar. Con quali argomentazioni, poi, lo stesso Gridley riuscirà a sconfiggere del tutto il manifesto scetticismo iniziale del re della giungla lo vedremo nel prossimo post, con il seguito del dialogo.


* * *

Note

* La misura di 800 km per il guscio esterno della Terra fu proposta per la prima volta dall'astronomo inglese Edmund Halley, sostenitore della teoria della terra cava a gusci concentrici, in Philosophical Transactions of Royal Society of London (1692).
Marshall B. Gardner nel suo A Journey to the Earth's Interior or Have the Poles Really Been Discovered? (1913) propone una misura di circa 1300 km.

** In: Marshall B. Gardner, op. cit. Ma anche in: L.Sprague de Camp and Wily Ley, Lands Beyond (1952).
Per la sua teoria del sole interno situato al centro della terra cava, Gardner si è basato sul modello delle nebulose con guscio sferico traslucido e sfera incandescente centrale (proporzionalmente piccola), oltre che su quello, per certi versi analogo, delle comete.

L'immagine di apertura del post è di Frank Frazetta ed è un dettaglio della copertina dell'edizione ACE (1974) di At the Earth's Core (1913), primo romanzo del ciclo di Pellucidar.

Il regno di ERB: The Greatest Adventure /3

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Riprendo qui, dal punto esatto in cui lo avevo interrotto alla fine del precedente post, il dialogo tra il giovane scienziato Jason Gridley e Tarzan, con Gridley che cerca di persuadere l'uomo scimmia a unirsi alla sua spedizione verso il mondo sotterraneo di Pellucidar, allo scopo di liberare David Innes dalla prigionia dei Korsar.

“E lei pensa che sia possibile farlo?” chiese l’uomo scimmia. “E’ convinto dell’esattezza della teoria di Innes che esiste un accesso al mondo interno a ciascuno dei poli?”
“Mi sento libero di ammettere che non so a cosa credere” replicò l’americano. “Ma dopo aver ricevuto il messaggio da Perry ho iniziato a investigare e ho scoperto che la teoria di un mondo abitabile al centro della terra a cui conducono delle aperture ai poli nord e sud non è nuova e che vi sono molte prove a suo sostegno. Ho trovato un’esposizione molto dettagliata della teoria in un libro scritto intorno al 1830 e in un’altra opera più recente. Al loro interno ho trovato quelle che sembrano interpretazioni ragionevoli di fenomeni  molto conosciuti ma che non sono stati spiegati in modo soddisfacente da nessuna ipotesi sostenuta dalla scienza.
“Quali, per esempio?”.
“Be’, per esempio, i venti e le correnti oceaniche calde provenienti dal nord di cui parlano praticamente tutti gli esploratori dell’artico; la presenza di rami d’albero con foglie verdi che fluttuano verso sud dall’estremo nord, molto al di sopra della latitudine a cui si incontrano sulla crosta esterna; poi c’è il fenomeno dell’aurora boreale, che alla luce della teoria di David Innes può essere facilmente spiegato nei termini di raggi di luce provenienti dal sole centrale del mondo interno, che si fanno occasionalmente strada attraverso la nebbia e i banchi di nubi sovrastanti l’apertura polare. Inoltre c’è il polline, che spesso ricopre in spessi strati il ghiaccio e la neve di alcune aree della regioni polari. Questo polline può provenire solo dal mondo interno. E in aggiunta a tutto questo c’è l’insistenza delle tribù eschimesi dell’estremo nord sulla provenienza dei loro antenati da un paese più a nord”.

Per il "libro scritto intorno al 1830", il candidato più probabile mi sembra essere Symmes's theory of concentric spheres: demonstrating that the earth is hollow, habitable within, and widely open about the poles, scritto nel 1826 da James McBride, sulla base delle tesi di John Cleves Symmes Jr., assertore dell'idea che siano le aperture ai poli a condurre all'interno della terra. Mentre "l'opera più recente" potrebbe essere sia il libro di William ReedPhantom of the Poles, pubblicato a New York nel 1906, o quello di Marshall B. Gardner già citato nel precedente post: A Journey to the Earth's Interior or Have the Poles Really Been Discovered?, del 1913. Fra parentesi, Gardner richiese e ottenne per la sua teoria un brevetto (n.1096102 degli Stati Uniti).
I fenomeni citati nel seguito del testo erano, e in buona misura lo sono ancora oggi, tutti fenomeni citati dai sostenitori della teoria della terra cava a riprova della sua veridicità.

“Ma Admunsen ed Ellsworth della spedizione norvegese non dettero la prova definitiva della non esistenza, al polo nord, di un’apertura della crosta terrestre? E non sono già stati compiuti già abbastanza voli aerei sulle regioni ancora inesplorate in prossimità del polo?” continuò l’uomo scimmia.
“La risposta è che l’apertura polare è talmente grande che un’aeronave, un dirigibile o un aeroplano potrebbero discendere per un poco al di là del suo bordo e poi uscirne di nuovo fuori senza neanche rendersene conto, ma la teoria più plausibile è che nella maggioranza dei casi gli esploratori si sono semplicemente limitati a seguire il margine esterno dell’orifizio, il che spiegherebbe il peculiare malfunzionamento della bussola e di altri strumenti scientifici in prossimità del cosiddetto polo nord – una questione su cui si sono interrogati a lungo tutti gli esploratori dell’artico”.

Secondo Gardner il diametro delle aperture polari è di circa 2250 km. Dimensioni così grandi, unite alla estrema gradualità della loro curvatura, fanno sì che tali aperture siano impossibili da osservare visivamente da terra o da voli ravvicinati. Ma anche l'occhio dei moderni satelliti incontra dei problemi, a causa del fenomeno di condensazione conseguente al contatto dell'aria calda interna con l'aria esterna polare, con il risultato che le aperture sono quasi sempre coperte da uno spesso strato di nubi.

“Il rischio più grande con cui dovremo confrontarci è la possibile incapacità di fare ritorno alla crosta esterna, a causa della dispersione di elio che potrebbe rendersi necessaria per manovrare l'aeronave. Ma non si tratta nient’altro che delle chance di vita o morte di cui ogni esploratore o ricercatore scientifico deve volontariamente farsi carico per condurre il proprio operato. Se fosse possibile costruire uno scafo abbastanza leggero, e allo stesso tempo abbastanza resistente da sopportare la pressione atmosferica, allora potremmo fare a meno sia del pericoloso idrogeno sia del raro e costoso elio e assicurarci il massimo della sicurezza e il massimo della flessibilità in un’aeronave sostenuta per intero da serbatoi di vuoto”.
“Forse è anche possibile” osservò Tarzan, che manifestava un crescente interesse verso le asserzioni di Gridley.
L’americano scosse la testa. “Forse un giorno sarà possibile” spiegò. “Ma non con i materiali oggi conosciuti. Qualsiasi recipiente che abbia sufficiente forza da sostenere la pressione atmosferica sulle pareti di uno spazio vuoto avrebbe un peso davvero troppo grande perché possa levarsi in volo”.

Ma Tarzan, che ha un insospettabile asso nella manica, non sembra dello stesso avviso.

"Forse" osservò Tarzan. "Ma forse anche no".
"Che intende dire?" lo inquisì Gridley.
"Quel che mi ha appena detto" rispose tarzan, "mi ha riportato alla mente qualcosa che un mio giovane amico mi ha detto di recente. Erich von Harben è lui stesso una specie di scienziato ed esploratore, e l’ultima volta che l’ho visto aveva appena fatto ritorno da una seconda spedizione nelle Montagne Wiramwazi, dove mi ha detto di aver scoperto una tribù che abitava sul lago e usava canoe fatte di un metallo che era all’apparenza più leggero del sughero e più forte dell’acciaio. Ha portato con sé dei campioni del metallo e l’ultima volta che l’ho visto stava conducendo degli esperimenti in un piccolo laboratorio che ha allestito nella missione di suo padre”.
“Dov’è quest’uomo?” chiese Gridley.
“La missione del Dr. Von Harben si trova nel paese degli Urambi” rispose l’uomo scimmia, “a circa quattro giorni di marcia da dove siamo ora”.
I due uomini discussero del progetto fino a notte fonda, perché Tarzan era adesso vivamente interessato, e il giorno dopo deviarono verso il paese degli Urambi e la missione di von Harben, dove arrivarono il quarto giorno e furono accolti dal Dr. Von Harben e il figlio Erich, come anche dalla moglie di quest’ultimo, la bellissima Favonia di Castrum Mare.

Figlio del missionario amico di Tarzan Karl von Harben, Erich von Harbenè uno dei protagonisti di Tarzan and the Lost Empire (Tarzan e l'impero perduto), dodicesimo romanzo del ciclo, la cui pubblicazione, nel 1928, precede di un anno quella di Tanar of Pellucidar e di due anni quella di Tarzan at the Earth's Core.
Pur avendo, esattamente come Jason Gridley, solo ventitré anni al momento del suo primo incontro con l'umo scimmia, Erich
, oltre che un archeologo e studioso di lingue morte, è già un esperto alpinista. In occasione di una delle sue visite al padre in Africa è incuriosito dalle storie degli anziani Bantu, a proposito di una misteriosa tribù di bianchi che si nasconderebbe nelle profondità delle montagne del Wiramwazi*, e decide di organizzare una spedizione alla ricerca di quella che, secondo lui, potrebbe essere la biblica tribù perduta di Israele.

Si tratta, in realtà, dei discendenti dei sopravvissuti di un'antica spedizione romana nell'interno dell'Africa, che, dopo aver trovato rifugio in una valle incassata nel cuore del Wiramwazi, hanno scatenato una guerra civile e si sono divisi in due fazioni, reggente ognuna un proprio mini impero. Il primo, Castrum Mare, è situato a est ed è governato dall'Imperatore d'Oriente Validus Augustus, l'altro, Castra Sanguinarius, è situato a ovest ed è governato dall'imperatore d'Occidente Sublatus.
Tarzan entra in scena quando Karl von Harben gli chiede di mettersi sulle tracce del figlio disperso. A complicare le cose, prima dell'inevitabile lieto fine con tanto di nozze tra il giovane von Harben e la citata Favonia, la circostanza che Tarzan ed Erich von Harben entrano nella valle da due vie diverse, così che si ritrovano a lungo separati, con l'uomo scimmia confinato in Castra Sanguinarius e l'altro in Castrum Mare.

Ma torniamo ora, dopo questa rapida introduzione al personaggio, al vero motivo per cui
 Erich von Harben è stato tirato in ballo: l'harbenite, un metallo sconosciuto da lui rintracciato nella valle nascosta. Più leggero del sughero ma più resistente dell'acciaio, è esattamente quel che serve a far sì che l'aeronave sognata da Gridley diventi realtà.

E sei mesi più tardi, quando lo 0-220**, come era ufficialmente conosciuto, fu pronto ad alzarsi in volo, venne genericamente considerato nulla più di un nuovo modello di dirigibile pronto a essere utilizzato come un qualunque altro mezzo di trasporto su una delle tante rotte aeree commerciali europee.
Il grande scafo a forma di sigaro dello 0-220 era lungo poco più di trecento metri e misurava 45 metri di diametro.*** L’interno dello scafo era diviso in sei ampi compartimenti stagni, tre dei quali, lunghi quanto l’intera nave, sopra la linea mediana e tre sotto. Dentro lo scafo, e sempre disposti per tutta la sua lunghezza sui lati della nave, tra i serbatoi di vuoto superiori e inferiori, si trovavano dei lunghi corridoi in cui erano albergati i motori e le pompe, in aggiunta alle riserve di nafta e benzina.
La collocazione interna della stanza dei motori era resa possibile dall’eliminazione del rischio di incendio - una fonte di pericolo sempre presente nelle aeronavi che dipendono per il loro volo dall’idrogeno - per mezzo della realizzazione a prova di fuoco dello 0-220; ogni sua parte era infatti di harbenite, utilizzato per tutto eccetto che per gli arredamenti e le rifiniture della cabina e per certi rivestimenti e cuscinetti a sfera di motori, generatori ed eliche.

La descrizione di Burroughs, particolareggiatissima, va avanti ancora a lungo; io ho voluto riportarne l'inizio per darne un'idea. Ci basti sapere, di altro, che il peso totale del dirigibile è di 75 tonnellate rispetto alla capacità di sollevamento totale di 225 tonnellate dei suoi serbatoi.****
Il Burroughsologo Rick Johnson, che si è preso la briga di verificare ogni dato in sede separata, ha concluso che Burroughs era padrone della materia. Vale a dire, se davvero esistesse qualcosa come l'harbenite, lo 0-220 costruito in base al progetto dello scrittore funzionerebbe realmente.


Diagramma dello 0-220 realizzato da Rick Johnson sulla base
della minuziosa descrizione di Edgar Rice Burroughs.


E ora, stabilito questo, non resta che accomodarci tutti a bordo e iniziare il nostro viaggio verso il polo sud e il centro della terra.


* * *

Note

* Il Wiramwazi è una delle tante regioni immaginarie dell'Africa inventate da Burroughs nel suo ciclo di romanzi su Tarzan.

** Nulla di esoterico nella scelta di questa sigla. Si tratta semplicemente del numero di telefono dell'ufficio di Edgar Rice Burroughs al tempo della stesura del romanzo.

*** Per dare un'idea delle dimensioni dello 0-220, il più grande dirigibile mai costruito, l'Hindenburg, o LZ-129, era lungo 245 metri e aveva un diametro massimo di 41 metri.

**** Il peso dell'Hindenburg era invece di 215 tonnellate, con una capacità di sollevamento totale (per mezzo di serbatoi di idrogeno) di 232 tonnellate.

L'immagine di apertura del post è: Gerald Brom, Tarzan at the Earth's Core (1997).


Il regno di ERB: The Greatest Adventure /4

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Ho concluso il post precedente con la promessa che saremmo saliti a bordo dello 0-220, diretti verso il polo nord e l’ingresso al mondo sotterraneo di Pellucidar. Voglio però, prima di arrivare a questo, fare ancora un piccolo passo indietro e riprendere un’ultima volta in mano Tanar of Pellucidar, e più precisamente le suggestive pagine del capitolo XIV, intitolato Two Suns (Due soli), in cui David Innes, insieme a quattro suoi compagni d'avventura, scopre l’apertura polare. Le traduco qui con un doppio intento: rivelare come David Innes sia venuto a conoscenza dell’esistenza delle aperture polari, e dimostrare il livello di capacità descrittiva di Edgar Rice Burroughs, che certamente si addossa un compito di scrittura non facile.

La vegetazione boschiva mutava in pini e cedri e comparvero anche radure spazzate dal vento e punteggiate di alberi contorti e scheletrici. L’aria era più fredda di come l’avessero mai conosciuta nella loro terra natia, e quando il vento soffiava da nord tremavano intorno ai loro alti fuochi da campo. Incontravano sempre meno animali e questi erano coperti di pelliccia più folta. Da nessuna parte c’era traccia dell’uomo.
In un’occasione, dopo che si erano accampati, Tanar indicò il terreno ai suoi piedi. “Guarda” disse a David. “La mia ombra non è più sotto di me” e poi, guardando in alto: “E il sole non è più sopra di noi”.
“L’avevo notato” replicò David, “e sto cercando di capire perché, e forse ci riuscirò con l’aiuto delle leggende dei Korsar”.

Come forse ricorderete, David Innes, giovane erede di un’impresa mineraria, e il suo più anziano amico inventore Abner Perry, erano arrivati in Pellucidar senza intenzione, perdendo il controllo, nel corso di una perforazione della crosta terrestre, del loro prospettore meccanico. Dei due, Perry non era mai più tornato in superficie, mentre Innes vi aveva fatto ritorno una sola volta, allo scopo di procurarsi delle invenzioni tecnologiche utili a migliorare la qualità della vita nell'impero da lui fondato e retto in Pellucidar. Utilizzando però di nuovo il prospettore meccanico. Come aveva appreso, allora, dell'esistenza delle aperture polari? Non certo dai primitivi e ignari abitanti di Pellucidar, bensì per esperienza diretta, solo un po' agevolata dalle leggende che aveva ascoltato dai Korsar. Proprio questi ultimi rappresentano infatti un’eccezione tra i popoli del mondo interno, essendo non una popolazione indigena ferma all’età della pietra, ma i discendenti di pirati arrivati dalla crosta esterna secoli prima, dopo che, persa la rotta, erano penetrati a loro insaputa nell’apertura polare. Una volta in Pellucidar, vi avevano fondato una città di mare, e avevano proliferato unendosi con le donne indigene; in più si erano costruiti delle navi per continuare l'esercizio della pirateria. È a causa di tutto questo che nelle loro leggende trovano posto anche dei vaghi riferimenti all’apertura polare. Naturalmente Innes, trovandosi in Pellucidar, fa la sua scoperta dalla prospettiva opposta alla nostra, cioè dall’interno verso l’esterno della crosta terrestre. Ma riprendiamo ora il racconto di burroughs...

Man mano che procedevano, le loro ombre si allungavano e la luce e il calore del sole diminuivano, finché si ritrovarono ad avanzare in un semi-crepuscolo eternamente freddo.
Ma ormai da un pezzo erano stati costretti a confezionarsi, con le pellicce degli animali che uccidevano, abiti più caldi. Tanar e Ja volevano ripiegare indietro verso sud-est, perché il loro strano istinto di casa li guidava in quella direzione, verso la loro terra, ma David chiese loro di accompagnarlo ancora un po’ più avanti, poiché nella sua mente si era formata una strana teoria meravigliosa e voleva spingersi un pochino oltre, alla ricerca di prove più convincenti sulla sua esattezza.
Quando dormivano, giacevano sempre accanto a degli alti falò, ma una volta, al risveglio, si ritrovarono coperti da un leggero manto di una sostanza bianca e fredda che spaventò i Pellucidariani. Ma che David sapeva essere neve. E l’aria era piena di quei granelli che roteavano nel vento mentre colpiva le parti esposte dei loro volti, poiché adesso vestivano copricapi e cappucci di pelliccia e avevano le mani infilate in caldi guanti.
“Non potremo continuare ancora a lungo in questa direzione” osservò Ja, “o moriremo tutti”.
“Forse hai ragione” disse David. “Voi quattro tornate indietro in direzione sud-est, mentre io mi spingerò ancora un po’ più a nord e mi ricongiungerò a voi quando avrò soddisfatto la mia curiosità a proposito di qualcosa che ho fiducia sia vero”.
“No” ribatté con forza Tanar, “rimarremo insieme. Dove vai tu andiamo noi”.
“Sì” confermò Ja, “non ti abbandoneremo”.
“ Solo un altro pochino più a nord” disse David, “poi sarò pronto a tornare indietro con voi”. E così continuarono a inoltrarsi, sulla terra coperta di neve, nella crescente oscurità che riempiva di terrore l’anima dei Pellucidariani. Ma dopo un po’ il vento cambiò e iniziò a soffiare da sud, la neve cominciò a sciogliersi e l’aria tornò a essere temperata, e un altro po’ dopo il crepuscolo cominciò a dileguarsi mentre lentamente la luce cresceva di intensità, e questo nonostante il sole di mezzogiorno di Pellucidar fosse ormai a malapena visibile dietro di loro.
“Non capisco” osservò Ja. “Perché tutto diventa più luminoso nonostante il sole sia sempre più lontano alle nostre spalle?”.
“Non lo so” gli rispose Tanar. “”Chiedi a David”.
“Posso solo fare supposizioni” disse David, “e supposizioni all’apparenza così irragionevoli che non oso dar loro voce”.
“Guardate!” esclamò Stellara, indicando davanti a sé. “È il mare”.
“Sì” aggiunse Gura, “un mare grigio, che non sembra fatto di acqua”.
“E neanche curva verso l’alto in lontananza” esclamò ancora Stellara. “Ogni cosa è sbagliata in questo paese e mi fa paura”.
David si era nel frattempo fermato e fissava l’intenso bagliore rosso davanti a loro. Anche gli altri si fermarono a guardare con lui.
“Cos’è?” domandò Ja.
“Se c’è un Dio in cielo, può essere solo una cosa” rispose David; “e tuttavia so che non può essere quella cosa. L’idea stessa è ridicola, impossibile e assurda”.
“Ma cosa potrebbe essere?” insistette Stellara.
“Il sole” rispose David.
“Ma il sole è quasi fuori di vista dietro di noi” gli ricordò Gura.
“Non intendo dire il sole di Pellucidar” replicò David; “ma il sole del mondo esterno, il mondo da cui io provengo”.
Tutti si immobilizzarono in uno stupore silenzioso, a osservare il bordo di un disco color rosso sangue che sembrava galleggiare su un grigio oceano la cui superficie accesa era attraversata da un luminoso sentiero rosso e oro che congiungeva la linea costiera al globo risplendente, dove cielo e terra sembravano incontrarsi.




Questo per quel che riguarda il discorso su David Innes e la sua scoperta dell’apertura polare. Avvolgiamo ora di nuovo avanti veloce e torniamo a Tarzan at the Earth’s Core, e allo straordinario viaggio dello 0-220. E se ho definito suggestive le pagine di Tanar of Pellucidar, quelle che seguono non sono certo da meno. Giudicate voi.

Il piano era di seguire il Decimo Meridiano a est di Greenwich in direzione nord verso il polo. Ma per evitare di attirare un’attenzione indesiderata preferimmo deviare leggermente dalla rotta, così che l’aeronave superò Amburgo a ovest, diretta sulle acque del Mare del Nord, e, sempre proseguendo in direzione nord e ovest, superò Spitsbergen fino a raggiungere le ghiacciate distese polari.
Mantenendo una velocità di crociera di circa 75 miglia orarie, lo 0-220 arrivò in prossimità del polo nord intorno alla mezzanotte del secondo giorno, e ci fu molto entusiasmo quando Hines annunciò che secondo i suoi calcoli si trovavano direttamente sul polo. Su suggerimento di Tarzan, l’aeronave si mosse lentamente in cerchio a un’altezza di circa trenta metri sopra l’irregolare distesa gelata e coperta di neve.
“Dovremmo riuscire a identificarlo grazie alle bandiere italiane” disse Zuppner, sorridente”. Mentre, se un qualsiasi ricordo del passaggio del Norge si era conservato sotto di loro, doveva essere ormai coperto dal manto di molte nevicate.
La nave fece un ultimo singolo cerchio sul pack poi prese in direzione sud seguendo il 170° Meridiano Est.
Poi, una volta che la nave si trovò a sud del polo, Jason Gridley rimase costantemente con Hines e Zuppner, ora guardando con ansietà e impazienza gli strumenti, ora scrutando il vuoto paesaggio in basso e davanti a loro. Gridley era convinto che l’apertura polare si trovasse all’incirca a una latitudine di 85° nord e a una longitudine di 170° est. Davanti a lui vi erano una bussola, un barometro aneroide a bolla, un apparecchio di misura della velocità dell’aria, degli inclinometri, un indicatore di salita e discesa, una piastra di carico, un orologio e dei termometri; ma lo strumento che richiedeva la più grande attenzione era la bussola, perché Jason Gridley aveva una teoria dalla cui esattezza o meno dipendeva il loro successo nel trovare l’apertura polare.

Di questi nuovi nomi, Zuppnerè il capitano dello 0-220; il luogotenente Hines l’ufficiale di rotta. Li affiancano altri due ufficiali chiamati Von Horst e Dorf. Un corpo di comando teutonico è certo apparso a Burroughs la scelta più logica, a causa della familiarità dei membri della ex flotta aerea imperiale tedesca con la guida degli Zeppelin. Il resto dell’equipaggio è formato, oltre che da Tarzan, che è a capo della spedizione, e Gridley, che è il suo secondo, da dodici ingegneri, otto meccanici, un cuoco negro (sic), due mozzi filippini e dieci guerrieri Waziri, tra cui Muviro, ormai inseparabile amico di Tarzan. Naturalmente non c’è traccia di Jane, come non c’è di Korak e tantomeno di Meriem (ma su questo dettaglio tornerò nel prossimo post).


Sunday Page di Russ Manning del 26/02/1978 (#2451) da: Dead Moon of Pellucidar (Feb. 05, 1978 - Jan. 21, 1979)


Per cinque ore la nave procedette stabilmente verso sud, poi dimostrò una tendenza apparente a deviare verso ovest.
“Mantenga la rotta stabile, Capitano” lo avvertì Gridley, “perché, se ho ragione, stiamo oltrepassando adesso il bordo dell’apertura polare e la deviazione è solo nella bussola e non nella nostra direzione di marcia. Più andremo avanti e più la bussola diverrà inaffidabile e se noi adesso ci muovessimo verso l'alto, o in altre parole, direttamente verso il centro dell’apertura polare, l’ago si muoverebbe a caso in cerchio. Ma non possiamo raggiungere il centro dell’apertura polare a causa dell’enorme innalzamento di quota richiesto. Penso che adesso ci troviamo sul bordo orientale dell’apertura e se qualunque deviazione di rotta lei operi è a dritta, allora scenderemo lentamente a spirale fino a Pellucidar, ma la sua bussola sarà fuori uso per i prossimi seicento o forse anche novecento chilometri.
Zuppner scosse la testa, dubbioso. “Se il tempo regge, potremmo farcela” disse, “ma se diventa brutto ho dei dubbi sulla mia capacità di riuscire a mantenere una qualsiasi rotta senza seguire la bussola”.
“Faccia il meglio che può” replicò Gridley, “e in caso di dubbio viri a dritta”.
Tutti caddero preda di una tale tensione nervosa che per alcune ore si scambiarono a stento due parole.
“Guardate!” esclamò a un tratto Hines. “C’è mare aperto davanti a noi”.
“È quel che c’era da aspettarsi” disse Zuppner, “anche in assenza di aperture polari, e come sapete sono stato scettico sulla loro esistenza fin dal primo momento in cui Gridley mi ha esposto la sua teoria”.
“Penso di essere l’unico in tutta la compagnia” commentò Gridley, con un sorriso, “che ha avuto un barlume di fede nella teoria, che vi prego di non chiamare mia perché non lo è, e io stesso non sarei rimasto sorpreso se si fosse dimostrata falsa. Ma se qualcuno di voi ha osservato il sole nelle ultime ore, credo che debba convenire con me che anche nel caso non ci sia un’apertura polare verso un mondo interno, deve esserci comunque una profonda depressione in questa area della crosta terrestre e noi dobbiamo esserci inoltrati al suo interno per una distanza considerevole, perché noterete che il sole di mezzanotte è più basso di quel che dovrebbe e più andiamo avanti più discende – fino a quando tramonterà del tutto, e se non sono in errore vedremo presto la luce dell’eterno sole di mezzogiorno di Pellucidar”.
All’improvviso squillò il telefono e Hines sollevò il ricevitore all’orecchio. “Molto bene, sir” disse dopo un momento, e riattaccò. “Era Von Horst, capitano, a rapporto dalla cabina di osservazione. Ha avvistato terra dritto davanti a noi”.
“Terra!” esclamò Zuppner. “La sola terra che le nostre carte mostrano in quella direzione è la Siberia”.
“La Siberia si trova più di mille miglia a sud degli 85° di latitudine, e noi non possiamo trovarci al di sotto delle trecento miglia” osservò Gridley.
“Allora, o abbiamo scoperto una nuova terra artica, oppure ci stiamo avvicinando al confine settentrionale di Pellucidar” osservò il luogotenente Hines.
“Il che è esattamente ciò che stiamo facendo” disse Gridley. “Guardate il vostro termometro”.
“Diavoli!” esclamò Zuppner. “Sono soltanto venti gradi sopra lo zero Fahrenheit”.
“Adesso la terra si vede chiaramente” aggiunse Tarzan. “Ha un’aria abbastanza desolata, ma ci sono solo delle piccole chiazze di neve qua e là”.
“Il che corrisponde alla terra a nord di Korsar descritta da Innes” osservò Gridley.
Gli altri ufficiali e l’equipaggio dell’aeronave furono presto messi a corrente della notizia che c’era ragione di credere che la terra sotto di loro fosse Pellucidar. Ci fu molta eccitazione a bordo, e chiunque poté mettere da parte per un momento le proprie mansioni salì sul ponte, o sbirciò attraverso gli oblò per catturare un’immagine del mondo interno.
Lo 0-220 puntò con più decisione verso sud e proprio mentre il sole di mezzanotte scompariva alla vista sotto l’orizzonte di poppa, il bagliore del sole centrale di Pellucidar divenne chiaramente visibile a prua.
La natura del paesaggio sottostante mutava rapidamente. La terra arida era scomparsa a poppa, l’aeronave aveva superato una catena di colline boschive e ora, a prua, una sconfinata foresta sembrava curvare verso l’alto mentre sfumava in lontananza. Erano senza dubbio arrivati a Pellucidar – il mondo sognato da Jason Gridley.


* * *


L'immagine di apertura del post è: Frank Frazetta, Savage Pellucidar (1974, detail).

The Pleasure of Pain - Speciale Maggio 2018

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Ho accolto con molto piacere, lo scorso febbraio, l'invito a collaborare alla realizzazione dello speciale a tema che ogni anno, per un intero mese, va in onda sulle pagine del blog The Obsidian Mirror. Come potrete facilmente dedurre, prima dal titolo e poi dall'immagine di apertura di questo post, il tema quest'anno procede su un doppio binario: dell'eros, qui evocato dalla silhouette in primo piano della dominatrice, e dell'horror, chiamato in causa dalla riproduzione della Scatola o Cubo di Lemarchand al centro della saga di Hellraiser. E proprio la ricorrenza, quest'anno, del trentennale del primo film della saga, firmato dal suo creatore letterario Clive Barker, ha fornito a TOM lo spunto di partenza dello speciale. Non si tratterà comunque in alcun modo di un percorso tracciato su due linee parallele, bensì di qualcosa ricco di scambi, incroci e fusioni di generi.

Va inoltre detto che questo speciale rappresenta, finora, un'eccezione alla regola, per almeno due motivi: primo, va in onda a maggio anziché ad aprile come di consueto; secondo, coinvolge per la prima volta nell'iniziativa una serie di blog esterni, tra i quali appunto il mio Cronache del Tempo del Sogno. Gli altri sono: Alessia H.V., La Bara Volante, Il blog di Ariano Geta, Drama Queen, Hand of Doom, Il Mondo di Edu, Nocturnia, Non quel Marlowe, Onironauta Idiosincratico, Pensiero Spensierato, Il Zinefilo.

Preannuncio soltanto, della mia partecipazione, che riguarderà un’oscura pellicola degli anni '70 che rappresenta forse l'incontro meglio riuscito in assoluto tra il cinema a luci rosse e l'horror, con la gentile intermediazione dell'Alice in Wonderland di Lewis Carroll. L’immagine che segue è un dettaglio del poster originale del film, mentre per tutto il resto posso solo rimandarvi all’appuntamento con il blog ospite The Obsidian Mirror, che vi invito naturalmente a tener d’occhio ogni giorno di maggio, così da non perdervi niente della programmazione che, come vi sarà facile immaginare, oltre che variegata e piena di chicche si preannuncia anche non poco serrata.




Ma non è ancora finita. Non lasciatevi sfuggire i due diversi video trailer, a cura di The Obsidian Mirror, che vi introducono alle atmosfere dello speciale.
Mi premuro soltanto di avvertirvi che il primo dei due, incentrato sul lato horror della situazione, è schiettamente cruento.





The Studio Section Six - 1976-79: Gli anni di The Studio /4

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La relativa libertà guadagnata negli anni di The Studio, fece sì che i nostri favolosi quattro potessero avvicinarsi quanto più possibile alla realizzazione dei loro obiettivi artistici. Per Bernie Wrightson, questo significò innanzitutto lasciare finalmente campo libero a un'ossessione che lo accompagnava fin quasi dall'inizio della sua carriera. Un'ossessione con un nome preciso e da tutti riconoscibile, che lo accompagnava fin dall'infanzia: Frankenstein.

Venni a sapere di Frankenstein per la prima volta quando ancora ero un bambino di quattro o forse cinque anni, un giorno che mia madre mi portò al cinema. Mio padre la sera lavorava, e io e lei, per uscire un po' di casa, andavamo al cinema . Una delle prime esperienze di cui ho memoria è un doppio spettacolo il cui film principale, da vedere con gli occhialini 3-D, era Il mostro della laguna nera. Mi spaventò sul serio. Come secondo film proiettavano una riedizione di House of Frankenstein [Al di là del mistero, 1944].
Seduto in sala al buio, guardavo questo tipo vestito di nero con la testa quadra e i bulloni che gli spuntavano dal collo, che se ne andava in giro a uccidere la gente. Non avevo davvero nessuna idea di che cosa si trattasse. Semplicemente, ero affascinato da qualunque cosa il mostro facesse.
[...]
Più tardi vidi gli altri film, i primi con Boris Karloff nel ruolo del mostro. Ancora oggi, quando li trasmettono li guardo, non importa quanto volte io li abbia già visti. Non ne ho mai abbastanza.
[...]
Il libro lo lessi una prima volta quando avevo nove o dieci anni. Ricordo che non mi piacque, non lo capii davvero. Ma anche così, trassi molte impressioni già dalla prima lettura. Tre o quattro anni più tardi ripresi il libro in mano e allora me lo godetti appieno.

Frankenstein divenne da allora, e per tutti gli anni a venire, uno dei soggetti di disegno preferiti da Wrightson. E' del 1966 la sua prima illustrazione degna di nota con protagonista il mostro, sebbene ancora in una versione che ricalca il modello cinematografico (figura in basso a sinistra). Mentre già l'anno dopo, nel 1967, l'artista si prodiga (pur con una prudente visione dal retro) in un primo tentativo di maggiore approssimazione alla creatura originale del romanzo di Mary Shelley (figura in basso a destra).



Negli anni successivi, Wrightson continuerà ad alternare le due versioni, la cinematografica e la letteraria, riservando però la prima quasi esclusivamente alle pagine umoristiche, come mostrano anche i due esempi in basso: a sinistra, la copertina del numero uno della Fanzine Scream Door (Asian Flu Publications, 1971), a destra, la pagina di benvenuto di House of Mystery #201 (National Periodics, 1972).



Mentre sono esempi del tipo letterario l'immagine (in basso a sinistra) tratta dal colouring book Monsters. Color the Creature Book  del 1974, e l'unica pagina esistente (in basso a destra) di un progetto del 1975, non andato a buon fine, di un adattamento a fumetti del romanzo di Mary Shelley per conto di un editore francese.


E' comunque quanto basta perché alla fine di quello stesso anno, il 1975, Wrightson si senta per la prima volta pronto al grande passo: illustrare il capolavoro originale di Mary Shelley. E sarà a sua volta capolavoro, come vedremo tra breve.

Ho provato a illustrare Frankenstein molte volte, ma non ero ancora pronto. Non avevo afferrato in pieno la storia, non la sentivo abbastanza. Non l'avevo chiara in mente. Adesso penso di potercela fare.
[...]
Molte delle persone che vedranno il mio libro, conviveranno per il resto della loro vita con la mia visione della storia. Per questo mi sento addossato di una grande responsabilità. E per questo inseguo di proposito uno stile definito anziché affidarmi alla spontaneità come ho fatto finora. Cerco il maggior realismo possibile, sebbene ci siano aspetti in cui trovo giustificato prendermi delle libertà, per esempio nell'abbigliamento. Si suppone che la vicenda abbia luogo alla fine del '700, ma tutte queste persone indossano abiti posteriori di un secolo. Mi sembra che in questo modo si presentino meglio. Mi prendo delle libertà con il tempo, perché la mia interpretazione delle cose diventa molto confusa se provo a fissarmi su un determinato periodo temporale. Ma va bene così, mi sento giustificato a farlo perché non credo che abbia grande importanza.
[...]
Neanche vedo macchinari di nessun genere. Non so da dove sia venuta fuori l'idea del fulmine. E' una buona idea, visualmente potente, ma nel romanzo originale Mary Shelley non menziona nessun macchinario. E' però interessante che ne faccia menzione nell'introduzione all'edizione del 1831. [...] Il che mi fa ritenere che abbia avuto il tempo di pensarci sopra. Il tempo di vivere in un mondo dove l'industria cominciava a svilupparsi. Il tempo di reinterpretare lei stessa la trama, finché la sua visione originale ha cominciato a colorarsi delle cose attraverso cui lei era passata durante quel periodo.
Nella mia interpretazione del libro, cerco di essere il più fedele possibile alla storia, ma si arriva a un punto in cui la fedeltà diventa impossibile - l'immagine suggerita è così vaga che si può solo improvvisare.
[...]
Mary Shelley è molto, molto poco chiara su come viene creato il mostro. Ho letto di proposito il libro più volte nel tentativo di capirlo ma lei non lo chiarisce. Se non altro, allude al fatto che è costruito cellula per cellula. Questa allusione ha di gran lunga più forza rispetto a quella del mostro formato dall'assemblaggio di parti diverse. Ma è tutto molto, molto aperto all'interpretazione. Penso che l'approccio di Mary Shelley alla scienza sia indicativo dell'approccio del profano alla scienza nella sua epoca, che era più magico di quel che noi possiamo supporre in base alla nostra logica.
[...]
E' questo il sentimento che mi dà Frankenstein - che la creazione del mostro abbia a che fare con ciò che Mary Shelley chiama scienza, ma che si tratti quasi di magia. E' questo il mio approccio alle scene del laboratorio. Realizzarle nel modo più logico possibile così da renderle convincenti, ma sempre conservando un pizzico di magia, di mistero.

Il numero di illustrazioni progettate inizialmente da Bernie Wrightson per il suo Frankenstein era di quasi cento. Quando però l'opera vide la luce nella sua edizione definitiva, pubblicata dalla Marvel nel 1983, il volume ne comprendeva un totale di poco più di quaranta. E poco meno di quaranta era il numero di quelle che l'artista aveva realizzato nell'ultimo periodo degli anni di The Studio. Che cosa era successo?


La risposta è che erano successe soprattutto due cose. Primo, Wrightson era stato attento a mantenere il giusto equilibrio tra testo e illustrazioni, e per questo motivo aveva finito per scartare molte di quelle che aveva progettato di realizzare. Secondo, diverse delle illustrazioni che aveva completato non lo soddisfacevano del tutto e nel tempo le aveva sostituite con altre nuove.

Vediamo ora alcuni esempi del secondo caso. A sinistra ci sono le illustrazioni giudicate da Wrightson, per un motivo o l'altro, insufficienti e scartate, a destra quelle da lui ammesse nell'edizione definitiva.

Frontespizio - Prima versione e versione definitiva (Marvel Comics Group, 1983). 

Il confronto con il mostro - Prima versione e versione definitiva (Marvel Comics Group, 1983, pag. 64)

Il mostro apprende della sua origine - Prima versione e versione definitiva (Marvel Comics Group, 1983, pag. 114)

Scena del laboratorio - Prima versione e versione definitiva (Marvel Comics Group, 1983, pag. 141)

Sul mare - Prima versione e versione definitiva (Marvel Comics Group, 1983, pag. 151)

Le due immagini che seguono fanno invece entrambe parte dell'edizione definitiva. Le pubblico come gran finale perché mi sembrano particolarmente esemplificative dell'ispirazione dell'artista, che reinterpreta a suo modo lo stile dei grandi dell'illustrazione europea, Albrecht Dürer e Gustave Dorè su tutti:

Da: Frankenstein, Marvel Comics Group, 1983, pag. 138 (a sinistra) e pag. 172 (a destra)


* * *

The Studio - Complete Comics Chronology VIII: February 1971 - April 1971


Michael William Kaluta: "As Night Falls" 82 pg.) + 2 b/w illustrations
Infinity #3 [1] - Adam Malin, Gary Berman, 1971 (Fanzine)
Editor: Adam Malin, Gary Berman
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: 3 b/w illustrations
Infinity #3 [1] - Adam Malin, Gary Berman, 1971 (Fanzine)
Editor: Adam Malin, Gary Berman
Jeffrey Catherine Jones: Interview w/ sketches (5 pg.) + 1 illustration
Infinity #3 [1] - Adam Malin, Gary Berman, 1971 (Fanzine)
Editor: Adam Malin, Gary Berman
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover
Rocket Blast Comicollector #86 - James Van Hise, 1971 (Fanzine)
Editor: G.B. Love
Michael William Kaluta: Unpublished illustration for "Conquest"
Rocket Blast Comicollector #86 - James Van Hise, 1971 (Fanzine)
Editor: G.B. Love
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Cover
Scream Door #1 - Asian Flu Publications, 1971 (Fanzine)
Michael William Kaluta: "Hey Buddy, Can You Lend Me a..."
Scream Door #1 - Asian Flu Publications, 1971 (Fanzine)
5 pages; Originally intended for the never published Web of Horror #4
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Unpublished cover for Web of Horror #4
Scream Door #1 - Asian Flu Publications, 1971 (Fanzine)
Michael William Kaluta: Back cover
The Wonderful World of Comix #6 - Neal Pozner with Scott Harris, 1971 (Fanzine)
Editors: Neal Pozner, Scott Harris
Barry Windsor-Smith: "The Sun God!" (10 pg.)
Astonishing Tales #4 - Marvel Comics group, February 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Gerry Conway
Inker: Sam Grainger
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "Beneath the Dignity of the Apes" (5 pg.)
Blast #1 - G. & D. Publications, Inc., February 1971 (Magazine)
Writer: Marv Wolfman
Michael William Kaluta: "Newspaper Headlines..." (1 pg.) + "On Campus" (centerspread)
+ "Birthstones" (2 pg.)
Blast #1 - G. & D. Publications, Inc., February 1971 (Magazine)
Writers: Chuck McNaughton ("Newspaper Headlines..."), Bob Smolin ("Birthstones")
Barry Windsor-Smith: Cover + "The Twilight of the Grim Grey God" (19 pg.)
Conan the Barbarian #3 - Marvel Comics group, February 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas
Inker: Sal Buscema
Barry Windsor-Smith: Inking on "Desert Scream!" (6 pg.)
Monsters on the Prowl #9 - Marvel Comics group, February 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Allyn Brodsky
Penciler: Jack Katz
Barry Windsor-Smith: "There He Is! Here Comes the Outcast!" (10 pg.)
Western Gun Fighters #4 - Marvel Comics group, February 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Steve Parkhouse
Inker: Sam Grainger
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "The Skull of Silence!" (7 pg.) (Link)
Creatures on the Loose #10 - Marvel Comics group, March 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Roy Thomas
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: "How Do You Fight a Nightmare?" (Inks on pg. 13)
Green Lantern #82 - DC Comics, March 1971 (Comic-book)
Editor: Julius Schwartz
Writer: Denny O'Neil
Penciler: Neal Adams
Bernard Albert 'Bernie' Wrightson: Inks on cover
Where Monsters Dwell #8 - Marvel Comics group, March 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Penciler: Marie Severin
Jeffrey Catherine 'Jeff' Jones: Cover
Burroughs Bulletin #21 - The House of Greystoke, Spring 1971 (Comic-book)
Barry Windsor-Smith: "Rampage!" (10 pg.)
Astonishing Tales #5 - Marvel Comics group, April 1971 (Comic-book)
Editor: Stan Lee
Writer: Gerry Conway
Inker: Frank Giacoia

Clicca sulla scritta blu per vedere in grande formato, se disponibili, copertine e pagine interne degli albi in lista.



* * *


L'immagine di apertura del post, un autoritratto di Bernie Wrightson, assieme al mostro di Frankenstein, è un particolare del poster allegato a The Moster Times #1 (The Monster Times Publishing Company, Jan. 1972).

Per le citazioni di Bernie Wrightson: B. W., A Look Back. Underwood-Miller 1979, 1991. Edited by Christopher Zavisa. Traduzioni dall'inglese mie.

5 miei cinecomics del cuore - Sexy Heroines vintage collection

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La notizia dell'esistenza di questo nuovo bel meme mi è arrivata tramite questo post del blog Moz'O'Clock: I 5 cinecomics del cuore, ma la sua origine va ricercata in quest'altro post del blog W@lly Said: I 5 cinecomics del cuore. Come resistere a parteciparvi? Sebbene, come ho preannunciato in un commento sul primo dei due blog citati, la mia versione del meme sarà molto particolare e assai diversa da queste che mi hanno preceduto. Per questo ho tolto l'articolo iniziale: perché se è indubbio che i cinque che vado a presentarvi sono per me dei cinecomics del cuore, mi è anche venuto spontaneo concentrarmi su un'unica categoria e un unico periodo e dar così vita a un'edizione speciale tutta dedicata alle sexy eroine degli anni '60 e '70. Una scelta circoscritta, quindi, ma che non mi ha impedito, come vedrete, di spaziare ugualmente attraverso un ampio ventaglio di generi, che va dal thriller all'horror, dal cappa e spada alla fantascienza. Seguirò, per l'elenco dei film, l'ordine cronologico, relativamente all'anno di realizzazione o della loro prima uscita nelle sale.

Warning: Post with nudity! / Attenzione: Post con nudi!


1967 - Satanik di Piero Vivarelli


No, quello da ninja non è
il suo costume da battaglia.
Questo film di produzione italo-ispanica con me gioca in casa. Difficilmente potrei infatti darne un giudizio oggettivo, vista la mia grande passione giovanile, solo un po' attenuatasi col tempo, per questo particolare personaggio del fumetto nero italiano degli anni '60. Posso solo dire che con la sua essenziale fedeltà alla scrittura e alle atmosfere "gialle" del Max Bunker di quel periodo, il Satanik di Piero Vivarelli (1927- 2010) non ha fatto nessuna fatica a trovare posto tra i miei cinecomics del cuore. Certo, un po' più di attenzione all'apporto creativo di Magnus, con quel che ha saputo aggiungere di suo con matite e pennelli, non avrebbe guastato, ma per questo ci sarebbe voluto un signor regista come Mario Bava (che ha invece preferito occuparsi di un altro, più noto, personaggio con la k finale, forse però non altrettanto adatto a lui).
Tra le pecche più evidenti, annovero senza dubbio il poco convincente trucco applicato al volto di Marny Bannister in versione Jekyll, cioè pre-siero; il poco comprensibile spettacolo di strip-tease, in costume simil-ninja, della bella Satanik/Hyde; e il finale, con la sua aria un po' abborracciata. A parte ciò, per il resto a me questo film piace. E approvo anche la scelta di affidare la parte di protagonista all'attrice polacca Magda Konopka, le cui caratteristiche fisiche la rendono del tutto compatibile con la Satanik del fumetto.


Nel fumetto: Marny Bannister/Satanik (disegnata da Magnus)
prima e dopo la cura di bellezza.

Sullo schermo: Marny Bannister/Satanik (interpretata
da Magda Konopka) prima e dopo la cura di bellezza.


1968 - Barbarella di Roger Vadim


E ora, prendete quel che ho scritto sopra su Satanik e rovesciatelo. Se infatti Barbarellaè in lista, il merito è stavolta tutto di questo film di produzione italo-francese, visto che a me il tanto celebrato fumetto di Jean-Claude Forest da cui è derivato, non è mai piaciuto.
Comunque sia, nello stesso anno in cui un certo Stanley Kubrick utilizzava lo spazio cosmico per la sua più famosa passeggiata filosofica, succedeva che un tale Roger Vadim preferisse farne il teatro di uno stralunato viaggio psichedelico, in tipico stile anni '60, che vanta anche il primato di capostipite del genere fanta-erotico. Come in Satanik, ci troviamo pure qui ad assistere a uno strip-tease, ma ben più calamitante dell'altro: quello, in assenza di gravità, di Jane Fonda, tale da far annoverare i titoli di apertura della pellicola tra i più memorabili della storia del cinema. Vedere per credere.



E che dire, sempre a proposito di psichedelia anni '60, delle splendide locandine che seguono?




1969 - Isabella duchessa dei diavoli di Sergio Corbucci

...più seducente di Angelica, più perfida di Cleopatra, più astuta di Modesty Blaise.
(dalla quarta di copertina della prima serie)

La bellissima e sensualissima spadaccina Isabella de Frissac, signora di Chateau Salins di Lorena, soprannominata la duchessa dei diavoli, vive le sue avventure di cappa e spada nella Francia dell'epoca di Luigi XIII, Maria de' Medici e Richelieu.
L'appellativo "duchessa dei diavoli" le deriva dall'essere stata allevata, dopo l'uccisione dei genitori da parte del barone alsaziano Eric von Nutter, da una tribù di zingari denominata appunto "i diavoli". E' ovviamente chiara l'intenzione, da parte dei creatori del personaggio, i fumettisti Sergio Cavedon e Renzo Barbieri, di omaggiare a modo loro la celebre eroina Angelica marchesa degli angeli (Angelica di Sancé de Monteloup, Contessa di Peyrac e Marchesa del Plessis-Bellière), avventurosa protagonista di tredici historical romances scritti dai coniugi Anne e Serge Golon e di cinque film derivati. Le due belle e disinibite eroine condividono più di una cosa, del resto, dalla prorompente sensualità al carattere indomabile che le conduce a procacciarsi guai ripetizione, fino alla comune appartenenza al XVII secolo, sebbene Angelica viva le sue avventure alcuni decenni più tardi rispetto alla sua emula Isabella, e precisamente all'epoca di Luigi XIV di Borbone, meglio conosciuto come Re Sole.

Sergio Corbucci (1927-1990), dal canto suo, fa un lavoro egregio di trasposizione e il suo film è una vera delizia per tutti i fan della capostipite del fumetto erotico italiano, che vedono magicamente prender vita su schermo la figura sommariamente delineata su carta dal fin troppo rapido tratto di pennarello di Sandro Angiolini (1920-1985). Assai indovinata, a questo proposito, la scelta degli addetti al casting di impegnare nel ruolo Brigitte Skay (1940-2012): sebbene il modello utilizzato nel fumetto fosse Brigitte Bardot, è in realtà difficile immaginare qualcuna più adatta della bellissima attrice tedesca a dar volto, e corpo, alla nostra Isabella.


Isabella a duello con la sua nemesi eterna: il barone alsaziano Eric von Nutter,
da lei sfigurato e costretto per questo a indossare una maschera di cuoio.


Purtroppo, però, il film è lontano dall'incontrare lo stesso successo di pubblico del fumetto, e per questo, a differenza di quel che era stato per Angelica, nel caso di Isabella non vi saranno seguiti.


1973. Baba Yaga di Corrado Farina


Prima della serie tv del 1989 con Demetra Hampton, il personaggio di Valentina, creato da Guido Crepax (1933-2003), fu utilizzato da Corrado Farina (1939-2016) per questo suo film. Che è, lasciatemelo dire, un gran bel film.
Nei panni della più celebre, e sexy, fotografa del mondo dei fumetti figura Isabelle de Funès, nipote canterina del più famoso Luis de Funès, mentre il ruolo della titolare del film, la strega Baba Yaga antagonista di Valentina, è affidato a un'ottima Carrol Baker. Seconde scelte entrambi, in ogni caso, visto che il regista avrebbe in realtà voluto Elsa Martinelli nel ruolo di Valentina e Ornella Vanoni in quello di Baba Yaga. Sarà forse per questo che la palma del carisma in questo film va piuttosto assegnata, a mio modesto parere, a Edy Galleani, semplicemente perfetta nei panni della bambola di carne Annette?
Purtroppo non so cosa ne pensasse esattamente Guido Crepax al riguardo, visto che nella sua lettera a Corrado Farina, scrive soltanto: "...giudicando da "spettatore", ti dirò che ho avuto l'impressione di una Valentina "giusta" (giusta nel film, dico), una Baba Yaga un po' mancata (troppo simpatica, soprattutto!) e un Arno [il protagonista maschile della storia, interpretato da George Eastman] anche lui simpaticissimo, ma piuttosto spaesato, come veneziano in particolare". Di Edy Galleani, appunto, sembra essersi dimenticato.


Foto di scena con la triade delle interpreti femminili: Edy Galleani (Annette, a sinistra),
Carrol Baker (Baba Yaga, al centro) e Isabelle de Funès (Valentina, a destra). Dal sito della rivista Nocturno.


Le intenzioni originali di Farina, studioso e anche autore di fumetti, erano in ogni caso quelle di riprodurre fedelmente su schermo il linguaggio grafico di Crepax, cosa che, secondo lui, non era riuscito a fare nessuno dei suoi predecessori con la rispettiva fonte originale: non vi era riuscito Vivarelli con Satanik, Bava con Diabolik e neanche Vadim con Barbarella. Ma lui stesso alla fine giudicò di non esserci riuscito a sua volta e andò così a ingrossare, suo malgrado, la fila dei registi "inadeguati". Per la cronaca, in un intervista del 2009, Farina ha dichiarato, all'intervistatore francese, che l'unico regista della storia che abbia avuto successo in questa difficile impresa di trasposizione di linguaggi è stato Robert Rodriguez con il suo Sin City (2005). Chissà se avrà poi aggiunto altri titoli al paniere, dato il gran numero di film ricavati dai fumetti prodotti tra il 2009 e il 2016, anno della sua scomparsa.*


Meno male che c'è anche chi, come Valentina, non trascura i classici...


Lo sfogo di Corrado Farina sulla copertina del Final Cut della Shameless:
"Finalmente, dopo 35 anni, potete vedere il mio film com'era prima che i produttori lo facessero a pezzi."


L'unica storia di Diabolik e l'unica storia di Zakimort scritte da Corrado Farina.


1974 - Flesh Gordon di Michael Benveniste e Howard Ziehm


Da sinistra a destra: la locandina italiana (1975)
prima e dopo l'intervento della censura.
Dal 1929 al 1933 l'America aveva sofferto di una devastante crisi economica. La popolazione necessitava di qualcosa che gli risollevasse il morale e gli infondesse coraggio. Decisiva, in quest'opera di ricostruzione, fu l'invenzione del supereroe: Flash Gordon, Capitan Marvel, Buck Rogers, Superman e molti altri. Erano loro i custodi del bene e della forza morale che la nazione ammirava sopra ogni altra cosa in quel periodo di bisogno.

Nei tormentati tempi odierni, noi, i produttori, crediamo esista un crescente bisogno di intrattenimento umoristico. Consapevoli perciò del rispetto dell'America per le cose del passato, noi, nello spirito del burlesco e della satira abbiamo creato un nuovo eroe popolare, che unisce allo spirito dei vecchi tempi l'oltraggiosità dei nuovi.

I creatori degli eroi dell'altroieri, come coloro che li hanno immortalati sullo schermo o nelle strisce a fumetti, non hanno avuto nulla a che fare con la produzione di questo film, che però non sarebbe mai esistito senza di loro, poiché sono state le loro idee e le loro visioni di altri mondi a ispirarlo. E' a questi innovatori, e ai loro fan sparsi in tutto il mondo, che noi dedichiamo Flesh Gordon.

E' con queste parole di introduzione, su fondo nero, che si apre Flesh Gordon. Cioè con un atto di riconoscenza, di devozione quasi, verso i grandi protagonisti del fumetto avventuroso degli anni '30, a firma dei produttori Howard Ziehm e William Osco. Due nomi del porno che, negli anni '70, erano garanzia di alto artigianato, il che, tradotto in altri termini, significa storie non banali, regia attenta, scenografie e costumi accurati, grandi musiche e, in questo particolare caso, anche grandi effetti speciali e grandissima animazione in stop-motion.

Ricordo bene che vidi questo film a metà degli anni '70, al momento della prima uscita nelle sale italiane, e qualcosa in me seppe da subito che non me ne sarei mai più liberato, come del resto è successo con alcune altre pellicole, forse una dozzina in tutto, che vidi nello stesso periodo.




Da non confondere con Flash Gordon, recita la locandina originale. Come dire che basta una sostituzione di vocale a fare tutta la differenza e a spostare tutto sul piano della carne (flesh in inglese). Eppure voglio credere che qualunque fan di Flash (con la "a") Gordon, come io ero e sono, riconosca in questo film un sentito omaggio più che un oltraggio. La fantasia barocca dei disegni di Alex Raymond, che è ciò che segna il vero solco di separazione delle pagine di Gordon da quelle di tutti gli altri grandi fumetti nati negli anni '30, vi è di fatto conservata per intero, come penso dimostri anche bene la necessariamente striminzita rassegna di fotogrammi che segue.


L'oscura fortezza del tiranno Wang, the perverted one (il tiranno Ming, nelle storie originali di Alex Raymond)

L'incantata Arboria, dominio ecologista di Prince Precious (Prince Barin, nelle storie originali di Alex Raymond)

Il risveglio del Grande Dio Porno: Ray Harryhausen docet!.


E che dire, poi, dell'omaggio finale a King Kong, che vendica finalmente tutte le Ann Darrow del cinema passato, presente e futuro?


La famosa sequenza che tutti i fan attendono, inutilmente,
da una vita di vedere nei film di King Kong.


Postilla:Inutile dire, per chi conosce a fondo questo blog, che mi sarebbe molto piaciuto poter far figurare in questa lista anche una qualunque pellicola con protagonista Modesty Blaise, ma i due film che ho visto tratti dalle strips di O'Donnell: Modesty Blaise, la bellissima che uccide (1966) e Il mio nome è Modesty (2004), tradiscono talmente il personaggio, nello spirito e nella lettera, che mi è stato del tutto impossibile citarli. In quanto al film pilota del 1982 della prevista serie TV Modesty Blaise, per fortuna poi non realizzata, non ho neanche mai sentito il bisogno di vederlo.


* * *


Note al testo


* Sia la lettera di Guido Crepax, sia l'intervista francese di Corrado Farina sono reperibili sul sito ufficiale del regista: Corrado Farina - Sito ufficiale.

L'immagine di apertura del post è un fermo immagine del film Flesh Gordon.

Speciale The Pleasure of Pain: Postfazione al mio articolo "L'inferno di una donna"

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Attenzione: Come indica il titolo, questo post altro non è che una postfazione all'articolo da me preparato per The Pleasure of Pain, lo speciale su Hellraiser e dintorni tuttora in corso d'opera sul blog The Obsidian Mirror. E' quindi altamente consigliabile leggere prima l'articolo in questione, che potrete raggiungere attraverso questo link:



E solo dopo, poi, tornare qui a leggere il seguito di questo post.


* * *


Postfazione a L'inferno di una donna (Through the Looking Glass)


Ho visto il primo Hellraiser almeno due volte, negli anni ’80, e ciò che ne conservo in me, al di là della memoria di un paio di scene di particolare intensità, è nient’altro che l’impressione di aver goduto della visione di un buon film, sebbene lontano di molte posizioni dalla mia personale Top ten del cinema horror. Questo per dire che l’articolo che avete appena letto io l’ho scritto con in mente solo le parole “The pleasure of pain”, senza mai pensare al succitato film e tanto meno agli altri nove che compongono il ciclo a cui pure lo speciale è in linea di massima dedicato. Mi è tuttavia bastato leggere poi il post introduttivo di The Obsidian Mirror, e il successivo articolo sulle “origini” a cura di Nick Parisi, per rendermi conto dell’esistenza di più affinità di quelle che avrei mai potuto sospettare tra il film di Clive Barker e, di riflesso, tra il romanzo breve (sempre di Barker) da cui è tratto, e il film di Jonas Middleton, L'inferno di una donna (Through the Looking Glass), oggetto del mio articolo.

Ad avermi colpito per primo è stato il seguente dialogo, presente nel post introduttivo a cura di The Obsidian Mirror:

- "Piacere", disse. "Kircker mi ha detto che voi la sapete lunga sul piacere.”
- "Oh, sì,” gli rispose il primo. “Tutto quello che puoi aver mai desiderato. [...] Questo mondo… ti delude?”
- "Molto.” Rispose.
- "Non sei il primo a esserti stancato delle sue meschinità. [...] Alcuni hanno osato ricorrere alla Configurazione di Lemarchand. Uomini come te, ansiosi di investigare nuove possibilità, che avevano sentito delle nostre possibilità sconosciute nel vostro mondo. [...] Noi comprendiamo in lungo e in largo la natura della tua smania. Ci è del tutto familiare.”
- “Siete in grado di fornirmi quel piacere?”
- “Non come lo intendi tu,” gli rispose. Frank fece per replicare, ma la creatura sollevò una mano per zittirlo.
- “Ci sono condizioni delle terminazioni nervose” spiegò, “cui la tua immaginazione, per quanto infervorata, non potrebbe mai arrivare. [...] Le tue perversioni più esaltanti sono giochi da bambini a confronto con le esperienze che offriamo noi.”
- “Vuoi partecipare?” chiese il secondo Suppliziante. Frank guardò le sue ferite, gli uncini. Di nuovo la lingua non poté muoversi “Vuoi?”
- “Mostratemi,” disse.
- “Non c’è ritorno. Lo capisci questo?”
- “Mostratemi.”

Provate ora a confrontare il dialogo di Clive Barker che avete appena letto con quest’altro, tratto invece dal film L’inferno di una donna:

Demone: - Se verrai con me non potrai più cambiare, sarai grande per l'eternità.
Catherine scuote la testa in segno di rifiuto.
Demone: - Va bene, Catherine, fa' come vuoi, rimani pure tra questa gente sciocca e mediocre, in questo posto banale. Invecchia pure nell'aridità. Se verrai con me potrai finalmente affrancarti da un marito insopportabile e da tutta quella gente noiosa, senza classe né stile.
Catherine: - No, voglio restare con quell'uomo.
Demone: - Ti credevo una donna eccezionale, Catherine. Ti facevo ben altre ambizioni.
Il demone rientra nello specchio e se ne va.
Catherine allora ci ripensa, si avvicina allo specchio, lo tocca.
Catherine: - Ci sei ancora? Oppure sei scomparso? Ti prego… dove volevi portarmi? 
Demone: - Dove la tua bellezza potrà splendere in eterno... dove attraverso i tuoi sensi, attraverso la tua stupenda carne, potrai saziarti di piaceri in un lascivo abisso di sogni voluttuosi.
Catherine: - Questo non è possibile!
Demone: - E che cosa è possibile? Quel mondo là fuori? Ascoltami bene, Catherine, ascoltami. Ti porterò via da questo posto... Vieni davanti allo specchio all'una questa notte. Hai tutto il tempo di prepararti.

Non so voi, ma a me sembra che i due dialoghi presentino tra loro più di un punto di contatto, in particolare per la circostanza che sia Frank che Catherine finiscono in un inferno senza ritorno a causa del loro desiderio di piaceri estremi e della loro insoddisfazione nei confronti del mondo di tutti i giorni.


Il secondo punto riguarda invece una frase contenuta nel post di Nick Parisi sulle origini, a proposito dell’inferno di Hellraiser, che è in realtà anche un paradiso, “ma per Sado-Masochisti". Una definizione, questa, che ho subito pensato si adattasse altrettanto bene all’inferno del film di Middleton, un "aldilà" in cui i dannati riescono a procurarsi il paradiso di piacere che bramano solo attraverso la degradazione e l’umiliazione inflitta a se stessi e agli altri.

In conclusione, non è stato forse del tutto per caso se appena ho posato l’occhio sul primo banner inviatomi da Obsidian, quello dove ancora compariva il solo Cubo di Lemarchand senza la silhouette femminile in primo piano, il mio pensiero è corso all’istante a L’inferno di una donna (o comunque a Through the Looking Glass). Doveva già esistere da qualche parte, fuori o dentro di me, un certo tipo di combinazione/attrazione tra i due film, che io non ho fatto altro che portare alla luce.

* * *

Nella pur bella locandina italiana (immagine sopra a sinistra) sono presenti ben due errori: 1) il nome dell'attrice Catharine Burgess diventa Catherine; 2) il nome del regista Jonas Middleton diventa Janas.
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