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Ricordo breve di Guido Ceronetti

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Interrompo brevemente la mia pausa estiva dopo aver sentito oggi alla televisione della scomparsa, all'età di 91 anni, del filosofo e scrittore Guido Ceronetti - il "fustigatore mite", come lo ha ben definito il curatore del servizio del TG1, accostando insieme l'uomo, pacifico e vegetariano, e lo scrittore, l'acceso polemista dal pensiero libero e quasi sempre contro corrente. Affioratomi subito alla mente, all'apprendere la notizia, il ricordo di uno scambio di parole che ebbi con lui un pomeriggio di quasi venti anni fa, mi è venuto adesso voglia di condividerlo con i lettori di questo blog così come mi è rimasto inciso nella memoria.
Lavoravo, all'epoca, come commesso in una libreria del centro di Firenze visitata occasionalmente da Ceronetti, in veste di cliente. Ma non di acquirente di libri, che aveva tutta l'aria di non potersi permettere, bensì di biglietti illustrati, di quelli che presentano un aforisma più o meno celebre accompagnato da un'immagine più o mena bella e pertinente.
Caso volle che quel giorno, in quell'ora del pomeriggio, io fossi completamente da solo in libreria, senza né colleghi  né clienti intorno a me, e avessi approfittato della circostanza per immergermi nella lettura dell'introduzione di Guido Almansi all'edizione BUR de L'arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. E caso ancora volle che Ceronetti facesse il suo ingresso proprio dopo che avevo appena letto di lui nell'introduzione di Almansi, dove, se la memoria non mi inganna, si faceva un confronto tra l'apocalittismo postmoderno di Pynchon e quello di Ceronetti, tutto a svantaggio di quest'ultimo.
"Sa che ho appena letto male di lei?" dissi a Ceronetti dopo il normale scambio di saluti.
"Nell'introduzione a questo libro", gli spiegai mostrandogli L'arcobaleno della gravità, che lui mi fece capire di non conoscere minimamente.
Quando poi però gli dissi chi era l'autore dell'introduzione, allora il suo volto si accese della luce della comprensione. "Ah! Almansi!" replicò, all'apparenza più divertito che adirato. "Sì, questo tipo ce l'ha sempre con me, anche se non ho mai capito bene il perché".
Così io avevo subito immaginato che Ceronetti, a quel punto, mi avrebbe chiesto di leggergli il passo incriminato, anche solo per sapere cosa si diceva in giro di lui. Invece... niente, sorvolò come se nulla fosse e si diresse come sempre all'espositore dei biglietti illustrati per cercare quello che più gli aggradava in quel momento. E sarei stato anche pronto a scommettere che aveva già rimosso dalla memoria ogni ricordo della parvenza del libro che gli avevo mostrato.   

Dieci cose che forse non sai di Alice

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Mi piacerebbe poter dire che questo post segna il mio pieno ritorno all'attività di blogger, ma non è così. Si tratta in realtà di un post estemporaneo, formatosi quasi da solo in conseguenza di un mio incontro fortuito (e fortunato) con il catalogo Electa di una mostra tenutasi nel 2012 al MART (museo di Arte Moderna e Contemporanea) di Trento e Rovereto e intitolata Alice in Wonderland. Il catalogo, oltre a un ricco apparato iconografico, presenta nelle sue pagine anche tre ottimi articoli su Alice e il suo creatore Charles Lutwidge Dodgson (Lewis Carroll, 1832-1898), oltre a uno splendido poema intitolato Tra cibo e amore. Un'aliziosa favola con note (titolo originale: ???) di Carol Mavor, dove il termine "aliziosa" traduce alicious, combinazione di Alice e delicious. Non tutte le notizie e le immagini che riporto in questo elenco di curiosità provengono in realtà dal succitato catalogo, dato che sono comunque anni che mi interesso al mondo di Alice, ma una buona parte sì.
Riguardo invece alla mia attività di blogger, confermo quanto da me scritto a dicembre, sul fatto che questo 2019 sarà per me un anno con pochi o pochissimi post intervallati da lunghe pause. Al momento ho altre priorità e inoltre, come qualcuno di voi che mi segue su facebook già sa, ho anche ripreso a disegnare e dipingere, più che altro in risposta a una mia crescente esigenza di contatto con la manualità e la materialità, in opposizione più o meno velata al mondo virtuale, che viceversa mi appassiona sempre meno. E' anche per questo che ho scelto un tipo particolare di pittura... ma ne riparlerò al momento dovuto, quando sarà.
Ritengo tuttavia anche doveroso specificare che, a dispetto di questa premessa, non mi sono mai realmente allontanato dal mio blog, poiché ho anche utilizzato il mese e mezzo appena trascorso per riformattare i vecchi post e adeguarli alla seconda, e credo definitiva, versione grafica del blog. E poiché sto procedendo a gambero, ossia dai post più recenti ai più antichi, e sono quasi a metà strada, se vi saltasse in testa di riguardare i miei post fino a poco meno di due anni fa, vi trovereste davanti una montagna di immagini nuove, alcune delle quali veramente sfiziose.
Aggiungo inoltre, già che ho citato facebook, che il mio blog è stato di recente bloccato su detta piattaforma, perché non conforme agli standard della Community. Il che, se da un lato è una scocciatura, dall'altro è per me motivo di vanto, se si considera che gli standard di facebook sono all'incirca gli stessi di Città del Vaticano ("Il seno nudo è ammesso solo se ritrae mamme che allattano bambini"... che teneri).
E annuncio, per finire, che in concomitanza con questo mio breve rientro, mi concederò pure una settimana per visitare i blog a cui tengo di più e aggiornarmi sulla recente attività dei miei blogger preferiti... per quel che mi sarà possibile, visto che durante tutto questo tempo ho volutamente evitato anche solo di dare un'occhiata al mio blogroll. Avrò così anche modo di confabulare un poco con qualcuno di voi.
Detto ciò, vi lascio alla lettura del mio elenco di curiosità su Alice e il suo mondo, che ho organizzato in dieci punti ognuno contrassegnato con un titolo.

1. Self-Publishing

La prima edizione di Alice's Adventures in Wonderland (MacMillan & Co., 1865) è un caso esemplare di self-publishing. L'autore si occupò di persona anche della grafica, dell'impaginazione, della scelta dei caratteri tipografici e della correzione delle bozze di stampa del volume, oltre che dell'arruolamento dell'illustratore John Tenniel, i cui disegni di animali per un'edizione illustrata delle favole di Esopo piacquero molto a Carroll.
Naturalmente Carroll si sobbarcò anche tutte le spese di tipografia, e per ben due volte. Bloccò infatti, su consiglio di Tenniel, la distribuzione della prima tiratura del volume (2.000 copie) a causa della pessima qualità di stampa.


La composizione originale, di Lewis Carroll,
del famoso paragrafo a coda di topo.

2. Multimedialità

I due romanzi Alice's Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass (MacMillan & Co., 1872) sono anche veri precursori delle moderne opere multimediali. Ecco alcuni esempi:

2a. Nelle pagine di Alice's Adventures in Wonderland in cui compare per la prima volta il Gatto del Cheshire, o Stregatto, l'animale è riprodotto nella stessa posizione sulle due pagine dispari, in modo da creare, voltando pagina, un effetto dissolvenza nello stile dei libri animati.


La pagina intermedia (92) va qui visualizzata come retro della pagina 91.


2b. Le due illustrazioni di Through the Looking-Glass che mostrano Alice che attraversa lo specchio sono collocate fronte-retro, così che le due pagine corrispondano ai due lati dello specchio e, allo stesso tempo, alla soglia di passaggio da un mondo all'altro.




2c. Nel capitolo "Looking-glass Insects" di Through the Looking-Glass, la "piccola voce" che sussurra all'orecchio di Alice è riprodotta in caratteri più piccoli rispetto agli altri della pagina, così da suggerire l'appropriato effetto audio.




2d. Correte dunque a controllare che le vostre edizioni di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio della coppia Carroll/Tenniel rispettino queste e altre scelte grafiche decise dall'autore in persona. In caso contrario, non disponete della versione autentica delle due opere.

3. Alice prima di Alice

L'illustratore John Tenniel utilizzò la sua Alice ancor prima dell'uscita della prima edizione di Alice's Adventures in Wonderland, in una copertina per un numero del 1864 della celebre rivista Punch.



4. Alice Under Ground

La prima versione di Alice's Adventures in Wonderland, lunga meno della metà della versione definitiva, si intitolava Alice's Adventures Under Ground e fu in origine scritta, illustrata e rilegata da Charles Dodgson come dono natalizio per la sua amica Alice Pleasant Liddell, in memoria della gita in barca del 4 luglio 1862 in cui prese vita il personaggio letterario di Alice. Il dono fu consegnato dall'autore alla bambina nel novembre 1864.




Più di venti anni dopo, Lewis Carroll richiese in prestito ad Alice il manoscritto per farne stampare una versione in fac-simile, distribuita nel 1886. Alice Hargreaves (nata Liddell) conservò poi l'originale ancora fino al 1928, anno in cui fu messo in vendita a un'asta di Sotheby.
Alice mantenne in ogni caso, fino alla fine della sua vita, un archivio personale di articoli di giornale, pubblicazioni, gadget e ogni altra cosa riguardasse il personaggio da lei ispirato.

5. La piccola amica

Dodgson-Carroll fotografò Alice Pleasant Liddell dall'età di quattro anni fino ai diciotto, età limite dopo la quale le sue modelle perdevano gran parte del loro fascino ai suoi occhi.
Sia lei che le altre ex modelle ricordavano senza eccezioni, in età adulta, l'amicizia con il grande fotografo e scrittore come un capitolo felice della loro infanzia.

Così la rievocò una volta Alice Hargreaves:
Molto più esaltante dell'essere fotografata era poter accedere alla camera oscura e osservarlo mentre sviluppava le grandi lastre di vetro. Nulla poteva essere più entusiasmante che vedere i negativi prendere forma poco a poco... Per di più la camera oscura era un luogo misterioso e sembrava che lì dentro potessero accadere avventure di ogni sorta.

Le tre sorelle Liddell fotografate da Charles Dodgson nel 1858. Delle tre, Alice è la bambina sulla destra.

L'ossessione di Dodgson-Carroll per la piccola Alice Liddell era inoltre tale che lui aveva anche incollato una fotografia della bambina all'estremità del suo telescopio, così da poterla contemplare come stella più luminosa del firmamento.

6. Merchandising

Lewis Carroll in vita non frappose mai ostacoli allo sfruttamento della sua creatura letteraria a fini commerciali, ma dette il benestare alla realizzazione di numerosi gadget, che andavano dai mazzi da gioco alla carta da lettere.



7. Ruskin, Rossetti e... le altre

Lewis Caroll fu in stretto contatto con la cerchia dei Pre-raffaelliti, di cui ammirava, e talvolta acquistava, la produzione pittorica, scultorea e fotografica. Realizzò, tra gli altri, ritratti fotografici di John Ruskin, Dante Gabriel-Rossetti e utilizzò parte dei proventi derivategli dalla fortuna del personaggio di Alice per aiutare giovani artisti privi di mezzi economici, soprattutto donne, a pagarsi i costosi corsi tenuti dagli artisti famosi nei loro studi.


The Lady with the Lilacs di Arthur Hughes (1865) è una
delle opere preraffaellite acquistate da Lewis Carroll. 

8. 1907: Piovono illustratori

Nel 1907, in coincidenza con lo scadere dei diritti d'autore, vi fu una fioritura di nuove edizioni illustrate dei due libri di Alice. Per l'autunno di quell'anno se ne erano già aggiunte altre quattordici a quella "ufficiale" di Tenniel.


Alice in Wonderland illustrato da
Charles Robinson nel 1907.

9. Di bianco-celeste vestita?

I colori canonici del vestito e del grembiule di Alice, azzurro il primo e bianco il secondo, divennero tali solo nel 1911, con la prima edizione in un unico volume, sempre a cura della MacMillan & Co., dei due romanzi. Erano tuttavia già stati utilizzati occasionalmente in precedenza, anche quando lo stesso Lewis Carroll era in vita. Per esempio, nel dipinto del 1879 che ho messo in apertura del post, o nel 1892, nella serie di scatole di biscotti della Jacobs Biscuits ispirate a Through the Looking-Glass e disegnate da Barringer, Wallis & Manners.




Per inciso, il colore originale del vestito, approvato da Carroll per la sua The Nursery "Alice" (McMillan & Co., 1890), era il giallo. Mentre nei due volumi della Little Folks Edition del 1903 diventa momentaneamente il rosso.*

10. La bella May e... lo Stregatto?

E sempre del 1903 è il primo film su Alice: Alice in Wonderland, di Cecil Hepworth e Percy Stow. Durava solo una decina minuti ma era, all'epoca, la pellicola più lunga mai prodotta in Gran Bretagna.


L'attrice May Clark, 14 anni, incontra uno svogliato Stregatto nel film del 1903.

Mentre la prima rappresentazione teatrale è, come è facile immaginare, precedente e risale al 1876. Lewis Carroll ebbe così modo di vederla, ma la giudicò troppo lontana dalla storia originale e ne rimase insoddisfatto. Per questo accarezzò anche l'idea di adattare lui stesso i suoi due libri per il teatro, sebbene alla fine non ne fece di niente.


* * *

Note

* Il catalogo Electa indica invece erroneamente proprio la Little Folks Edition del 1903 come quella che stabilisce in via definitiva il colore azzurro del vestito.

L'immagine di apertura del post è: George Dunnlop Leslie, Alice in Wonderland (1879)

Trilogia delle Madri /15: Verso il Mar Nero /3

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MENELAO  Ma quali allucinazioni ti ammalano?
ORESTE  Mi è sembrato di scorgere tre vergini nere come la notte.
MENELAO  So a chi ti riferisci, ma non voglio pronunciare il loro nome.
ORESTE  Esigono reverenza: hai fatto bene a non nominarle.

(Euripide, Oreste, 407-410)

Dee sconosciute a voi mortali, da noi malvolentieri nominate.
(Mefistofele a Faust)


Abbiamo già incontrato la seconda di queste citazioni nell'ormai lontano secondo post di questa serie, dedicato a Plutarco e Goethe. E sappiamo che è tratta dal Faust di Goethe ed è riferita alle Madri. La prima proviene invece dalla tragedia Oreste di Euripide ed è riferita alle Erinni, dee deputate a perseguitare senza sosta gli assassini dei propri congiunti. Come è appunto il caso di Oreste, colpevole di aver ucciso la madre Clitemnestra per vendicare l'assassinio da parte di lei del marito Agamennone.

Ma aggiungiamo adesso, a questo primo, un altro confronto, stavolta tra la scena del film di Dario Argento La terza Madre in cui Sarah Mandy (Asia Argento) è in biblioteca, a caccia di indizi sulle Madri, e il brano del Suspiria de profundis di Thomas De Quincey a cui essa è chiaramente ispirata.

Scrive De Quincey a proposito delle Madri:
...queste dame sono i Dolori; e sono tre di numero, come tre sono le Grazie che adornano la vita dell'uomo; e tre sono le Parche, che tessono nel loro misterioso telaio il cupo arazzo della vita umana sempre con colori in parte tristi, talvolta accesi di tragico cremisi e di nero; e tre sono le Furie, che portano l'espiazione invocata dall'aldilà per gravi colpe che ancora si aggirano su questo mondo; e solo tre un tempo erano perfino le Muse, che intonano l'arpa, la tromba o il liuto al grave fardello delle appassionate creazioni dell'uomo...
Una successione di triadi femminili analoga a quella che vediamo scorrere sullo schermo mentre Sarah sfoglia le pagine di un volume d'arte, dove un'immagine delle Grazie è prima seguita da quella delle Furie (Oreste perseguitato dalle Furie di William-Adolphe Bouguereau, 1862) e poi delle Parche (A Golden Thread di John Strudwick, 1885).

Fin qui niente di nuovo. Avevo infatti già presentato, sebbene in post separati, sia il brano di De Quincey che la descrizione di questa particolare scena de La terza Madre. Ma proviamo adesso ad aggiungere un altro estratto, ancora dal Suspiria de Profundis e sempre riferito alle Madri:
Erano queste le Semnai Theai, o Dee Sublimi, erano queste le Eumenidi o Graziose Signore (così chiamate dall’antichità in trepida propiziazione) dei miei sogni di Oxford.

La nuova prospettiva aperta da questa frase di De Quincey è in realtà molto significativa, sebbene anche un po' spiazzante. Sia Semnai Theai che Eumenidi sono infatti epiteti di una specifica triade divina, le Erinni, citate sia nel Suspiria de profundis che ne La terza Madre con il loro nome latino di Furie. Parrebbe quindi che per De Quincey le Madri e le Erinni (o Furie) coincidano in un'unica e stessa. La stessa denominazione di Dolori richiama del resto a sua volta, in qualche modo, il nome Ἀραὶ (Maledizioni), che Eschilo, nella sua tragedia Eumenidi, dice essere quello con cui le Erinni sono conosciute nelle loro dimore sotterranee. E come ci è noto, prima da Goethe e poi da Dario Argento, pure le dimore delle Madri sono sotterranee.
L'ipotesi di una simile identità sembra però contrastare con l'inserimento, da parte dello stesso De Quincey, delle Madri (o Dolori) all'interno del citato elenco di triadi divine femminili che comprende separatamente anche le Erinni (o Furie). Ma poiché è anche impensabile che un esperto di cultura classica come De Quincey non abbia attribuito con cognizione di causa alle sue tre Madri gli epiteti specifici delle Erinni, ci sono fondati motivi per credere che la contraddizione sia solo apparente e quindi risolvibile. E magari proprio nel seguito di questa manovra di avvicinamento in corso - un po' lenta, lo riconosco - al Mar Nero, sulla cui riva, come certo ricorderete, Dario Argento ha collocato la nascita della stregoneria, intorno all'anno mille, a opera delle sue tre Madri.

Franz von Stuck, Oreste e le Erinni (1905)
Lo stesso Oreste, d'altronde, in un estremo tentativo di guarire la sua follia, arriverà a spingersi fin sulle rive del Mar Nero. Ma su questo torneremo al momento dovuto, mentre nel frattempo merita procedere con metodo filologico e cominciare dalla prima fonte di cui disponiamo a proposito delle Madri: il passo della Vita di Marcello di Plutarco in cui è narrato l'episodio di Nicia che, per salvarsi la pelle, si finge "inseguito ed agitato" dalle Madri (ho già presentato il racconto per esteso e potrete trovarlo nello stesso post su Plutarco e Goethe che ho linkato in alto). "Inseguito e agitato", viene da pensare, come Oreste, così che le figure delle Madri e delle Erinni appaiono a prima vista sovrapponibili anche in Plutarco.

Ma cosa sappiamo di preciso sulle Erinni? Non poco, visto che la loro presenza è diffusa nelle opere dei tre poeti tragici giunti fino a noi, Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma non solo. Esiodo le dice, nella sua Teogonia, figlie di Gea, la terra, fecondata dal sangue versato dal suo sposo Urano mutilato da Crono. In Eschilo sono invece figlie della Notte (Nyx). Si privilegia in ogni caso, in linea con la loro natura e funzione, una genealogia tutta materna.

Venendo ora al loro aspetto, la Pizia, la profetessa di Delfi che vaticina su ispirazione di Apollo, così le descrive all'inizio di Eumenidi di Eschilo, quando le trova addormentate nei pressi del tempio a opera di Apollo:
...dorme una strana schiera di donne, accovacciate sui troni.
No! Non donne. Gorgoni le chiamo.
No! Neanche a Gorgoni posso paragonarle. Una volta vidi dipinte
le Arpie, che rapivano il pasto di Fineo. Ma queste, a guardarle, sono senz'ali, e nere. Abominevoli. Russano con fiati ripugnanti,
stillano dagli occhi umori non gradevoli,
le ornano addobbi certo non convenienti dinnanzi a immagini sacre di dei, o in case di umani.
Non sapevo a che razza appartenesse questa congrega,
né so quale terra si vanti di avere nutrito questa stirpe
senza proprio danno, senza pentirsi della fatica. (Eumenidi, 48-59)

Una descrizione impietosa, che Apollo, sempre profondamente avverso alle prerogative arcaiche di cui le tre dee sono portatrici, di lì a poco non fa che rincarare:
…vergini maledette e fanciulle decrepite, antiche bambine con le quali nessuno si è mai unito: nessun dio, nessun uomo, nessuna bestia. Sono nate per il male e abitano la mala ombra e il Tartaro, nel sottosuolo, detestate dagli uomini e dagli dèi dell’olimpo. (ivi, 68-73)
E qui siamo indubbiamente più dalle parti di Dario Argento che di Thomas de Quincey. Sebbene affiori alla mente anche la parte del Faust di Goethe dove il dottore così si rivolge alle Madri, durante il rituale d’evocazione delle immagini di Paride e Elena:
...e, pur socievoli, abitate in eterna solitudine.

Ma conviene inoltre a questo punto, visto che rivestirà comunque un ruolo fondamentale nel seguito di questa dissertazione, provare a riassumere la trama di Eumenidi, terza e ultima delle tragedie che compongono l'Orestiade di Eschilo (insieme ad Agamennone e Coefore). Le Erinni vi giocano infatti un ruolo fondamentale fin dal titolo, che fa riferimento al loro assumere, nel finale della tragedia, il nome propiziatorio di Eumenidi.

Gustave Moreau, Oreste e le Erinni
Eumenidi, in due parole, ci racconta di Oreste che, in fuga dalle Erinni dopo aver ucciso la madre Clitemnestra e il suo amante Egisto, colpevoli dell'assassinio di suo padre Agamennone, trova dapprima rifugio nel tempio di Apollo a Delfi. Il dio, che aveva in origine ispirato la vendetta di Oreste, accetta di purificarlo del suo delitto con il sangue del sacrificio di un porcellino nero, nel frattempo che fa scendere il sonno sulle Erinni. Inutilmente, poi, lo spettro di Clitemnestra appare a cercare di risvegliarle per tempo, prima che il rituale sia completato.
Oreste, tuttavia, sebbene purificato continua a essere tallonato dalle Erinni e cerca stavolta rifugio nel tempio di Atena sull'Acropoli. E' qui che la dea, ascoltata la versione dell'inseguito e delle inseguitrici, decide che il matricida sia giudicato da un tribunale che lei stessa riunisce e presiede sulla collina dell'Aeropago.
Il dibattimento, che vede Apollo nelle vesti della difesa e le Erinni in quelle dell'accusa, si conclude con il proscioglimento di Oreste, mentre le tre dee acquisiscono il nome Eumenidi e trovano una nuova dimora ad Atene, in una cavità sotterranea della collina dell'Aeropago.*

Ancora nella tragedia di Eschilo ricorre inoltre, per due volte (383, 1041) e sempre riferito alle Erinni, l'altro epiteto che De Quincey nel Suspiria de Profundis collega alle Madri: Semnai (Venerande). Così come ricorrerà in Sofocle ed Euripide. E così come ricorre tre volte, di nuovo esclusivamente in riferimento alle Erinni, in Descrizione della Grecia di Pausania (i, 28.1, 31.4; ii, 11.4).

Due passi della Descrizione in particolare, offrono notizie preziose sulle Erinni:
Da questo lato è l’Areopago, che così si chiama per esservi stato prima di ogni altro giudicato Marte. Il mio discorso ha già dimostrato, come, e perché uccise Alirrozio**. Vogliono poi, che in tempi posteriori vi sia stato giudicato anche Oreste, per la morte data alla madre; e vi è l’altare di Atena Arèa da lui dedicato, allorché fu assolto. Le pietre rozze sulle quali siedono accusati e accusatori sono dette della contumelia e dell'impudenza.
Lì vicino si trova anche il tempio delle Dee che gli Ateniesi chiamano Venerande, ed Esiodo, nella Teogonia, Erinni. Eschilo fu il primo a descrivere queste Dee con i serpenti intrecciati ai capelli; ma riguardo alle statue, non hanno niente di terribile né queste, né tutte le altre consacrate agli Dèi inferi. Sono ancora visibili quelle di Hades, di Hermes, e di Gea. E' qui che sacrificano tutti coloro che nell’Areopago sono assolti del delitto a loro imputato, e vi sacrificano promiscuamente sia stranieri che cittadini. (Pausania, Descrizione della Grecia, i, 28.1)
La strada che porta a Titane è lunga circa sessanta stadi, e per la sua strettezza è inaccessibile ai carri. Dopo venti stadi (mi pare) di strada a sinistra attraversato l’Asopo, si vede un bosco di elci, e al suo interno un tempio delle Dee che gli Ateniesi chiamano Venerande e i Sicioni Eumenidi. Nella festa che ciascun anno vi si celebra, si sacrificano a queste Dee pecore gravide e si fanno libagioni con miele misto ad acqua, mentre si usano fiori al posto delle corone. Lo stesso per i sacrifici sugli altari delle Moire, situati nel bosco a cielo aperto. (ivi, ii, 11.4)

Analogo accostamento agli dei inferi si rinviene anche in Elettra di Sofocle, dove la sorella di Oreste così si dispera per l'assassinio del padre Agamennone:
O dimora di Ades e Persefone!
O Hermes sotterraneo! Maledizione possente!
E voi, Erinni venerande, figlie degli dei,
che volgete lo sguardo su chi muore contro giustizia
su chi viene tradito nel letto nuziale, accorrete! Aiutateci! (Sofocle, Elettra, 110-115)

E anche qui risuona l'epiteto Semnai (Venerande), con in più il πότνι Ἀρἀ immediatamente precedente che appare come una sorta di doppione del nome Erinni, se consideriamo ciò che rispondono le Erinni ad Atena in Eumenidi, quando la dea, che le incontra e vede per la prima volta sull'Acropoli, chiede loro chi sono. La dea, naturalmente, non prova paura, ma appare comunque in qualche modo scossa alla vista di qualcosa che non somiglia "a nessuna specie di creatura generata" né divina né mortale.

Così le rispondono le Erinni:
Saprai tutto per rapidi accenni, o vergine nata da Zeus.
Noi siamo le figlie luttuose della Notte, Maledizioni [Ἀραὶ] ci nominano nelle dimore di sotto terra. (Eumenidi, 415-417)

Per ora mi fermerei qui, altrimenti il post si allunga troppo. Si è trattato finora più che altro, come si è visto, di raccogliere indizi sufficienti a permettermi di mettere meglio in luce, per poi tentare in seguito di risolvere, l'apparente contraddizione contenuta nel Suspiria de Profundis di Thomas De Quincey, che sembra suggerire una possibile identità tra le Madri e le Erinni. Cercherò di non farvi aspettare troppo, anche se mi è impossibile, al momento, prevedere un qualsiasi tempo di pubblicazione verosimile.


* * *

Note al testo


* I tre cambi di scena corrispondono alle seguenti parti della tragedia: 1-234 (Delfi); 235-565 (Acropoli); 566-1047 (Aeropago).

** Alirrozio (gr. ᾿Αλιρρόϑιος) Mitico figlio di Posidone e della ninfa Eurite, che, avendo fatto violenza ad Alcippe, figlia di Ares, fu ucciso dal dio presso una fontana alle pendici dell’acropoli di Atene. Ares fu quindi chiamato in giudizio da Posidone davanti al tribunale divino riunito sul colle che poi prese il nome di Areopago. (Fonte: Treccani)

Tutte le citazioni di De Quincey sono tratte da: Confessioni di un oppiomane; Garzanti 1977. Traduzione di Renata Barocas

Le citazioni di Goethe sono da: Johann Wolfgang Goethe, Faust. Einaudi, 1965. Traduzione di Barbara Allason.

Gli estratti dalle tragedie sono nella versione di Angelo Tonelli. Da: Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie. Bompiani, 2011

L'immagine di apertura del post è: David Stoupakis, Ozezos (detail).
Clicca sull'icona a lato per la visualizzazione intera.

Fumo di China 283 [Segnalazione]

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C'era una volta, negli anni '60 del secolo scorso, un bambino a cui la mamma non mancava mai di acquistare, un sabato sì e uno no, il numero in edicola del giornalino Miao. Il bambino ci passava sopra ore e ore felici, a "leggere" le semplici ma incantate storie mute, ad ammirare o colorare le belle illustrazioni opera di autori di cui lui non sapeva nulla, a ritagliare e incollare i giochi di carta racchiusi nelle sue pagine. Chissà cosa avrebbe detto quel bambino se un giorno, un viaggiatore dal futuro, gli avesse mostrato il finale di pagina di un articolo di una rivista del millennio successivo, in cui il suo nome compariva accostato proprio a quel giornalino da lui tanto amato. Probabilmente non avrebbe saputo cosa pensare, e magari avrebbe presto rimosso tutto...

Questa premessa, a metà tra fiaba e fantascienza, per dire che alle pagine 18 e 19 del numero 283 di Fumo di China, appena uscito in edicola, trovate, tra le mille altre cose interessanti, anche un articolo dal titolo C'era una volta... "Miao" - manco a dirlo nella sezione Amarcord. Primo di una serie prevista sul disegnatore e autore Luigi Roveri, creatore del celebre gatto, è opera del bravo ed eclettico regista e cartoonist italiano Mario Verger (qui il link alla sua pagina), che ha appunto avuto la gentilezza di nominarmi e ringraziarmi, come potete vedere nella sottostante mia scansione delle pagine dell'articolo. Naturalmente ho fatto in modo che solo la sua parte finale, in cui figura il mio nome, sia leggibile qui, mentre per il resto vi invito a correre a comprare la rivista in edicola, e di farlo magari non solo questo mese, visto che Fumo di China non delude mai e merita sempre appieno i quattro eurucci del suo prezzo di copertina.


Il mio contributo all'articolo è stato in realtà modesto ed è consistito essenzialmente nel fornire a Mario la scansione di alcune immagini e a intrattenere con lui delle sane e piacevoli conversazioni telefoniche vecchio stile (no Skype). Ma sono comunque cose come queste - conoscere persone interessanti ed essere citati in riviste di qualità - le piccole grandi soddisfazioni che ti ripagano dell'impegno, più spesso che no "a perdere", dell'essere un blogger.

Venendo infine al resto del fascicolo, oltre all'articolo su Miao l'indice presenta: un dossier sui cinecomics e in particolare sui loro mancati sequel; due interviste, a Claudio Stassi e a Davide La Rosa; un articolo della sezione Maestri italiani dedicato a Renzo Barbieri, il noto scrittore ed editore inventore dei tascabili a fumetti per adulti; un reportage sull'edizione 2019 del Festival di Angouleme; la presentazione di tre saggi, due sul fumetto western italiano e uno sulla protofantascienza italiana dagli anni anni '80 del XIX secolo agli anni '50 del XX.
In più l'interessante editoriale di Loris Cantarelli, tante utili recensioni e segnalazioni, e un buono sconto da presentare alla cassa dei cinema nei giorni 11-12-13 marzo per la visione dell'atteso docu-film Diabolik sono io.

Per una descrizione più dettagliata dei contenuti vi rimando direttamente al Blog di Fumo di China

* * *


L'immagine di apertura del post è un dettaglio della copertina del volume Protofantascienza italiana. Dagli anni '80 del XIX secolo agli anni '50 del XX secolo. Salgari, Yambo Motta e gli altri. A cura della Fondazione Rossellini per la letteratura popolare di Senigallia (AN).

Trilogia delle Madri /16: Verso il Mar Nero /4

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Come forse ricorderete, nel post precedente ho adombrato l'ipotesi di una possibile identità tra le due triadi divine delle Erinni e delle Madri. Identità suggerita, da un lato, dalla similitudine tra la follia di Oreste perseguitato dalle Erinni e quella simulata da Nicia, che in Vita di Marcello di Plutarco si finge perseguitato dalle Madri, dall'altro, dagli epiteti Semnai Theai e Eumenidi, propri delle Erinni, con cui Thomas de Quincey appella le sue Madri in Suspiria de Profundis. In più, a rafforzare l'ipotesi, si può chiamare in causa la natura tipicamente sotterranea propria a entrambe le triadi.
Ma poiché, infine, tutto rimane a livello congetturale, lasciamo per il momento in sospeso la questione intanto che, per proseguire al meglio questo discorso (che, lo ricordo, procede impercettibilmente in direzione delle rive del Mar Nero) è necessario immergerci più in profondità nella tragedia di Eschilo, Eumenidi, terza e conclusiva dell'Orestea, che sarà principale se non unico soggetto anche di questo post.
E cominciamo con una considerazione: che ciò che va in scena in Eumenidiè sì il processo al matricida Oreste, ma anche e soprattutto, per suo intermediazione, il confronto tra due opposte e poco conciliabili visioni del mondo, personificate da un lato da Apollo (e dietro le quinte dal padre Zeus) e dall'altro da(lle) Erinni (e dietro le quinte da Nyx, la madre Notte), il primo in rappresentanza delle divinità olimpiche, che possiamo definire, per pura comodità, personificazioni della coscienza superiore, le seconde in rappresentanza di divinità primigenie personificazioni delle pulsioni più oscure e istintuali dell'esistenza.

Difficile del resto rinvenire in altri luoghi della letteratura un disprezzo più assoluto di quello che il giovane figlio di Zeus riserva alle anziane dee venerande (le Semnai Theai di De Quincey): disprezzo che si spinge molto al di là dell'irriverenza da lui mostrata verso altre rappresentanti di "antiche prerogative", come le Moire, che le sorelle Erinni non mancano di tirare in ballo nella parte processuale di Eumenidi, quando accennano all'episodio di Apollo che, per sottrarre alla morte l'amato Admeto, fa ubriacare le tre dee tessitrici di destini (come ho raccontato, un po' di tempo fa, nella mia analisi di un'altra tragedia greca: Alcesti di Euripide). E disprezzo, inoltre, che rende (sorprendentemente?) simile l'approccio di Apollo nei confronti delle Erinni a quello che Dario Argento riserva alle Madri nella sua trilogia cinematografica. Al punto che se è vero che il regista si rifà dichiaratamente a De Quincey, per i nomi e altri dettagli delle Madri, molto altro potrebbe sembrare preso direttamente da Eschilo. Ecco, per esempio, i termini con cui Apollo si rivolge alle Erinni al momento di scacciarle dal suo tempio a Delfi (Eumenidi, 179-195):
Fuori di qui! E' un ordine! Presto!
Andatevene fuori da questa mia dimora! Sgombrate l'antro profetico,
se non volete che vi colga l'alata serpe lucente, scoccata
dall'aura corda dell'arco, e vi faccia sputare nel dolore
la schiuma nera carpita agli umani,
vomitando grumi di sangue succhiati ai morti. Non vi è lecito
avvicinare questa mia sede. Andate là,
dove i processi mozzano teste, cavano occhi, sgozzano gole,
là dove si distrugge il seme dei giovani per annientarne la virilità,
dove si mozzano arti e si scagliano pietre, e le vittime impalate per il dorso
muggiscono un lamento interminabile. Udite di quali baldorie
vi rallegrate, o creature odiose agli dei?

Con questa accusa, va detto retta da una forza d'espressione (e di visione) tesa ai limiti del sopportabile, Apollo introduce qui uno dei temi basilari di Eumenidi, quello della contrapposizione tra due diverse forme di dike (giustizia). E lo fa controbattendo alle Erinni sullo stesso piano, giacché erano state loro, poche strofe prima, ad accusare lui di oltrepassare i limiti della giustizia (Eumenidi, 162-172):
Così fanno gli dei più recenti,
che reggono, oltre i limiti della giustizia,
un trono grondante di sangue, alla base al vertice.
Guarda l'ombelico della terra [l'Omphalos di Delfi, centro dell'universo], di quale orribile macchia di sangue si è coperto.
Anche se era profeta,
di sua volontà, senza che nessuno lo invitasse, profanò i propri penetrali
con il contagio di un delitto consumato sul focolare domestico,
onorando azioni mortali contro la legge degli dei,
distruggendo prerogative secolari.

Le Erinni non mancano qui di ironia, con l'accusare di imprevidenza il dio stesso della profezia, ma ciò che davvero va in scena è lo scontro tra l'antico concetto di dike, naturale e demonico, e uno più moderno legato alla costituzione della polis.

Cacciamo dalle case i matricidi, rivendica Erinni (Eumenidi, 210).
E se una donna ha ucciso il suo sposo? interroga Apollo (211).
Non avrebbe ucciso di sua mano uno dello stesso sangue,ribatte il Coro (212), con una logica impeccabile, a cui Apollo ribatte relegando la consanguineità a un ruolo subalterno rispetto al decreto della Moira che unisce un uomo e una donna in base al loro destino. E lo fa rivolgendosi a Erinni con una scelta di parole accuratissima, che accosta la più moderna sovranità degli Olimpii a quelle preesistenti e mai decadute di Moira e Dike (213-218):
Senza onore, in nessun conto, presso di te
sono i pegni di fedeltà di Era Teléia [del compimento nelle nozze] e di Zeus. E Cipride [Afrodite],
fonte delle cose più care per i mortali,
è umiliata e cacciata via da queste tue parole.
Il letto nuziale che, per decreto della Moira, unisce l'uomo e la donna,
è più forte di un giuramento: lo custodisce Dike.

Dike contro Dike, secondo la formula già espressa da Eschilo in Coefore (461).
Ed ecco che viene a crearsi il tipico circolo vizioso all'interno del quale sono imprigionati i protagonisti della tragedia. Oreste, per onorare Dike, uccide Clitennestra, che sua volta, nell'uccidere Agamennone per vendicare la figlia Ifigenia sacrificata dal padre, si era proclamata "artefice di giustizia" (Agamennone, 1406).


John Downman, The Ghost of Clytemnestra Awakening the Furies (1781)


Ma in Eumenidi scopriamo anche che Clitennestra, già di per sé colpevole di preferire l'amante Egisto al marito Agammenone, era devota al culto delle Erinni (cosa di cui sconta le conseguenze anche nell'oltretomba), come enuncia la sua apparizione spettrale all'inizio della tragedia, quando esorta le dee a svegliarsi dal sonno in cui le ha precipitate Apollo (Eumenidi, 107-109):
Eppure avete leccato molte volte le mie offerte,
libagioni senza vino, miele sobrio; e solenni banchetti notturni
vi offrivo sul focolare ardente, nell'ora che gli altri dei non condividono.

E' quindi chiaro che sono in realtà Apollo, in rappresentanza degli Olimpii, e le Erinni, in rappresentanza delle divinità pre-olimpiche, a muoversi dietro le persone (maschere) di Oreste e Clitennestra.

Quando poi, sempre dietro consiglio di Apollo, Oreste raggiunge il tempio di Atena sull'Acropoli e si avvinghia al simulacro della dea invocando il suo soccorso, ecco che le Erinni, che lo tallonano, intrecciano una danza accompagnata da un lungo "orrido canto" (Eumenidi, 299-396), i cui versi si dividono tra le accuse ai nuovi dei e un'orgogliosa, seppur malinconica, rivendicazione della loro amministrazione della giustizia (Ci riteniamo rette giustiziere...) e della necessità del loro operare (Questa parte la Moira inflessibile ci assegnò saldamente...).
Iniziato con una magnifica invocazione alla madre Notte, il canto si chiude su una altrettanto magnifica e parallela visione di oscurità (394-396):
Mi spetta un antico privilegio, né manco di onori,
anche se il mio posto è sotto terra,
nella tenebra che detesta il sole.

Con la comparsa poi di Atena, in risposta all'invocazione di Oreste, e il successivo cambio di scena, dall'Acropoli alla collina dell'Aeropago, ha inizio la parte conclusiva, e l'episodio centrale, di Eumenidi, lungo più della metà del testo complessivo: il processo al matricida. E ha insieme inizio una serie di "manovre" che a noi possono apparire insolite ma non lo sono altrettanto nell'economia della tragedia greca.
Atena, che propone se stessa come neutrale, ascolta come prima cosa le ragioni delle due parti in causa. Finché le Erinni, che le tributano rispetto e si appellano a lei come "figlia degna di degno padre", la esortano a farsi carico di dirimere la questione. La dea per un momento si mostra riluttante, ma poi acconsente e istituisce un tribunale sull'Aeropago, come esplicato in queste parole da lei rivolte al supplice Oreste (Eumenidi, 470-489):
E' questione troppo grave per lasciarla giudicare agli umani.
Ma neppure a me è lecito dirimere contese di sangue
suscitato di ira feroce, tanto più che sei giunto
supplice, puro, senza recare contagio alla mia dimora,
dopo aver compiuto i rituali dovuti, e senza biasimo alcuno:
per questo ti accolgo nella città.
Ma costoro hanno forza fatale, non è facile respingerle.
E se non avranno vittoria, veleno stillerà dal loro petto,
e cadrà al suolo: insostenibile, perpetua malattia. Così è.
E accogliere e cacciare costui sarà decisione
nell'uno e nell'altro caso dolorosa per me, irrimediabile.
E poiché la contesa è precipitata fino a questo punto,
sceglierò giudici giurati per i delitti di sangue,
e costituirò un fondamento di giustizia destinato a durare in eterno. E voi,
convocate testimonianze, raccogliete prove, baluardi di giustizia
consacrati da giuramento. Ritornerò dopo aver scelto i migliori tra i cittadini
per dirimere rettamente questa contesa,
senza violare i giuramenti con animo iniquo.

Ma ecco che le Erinni hanno un moto di rivolta, davanti a quella che ritengono, da parte della dea, una palese violazione del diritto arcaico, che prevedeva che l'accusato garantisse della propria innocenza giurando sugli dei. Cosa impossibile per Oreste, come fanno notare loro stesse, dato che lui può solo giurare sulla propria colpevolezza. Con il risultato, in base al diritto arcaico, di essere sconfitto in partenza. Così, in un nuovo lungo canto, le antiche dee venerande lamentano a più riprese l'oltraggio a Dike, la cui casa è ai loro occhi crollata sotto i colpi di Atena.


Charles Auguste van den Berghe, Egisthe, croyant decouvrir le corps d'Oreste mort, decouvre celui de Clytemnestre (1823)


Non per questo però l'istituzione del tribunale si arresta. E una volta arruolati gli undici giurati, il processo - che vede Oreste come imputato, Erinni nelle vesti dell'accusa, Apollo in quelle della difesa e Atena come presidente della corte - ha inizio. Sebbene con un nuovo arbitro del gioco; perché, con le norme del diritto stabilito stravolte, sarà adesso peíthō, la persuasione, il principale strumento in campo, utilizzato prima da Apollo nei confronti di Atena e poi da questa evocato, come daímōn femminile, per rivolgersi a Erinni.
Ma prima ancora assistiamo a un nuovo scontro tra Erinni e Apollo e le loro contrapposte visioni di dike, cioè tra la consanguineità come discriminante primaria della gravità del delitto (a sangue versato risponde necessariamente sangue versato) e la visione alternativa offerta dal figlio di Zeus, fino all'enunciato retorico con cui egli nega ogni valore alla genealogia materna:
Dirò anche questo, e sappi che dirò la verità.
Colei che viene detta madre non è genitrice del figlio:
nutre soltanto il germe appena seminato in lei. Generatore
è colui che la prende, ed essa, come ospite ad ospite,
salva il germoglio, se un dio non lo annienti prima.
Eccone la prova: ci può essere padre senza madre.
Ne è testimonianza, qui vicino, la figlia di Zeus olimpio,
che non fu nutrita nell'oscurità del ventre, ed è germoglio
quale nessuna dea potrebbe generare.
E io, o Pallade, per quanto mi è possibile,
farò grande in tutto il resto la tua città e il tuo popolo.
Inviai costui presso il fuoco sacro del tuo tempio
perché ti fosse fedele in eterno e tu, o dea,
potessi acquisire come alleato lui e i suoi posteri,
e rimanesse fissato per sempre che i loro discendenti onoreranno questa alleanza.

Apollo in realtà, con astuzia, chiama qui in causa due argomenti a cui la dea sua sorella è particolarmente sensibile: l'orgoglio dell'esser parto diretto del re degli dei, senza intermediazione di dea, ninfa o donna mortale, e il prestigio della sua protetta Atene, che può solo uscire rinforzato da un'alleanza con Argo (o Micene).
Ma vi è ancora qualcos'altro, di più recondito, che fa pendere decisamente la bilancia verso Apollo e, di conseguenza, verso Oreste: qualcosa di cui Atena, in qualità di ipostasi della mente del Padre, di sua emanazione più diretta possibile, non è all'oscuro, ma che rivelerà solo verso il finale della tragedia: Zeus, che ha ispirato Apollo nel consigliare a Oreste di uccidere la madre, ha già deciso per l'assoluzione del matricida. Così che, come sempre, la tragedia consiste di una serie di azioni il cui esito è già definito a priori.
Inoltre, e infine, Oreste ha dalla sua, su un piano più squisitamente filosofico-letterario, la particolare visione eschilea della giustizia, espressa all'inizio dell'Orestea (Agamennone, 250-252):
A chi ha patito
Dike, come contrappeso,
dona conoscenza.

Ed è qui, come ho mostrato ai primordi di questa lunga serie di post, che si innesta la visione di Thomas de Quincey delle Madri, l'opera delle quali fa sì che il loro prescelto sia
perfezionato nella fornace, così egli vedrà le cose che non dovrebbero essere viste, visioni che sono abominevoli, e segreti che sono inesprimibili. Così egli leggerà verità passate, verità tristi, verità grandiose, verità spaventose. Così egli tornerà a sollevarsi prima di morire. E così avremo adempiuto la missione affidataci da Dio: di tormentare il suo cuore fino a dispiegare le facoltà del suo spirito.

E anche per stavolta è tutto. Nel prossimo post: la conclusione della parte dedicata alle Erinni e l'inizio della parte successiva della Trilogia delle Madri.


* * *

Crediti


Per le citazioni dall'Orestea di Eschilo: Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie. A cura di Angelo Tonelli. Bompiani, 2011.

Per la citazione dal Suspiria de Profundis di Thomas de Quincey: Thomas de Quincey, Confessioni di un oppiomane. Traduzione di Renata Barocas. Garzanti, 1979.

L'immagine di apertura del post è: John Singer Sargent, Orestes Pursued by the Furies (1921, detail).
Clicca sull'icona a lato per la visualizzazione intera.

Anniversari: Snoopy vs Mickey Mouse (1969 - 2019)

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Oggi mercoledì 17 aprile, il blog Non quel Marlowe di Lucius Etruscus ospita un mio guest post. Vi narro di una disfida tra il topo e il bracchetto più famosi della storia del fumetto trasposta su schermo esattamente mezzo secolo fa. Mi sembrava giusto e doveroso festeggiare l'anniversario.

Inutile dire che siete tutti invitati alla festa, a questo link: Brucia ragazzo, brucia: Snoopy vs Mickey Mouse (guest post)

Walli Elmlark, la Strega Bianca di New York ovvero Cercavo Bodé e ho trovato... Bowie (e Fripp)! /1

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Il post che vi apprestate a leggere, spero con vostra soddisfazione, è un caso esemplare di come una ricerca intrapresa in un senso porti da tutt'altra parte e si finisca per scrivere qualcosa di completamente diverso da quel che si immaginava all'inizio. Tutto nasce, in questo caso, da una tavola a fumetti della serie Deadbone Erotica di Vaughn Bodé (serie di cui mi sono occupato in particolare in questo post della mia biografia Vita, opere e morte di Vaughn Bodé, messia del fumetto). Apparsa su un numero della rivista Cavalier del 1973, la tavola citata è occupata quasi per intero, nella sua metà superiore, da una grande vignetta con un volto di donna accompagnato da un nome: Walli Elmlark.


Incuriosito dall'insolito dettaglio, ho deciso di vedere cosa usciva fuori digitando questo nome sul motore di ricerca e devo dire che il risultato ha largamente disatteso le mie aspettative: se anche appare evidente, dal tipo di omaggio che lui le ha riservato, che la donna ritratta è stata importante per Bodé, nessuno dei biografi del cartoonist americano sembra aver tenuto traccia della relazione tra i due. Ho in compenso trovato notizia di altre relazioni intessute dalla donna del ritratto, in particolare con due eminenze grige del rock che rispondono ai nomi di David Bowie e Robert Fripp, di cui mi occuperò nel seguito dell'articolo. Non prima però di anteporre la premessa che, secondo quella che a me appare ormai una sorta di regola generale, le fonti sono anche in questo caso a tratti confuse e divergenti tra loro anche di molto. Divergono, in particolare, la versione dei fatti riportata da Marc Spitz nel suo libro del 2009 Bowie: A Biography e la testimonianza della ex moglie di Bowie, Angie, contenuta nel suo libro autobiografico, del 1993, Backstage Passes: Life On The Wild Side With David Bowie.

David Bowie nel 1975. Foto: (c) Nosetouch Press.
Ma veniamo ora alla sostanza dei fatti. Siamo all'incirca a metà degli anni settanta del secolo scorso, e David Bowie è ormai prossimo a entrare nella fase “Duca bianco” della sua carriera artistica. Coltiva, intanto, una serie di insolite fascinazioni che spaziano dalla Cabala mistica di Dion Fortune al Nazismo esoterico, dagli extraterrestri all'occultismo satanico di Aleister Crowley. Fa inoltre abbondante uso di cocaina, che va a alimentare e amplificare le sue svariate paranoie.

Cominciando dalla versione dei fatti di Marc Spitz, secondo lui all'epoca David Bowie ha preso residenza a Los Angeles, in una casa di Los Feliz di proprietà del bassista Glenn Hughes, membro dello storico gruppo hard-rock Deep Purple. Non lontano dallo stesso Glenn Hughes, che vive nella casa abitata un tempo dai coniugi Leno (Pasqualino Antonio) e Roxemary LaBianca, uccisi dalla banda del satanista Charles Manson due giorni dopo la famosa scorribanda a Benedict Canyon dove aveva perso la vita, tra gli altri, Sharon tate. Per una bizzarra coincidenza, fra le tante ossessioni di cui Bowie soffre in quel periodo sembra esservene una collegata al film di Roman PolanskiRosemary’s Baby. Come ricorda la cantautrice e poetessa Cherry Vanilla, addetta stampa di David Bowie fino al 1974, a cui il cantante a un certo punto si rivolge in cerca di aiuto: “Aveva questa fissazione su delle streghe nere in caccia del suo seme per generare un bambino da consacrare al diavolo”.

Bowie stesso ricorderà anni dopo, a proposito di quel periodo, la sua fascinazione “...per i Nazisti e la loro ricerca del Santo Graal… Ne feci le spese con la peggior depressione maniacale della mia vita… la mia psiche si inabissò, andò in pezzi. Avevo allucinazioni ventiquattro ore al giorno… mi sentivo come precipitare nelle viscere della terra”.

Comunque sia, l'ipersensibile Bowie non può fare a meno, in quegli anni, di avvertire una connessione tra Charles Manson e la casa di in cui abita e chiede a Cherry Vanilla di fargli incontrare, per un esorcismo, una strega bianca con cui lei è in contatto. Ecco il ricordo di Cherry Vanilla: “Mi chiese di fargli incontrare una strega bianca che gli togliesse la maledizione. Era del tutto serio. E io in effetti conoscevo qualcuno a New York che asseriva di essere una strega bianca. Era la sola strega bianca che io avessi mai incontrato. Così li misi in contatto. Non so cosa ne sia stato di lei dopo di allora. E non so se rimosse la maledizione. Ma presumo di sì”.

Walli Elmlark, la Strega Bianca di New York.
La strega in questione era Walli Elmlark, conosciuta come la Strega Bianca di New York - o, in alternativa, la Strega del rock'n'roll di New York - che in quel periodo si divideva tra le lezioni di magia che teneva alla Scuola di Arti e Scienze Occulte di New York (New York School of Occult Arts and Sciences) diretta dall'occultista Timothy Green Beckley e il dietro le quinte della vicina Academy of Music.

Walli Elmlark era in realtà molte cose diverse: adepta della Wicca, coniglietta in un night club, e giornalista. Aveva conosciuto bene Jimi Hendrix ed era amica, e assistente spirituale, di varie eminenze grigie del rock. Portata in Inghilterra da Robert Fripp e Marc Bolan (1947-1977), rispettivi frontmen dei gruppi britannici King Crimson e T.Rex, Walli si fa le ossa scrivendo per il giornale Melody Maker. Ma partecipa anche alla registrazione in studio, nel 1972, di The Cosmic Children, un album spoken-word (parlato, non cantato), a tutt'oggi inedito, dove lei, sul lato A, parla con Fripp delle sue esperienze nella Wicca, e, sul lato B, dialoga con il DJ Jeff Dexter a proposito dei bambini cosmici – spiriti da altre dimensioni planetarie che si incarnano in corpi come quelli di Jimi Hendrix, Marc Bolan, David Bowie o Mike Gibbins (1949-2005, batterista del gruppo gallese Badfinger). Aggiungo, come nota personale, che non ho dubbi che lo stesso Vaughn Bodé sia da considerarsi rientrare in questa speciale categoria di esseri.
In una intervista con Simon Stable del New Musical Express, Fripp spiegò che scopo dell’album era rivolgersi ai bambini di questo tipo speciale per dir loro: “Voi non siete matti, non siete dei freaks solo perché non riuscite a relazionarvi a ciò che vi circonda”.

Robert Fripp nei primi anni '70.
Su questo disco misterioso, la testimonianza più accurata che ho rintracciato è quella di Andrea C. Soncini, che nel suo saggio del 2018 King Crimson. Gli anni prog, riporta una dichiarazione rilasciata da Fripp il 18 ottobre 1974, in cui il musicista così risponde a Ihor Slabicky che chiede ragioni sul perché The Cosmic Children sia rimasto inedito:
La musica per il disco era un pezzo di quarantacinque secondi di Eno al sintetizzatore che ho trovato il modo di far durare circa venti minuti. L'ho replicato più volte e sfumato in alcuni momenti. La facciata A ha un solo di Frank Perry, che è un percussionista eccezionale. Ma soprattutto non era un album molto bello. Di certo non era commerciale, per cui non è mai stato pubblicato.
Soncini riesce inoltre a contattare lo stesso Frank Perry, che in quell'occasione aveva collaborato come percussionista al disco Blueprint di Keith Tippett, e a ottenere da lui una testimonianza diretta di cui pubblico qui due stralci. Dice Perry:
Robert Fripp produsse due LP, Blueprint e Ovary Lodge, e mi chiese di registrare una seduta a parte per accompagnare un'intervista che aveva registrato. La ascoltai per essere sicuro che non venisse detto nulla con cui fossi in disaccordo. Mi presentai alla seduta e registrai la parte musicale senza alcun riferimento alla traccia con le parole. Durante una sessione di registrazioni per il disco degli Ovary Lodge, Robert portò con sé una strega. E' possibile che le abbia chiesto cosa pensava dell'idea che io aggiungessi il mio suono a una traccia con la sua voce per un loro progetto; devono aver concordato che era una buona idea. Dopo la registrazione di Ovary Lodge era rimasto del tempo a disposizione e Robert suggerì di usarlo per un brano dove suonavo da solo. Il pezzo sarebbe stato usato per la facciata A di un disco che riportava un'intervista a una strega che parlava di arti magiche. Ho sentito da Robert che l'altra traccia, un pezzo forse intitolato Cosmic Children, destinato alla facciata B, riguardava gente che veniva da altri pianeti. Ho solo questa breve descrizione di questi due brani, che credo avrebbero dovuto ricoprire due intere facciate di LP. Robert mi disse che quando lui e Walli, la strega, editarono le tracce erano quasi in lacrime perché mentre sentivano la mia musica registrata avevano pensato: "Sarebbe grande se Frank facesse quel suono in questo punto", e così era stato.
Poi, alla richiesta di Soncini di descrivere la strega, Perry aggiunge:
Aveva i capelli neri e mi sembra che fosse vestita di bianco. Non ho parlato con lei. Ho sentito che emanava una strana energia. Nessuno inizialmente mi disse che era una strega, era nella sala di mixaggio e mi fu detto che era un'amica di Fripp. In sala di registrazione feci un po' di esercizi mentali yoga per rimettermi in forze. Più tardi Fripp mi disse che la donna aveva dato di matto perché non riusciva a connettersi alla mia energia. Non ho trovato cattiva la sua energia, conosco il black magic e penso che fosse una strega bianca, però forse non era molto spirituale, ecco perché l'ho mandata fuori di testa. I doni psichici non significano sempre grande spiritualità. Ma è stato solo un breve incontro.

Il seguito (e conclusione) al prossimo post... tra un paio di giorni.

Walli Elmlark, la Strega Bianca di New York ovvero Cercavo Bodé e ho trovato... Bowie (e Fripp)! /2

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Chiusa la parentesi britannica di The Cosmic Children, Walli Elmlark ritorna a New York, dove diventa titolare, sul rock magazine Circus - sorta di versione metallara di Rolling Stone - di una rubrica fissa sui dietro le quinte del mondo musicale, e dà alle stampe, sempre nel 1972, il libro Rock Raps of the 70’s, scritto a quattro mani con l'amico occultista Timothy Green Beckley, direttore dell'Istituto di New York dove lei insegna magia.

Lo stesso Beckley, nel numero 549 di Conspiracy Journal, ci offre questa interessante descrizione di lei:
Wallie era conosciuta da tutti come la Strega Bianca di New York. A causa dei suoi contatti con l’industria discografica aveva consolidato una clientela eclettica a cui offrire la sua guida spirituale, oltre a occasionali incantesimi per la buona sorte o la riuscita in amore, sempre di natura positiva. Non si cimentava con la magia nera e neanche con quella detta “gris gris”, una forma di “magia grigia” di New Orleans che comprendeva l’uso di bamboline e  talismani da tenere nelle proprie borse di magia. Walli era vitale, ingegnosa, piena di energia, mentalmente lucida e decisamente attraente nei suoi fluttuanti abiti bianchi e i suoi ornamenti d’argento alla moda. Per non parlare dei suoi lunghi capelli neri attraversati da strisce di colore verde.

Ma veniamo ora, dopo la versione di Marc Spitz del 2009 che ho presentato nella prima parte, alla precedente versione della storia offerta da Angela "Angie" Bowie, ex moglie del cantante. Nel suo già citato testo autobiografico del 1993, Backstage Passes: Life On The Wild Side With David Bowie, Angie si assume in pieno, al posto di Cherry Vanilla, la paternità della decisione di interpellare Walli Elmlark. Ecco cosa scrive a pag. 299 del suo libro (traduzione mia):
Se David non era in grado di salvarsi approdando alla mia visione delle cose, allora dovevo essere io ad adottare la sua. Dovevo saltare con lui nel suo nido di demoni e fantasmi e venire a patti con loro secondo i suoi termini.
Fortunatamente avevo gli strumenti per farlo. Nella mia agenda avevo il numero di telefono di Walli Elmlark, una strega bianca del tutto rispettabile che David ed io avevamo incontrato a Londra dove stava lavorando con Robert Fripp al bizzarro progetto di un disco sulle percezioni extra-sensoriali. Walli era grandiosa; conosceva molto bene il suo mestiere, e aveva anche l'aspetto giusto - molto pallida e gotica, con zigomi scolpiti alla maniera di una gitana slava - e per mia fortuna, era a casa per rispondere alla mia chiamata. Le spiegai la situazione e lei mi dette una prescrizione per via telefonica: un rituale con l'impiego di erbe accompagnato da letture dal Libro tibetano dei morti (che David aveva con sé dai tempi del suo noviziato come monaco buddista) avrebbe ristabilito un momentaneo equilibrio.
La notizia che avevo delle istruzioni di Walli fu di per sé rincuorante per David, che si calmò un poco. Acconsentì perfino a mangiare - a patto che io, e solo io, toccassi il suo cibo. Andai in cucina, gli preparai un piatto e glielo portai nella sua stanza.

Anche il seguito è interessante, ma non posso certo trasferire qui l'intero libro. Spostiamoci quindi adesso un po' più avanti, a pagina 303. Finora David e Angie a Los Angeles erano ospiti di una coppia di amici, Michael e Nancy Lippman, ma adesso decidono di cercarsi una casa tutta per loro. E anche in questo caso, niente Glenn Hughes, Charles Manson e casa di Los Feliz:
David non acconsentì però a trasferirsi nella casa ideale che avevo trovato per noi dopo molte ricerche. Era una bellissima casa Art Deco con sei acri di terreno; una splendida tenuta dall'enorme valore venduta per soli 300,000 dollari. Ma lui si accorse di un dettaglio che io non avevo notato: un esagramma dipinto sul pavimento di una stanza circolare dalla precedente proprietaria, Gipsy Rose Lee, ed ebbe una crisi isterica. Ora Angie era in combutta con il diavolo. Perché altrimenti avrebbe provato ad attirarlo in una simile trappola?
Un bel po' di coccole e rassicurazioni ci fecero superare la crisi, e io trovai la casa di Doheny Drive. Costruita alla fine degli anni '50 o all'inizio dei '60, era un cubo bianco che circondava una piscina coperta. A David il posto piaceva, ma io pensavo che fosse troppo piccolo per soddisfare a lungo le nostre esigenze, e non andavo pazza per la piscina. Nella mia esperienza, le piscine coperte sono sempre un problema.
Questa non faceva eccezione, anche se in un modo diverso dal solito. Aveva un inconveniente in cui non mi ero mai imbattuta e di cui mai avevo avuto notizia prima di allora: era abitata da Satana. David mi disse che aveva visto con i suoi occhi LUI sollevarsi dalla piscina.
Daccapo a Walli Elmlark, quindi, e stavolta con una bella gatta da pelare. David voleva un esorcismo.
Una chiesa greca ortodossa di Los Angels avrebbe potuto farlo per noi - c'era un prete disponibile per quel genere di servizio, mi fu detto - ma David non ne volle sapere. Niente estranei in casa, replicò. Ed eccoci così con nient'altro in mano che le istruzioni di Walli Elmlark e qualche centinaio di dollari di libri, talismani e altri aggeggi provenienti dai migliori empori dell'occulto di Los Angeles.
Lui era già pronto e carico. I libri e gli strumenti appropriati disposti su un leggio vecchio stile. L'incantesimo ebbe inizio e sebbene io non capissi né il senso delle parole né in quale lingua fossero non potei evitare che una sensazione di gelo mi crescesse dentro mentre David continuava la sua cantilena.
Non c'è modo semplice o elegante per dirlo, così lo dirò nel modo più diretto. A un certo punto del rituale, la piscina iniziò a ribollire – o, meglio ancora, ad agitarsi – in una maniera non attribuibile ai filtri della vasca o quant'altro”. "Bene caro, non sei forse astuto? Sembra che stia funzionando. Non pensi che qualcosa là dentro si stia muovendo?" dissi, cercando di sdrammatizzare. Ma non ressi a lungo. Perfino dopo le mie recenti esperienze faticavo ad accettare quello a cui stavo assistendo.

Angie continua dicendo che nelle ore seguenti prese a scrutare di tanto in tanto attraverso la porta a vetri che portava alla piscina e a un certo punto rimase esterrefatta da quel che vide:
Sul fondo della piscina c'era ora una grande ombra, o macchia, che non c'era prima del rituale: aveva la forma di una bestia degli inferi, mi ricordava quei gargoyle contorti e tormentati che urlano in silenzio dalle guglie delle cattedrali medievali: era repellente, scioccante, malevola, mi spaventava. Indietreggiai sentendomi molto strana, attraversai l'androne di casa e dissi a David quel che avevo visto, cercando di mostrare non-chalance ma senza grande successo. Lui sbiancò in volto, ma poi si riprese abbastanza da passare il resto della notte a sniffare coca. Senza però mai avvicinarsi alla piscina. Ancora oggi non so cosa pensare di quella notte. E' in totale contrasto con il mio pragmatismo e la mia fede quotidiana nell'integrità del mondo "normale", e mi confonde molto. Ciò che mi turba di più è sapere che se mi si dicesse che quella macchia era il marchio di Satana, non avrei cosa obiettare. David, naturalmente, insistette per cambiar casa il prima possibile, come abbiamo poi fatto, ma ho sentito da fonti attendibili (Michael Lippman per esempio, l'agente immobiliare della proprietà) che gli inquilini successivi non sono stati in grado di rimuovere la macchia. Anche se la piscina è stata ridipinta più volte, è sempre tornata.

Secondo Marc Spitz, Walli Elmlark scrisse successivamente "una serie di formule e incantesimi per Bowie, nel caso i demoni avessero fatto ritorno, e i due rimasero in contatto per per tutto il tempo in cui lui continuò a lottare contro le forze oscure”.
Del seguito, poi, della vita di Walli Elmlark e della sua fine, si sa molto poco. Ancora Spitz scrive che la donna "lasciò questo piano dell'esistenza nel 1991". Ma sembra più probabile che se ne sia andata prima. Nel forum della Webzine musicale The Gear Page, qualcuno che le fu amico ha lasciato una delle rarissime testimonianze in rete su di lei, dove scrive che Walli morì mentre era al telefono con lui, dopo aver ingerito una dose letale di barbiturici. Era, scrive, il 1979 o il 1980.

Tesi, questa, che sembra anche suffragata da alcune parole, un po' sibilline, di Timothy Green Beckley:
Passarono gli anni e Walli andò incontro a una morte prematura, perché nonostante l’impatto enorme e positivo che ebbe su quasi chiunque la incontrò, non riuscì a scacciare dalla sua vita i suoi personali demoni interiori….

E questo, per ora, è tutto quel che ho reperito della biografia di Walli Elmlark. Non voglio però ancora dichiarare concluso l'articolo, non senza aver richiuso il cerchio e riproposto l'immagine di apertura della sua prima parte.




Tra i dettagli insoliti che si possono notare nell'immagine, ve ne è uno appena accennato che mi ha dato da pensare: una piccola ferita sul petto di Walli da cui escono delle gocce di sangue. Che significa? Ho provato a darmi delle risposte e ne ho trovate due che sono solo delle mie ipotesi e vanno quindi prese con le pinze.
La prima, si fonda su certe affinità che mi sembra di riscontrare tra Walli Elmlark e Vaughn Bodé, in particolare riguardo al loro condurre la vita su due binari all'apparenza paralleli, ma che in realtà possono benissimo aver finito per incontrarsi in Elmlark come hanno fatto in Bodé. Chi ha letto i post della mia biografia sul messia del fumetto sa che Bodé affiancava alla sua ricerca spirituale l'arte della trasgressione, preferibilmente negli ambienti del S&M e del bondage. La moglie Barbara ricorda come lui rincasasse, dopo le sue sessioni notturne, ricoperto di lividi e piccole ferite. Walli Elmlark, dal canto suo, lavorava o aveva comunque lavorato in un night club. La piccola ferita nel ritratto significa forse che anche lei si spingeva oltre, fino a frequentare determinati ambienti?
La seconda ipotesi a cui ho pensato è più sottile, e credo per questo ancor meno verificabile dell'altra: la possibilità che Bodé abbia voluto indicare in questo modo la dedizione agli altri di Walli Elmlark, ricorrendo a un'antica simbologia, del pellicano che si ferisce il petto con il becco per nutrire del proprio sangue i suoi pulcini.


* * *


Principali fonti utilizzate

Angela Bowie with Patrick Carr, Backstage Passes: Life on the Wild Side with David Bowie. Cooper Square Press, 1993.

Marc Spitz, Bowie: A Biography. Crown Publishing Group, 2009.

Andrea C. Soncini, King Crimson. Gli anni prog. Giunti, 2018.

MEET THE MYSTERIOUS ‘WHITE WITCH’ WHO EXORCISED DAVID BOWIE’S COCAINE PALACE by Martin Schneider (2015). In: Dangerous Minds

DAVID BOWIE: "STARMAN" by Timothy Green Beckley (2016) in: More Dark than Shark

* L'immagine di apertura del post è un dettaglio della copertina di Rock raps of the 70's by Walli Elmlark and Timothy Green Beckley. Drake,1972.


When Charlie speaks of Lester... - I quarant'anni di "Mingus" /1

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When Charlie speaks of Lester / You know someone great has gone / The sweetest swinging music man / Had a Pork Pie hat on.
Joni Mitchell, Goodbye Pork Pie Hat


Secondo post della nuova rubrica (o virtualmente tale) del blog dedicata agli anniversari e alle ricorrenze. Nel primo, ad aprile, ho voluto ricordare, seppur con due mesi di ritardo, il cinquantenario dell'uscita nelle sale di Brucia ragazzo brucia, del bravo regista italiano Fernando di Leo (1932-2003). Senza però concentrarmi sul film nella sua interezza, ma soltanto su una sua sottotrama che mi sono divertito a intitolare Snoopy vs Mickey Mouse, scegliendo così di isolare la parte più leggera di un film nell'insieme tutt'altro che leggero. Va poi da sé che neanche nei suoi toni da commedia Di Leo rinuncia a offrirci degli spaccati mordaci sulla società e le relazioni umane. L'avere inoltre io potuto coniugare in tal modo cinema e fumetto, mi ha anche motivato a chiedere a Lucius Etruscus di far apparire il mio post nella rubrica Comics in Movies del suo blog Non quel Marlowe. Chi volesse vedere, o rivedere, il risultato, non ha che da cliccare sul titolo in blu poche righe sopra.

Il presente secondo appuntamento ruota invece intorno alla celebrazione di un quarantennale, quello dell'uscita, nel giugno 1979, di Mingus, album capolavoro della cantautrice e pittrice di origini canadesi Joni Mitchell. Neanche in questo caso ho però intenzione di recensire davvero l'album - cosa avrei mai da aggiungere alle mille cose, in positivo e negativo, che ne sono state dette? - preferendo invece concentrarmi sulla sua storia e sulla storia del mio rapporto con il disco e i suoi due grandi protagonisti: Joni e Charles.

Joni Mitchell, lo ricordo bene, la scoprii nell'estate del 1977, con l'album Hejira, pubblicato alla fine dell'anno precedente. Accadde grazie a una recensione, non so dire oggi se a opera di un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete, in cui veniva presentato come il miglior disco dell'anno. Mi fidai e lo comprai a scatola chiusa, un giorno in cui ero insieme a un amico (ancora tale oggi), appassionato come me di musica e alta fedeltà, amico con cui passavo ore, oltre che ad ascoltare musica, a studiare le caratteristiche tecniche di piatti, amplificatori, casse acustiche e chi più ne ha ne metta. Hejira lo ascoltai così per la prima volta a casa sua, sul suo impianto hi-fi, rimanendo, lo dico subito, abbastanza deluso e quindi mille miglia lontano dall'immaginare che di lì a pochi mesi quello sarebbe diventato uno dei miei dischi preferiti di sempre, grazie anche alla superba prestazione al basso di Jaco Pastorius (1951-1987). Per fortuna non desistetti, nei giorni seguenti, dall'ascoltarlo di nuovo e di nuovo.

Ricordi molto meno precisi li ho riguardo il mio primo incontro con la musica di Charles Mingus (1922-1979), anche se deve essere successo più o meno nello stesso periodo. So comunque per certo che l'album era Mingus Ah Um, quello con Goodbye Pork Pie Hat e Fables of Faubus. Fu subito amore, anche se la botta definitiva me la dette l'acquisto del triplo The Great Concert of  Charles Mingus, con dentro anche le versioni live di Goodbye Pork Pie Hat e Fables of Faubus (credo si sia capito che adoro questi due brani).

Sullo scadere del 1977, poi, la Mitchell se ne uscì con un altro disco notevole, e se fin troppo eclettico: il doppio Don Juan's Reckless Daughter, sempre con Jaco Pastorius e altri pezzi dei Weather report, che attirò finalmente sulla cantante l'attenzione anche degli appassionati di jazz.

Fu meno di un anno dopo, nell'autunno del 1978, che lessi per la prima volta di un album in lavorazione a firma di Charles Mingus e Joni Mitchell insieme. E lo vissi come un vero regalo dall'alto, perché se mi avessero chiesto quali due artisti avrei fatto lavorare insieme in ambito musicale, se fosse stato in mio potere farlo, avrei molto probabilmente indicato proprio loro due.


Inutile dire, così, che comprai il disco il giorno stesso del suo arrivo nei negozi, dopo avergli fatto la posta per settimane, rimanendone soddisfatto fin dal primo ascolto. Unica lieve pecca che vi riscontrai, la disomogeneità dovuta alla circostanza che dei suoi sei brani, solo quattro portano anche la firma di Charles Mingus, mentre gli altri due sono composti per intero, testi e musica, da Joni Mitchell.

La richiesta iniziale di Mingus alla Mitchell era stata, in realtà, che lei rielaborasse e adattasse, alle musiche da lui composte, i quattro poemetti dell'opera di T.S. EliotFour Quartets. Ma Joni giudicò il compito troppo gravoso - peggio che adattare la Bibbia, spiegò a Mingus - e i due si accordarono per un progetto diverso, che Mingus intitolò semplicemente Joni I-VI. Anche se alla fine, come ho detto, i brani che nell'album Mingus portano anche la firma del musicista sono solo quattro: Chair in the Sky, Sweet Sucker Dance, The Dry Cleaner From Des Moines, e il preesistente Goodbye Pork Pie Hat. Mentre i due brani composti interamente dalla Mitchell sono God Must Be a Boogie Man e The Wolf Who Live in Lindsay.
E in mezzo a tutto questo - o, meglio, nella fase finale di tutto questo - la morte di uno dei due protagonisti, Charles Mingus.

Una morte a cui Joni Mitchell dedica spazio nelle abbondanti note di copertina del disco, delle quali traduco qui al volo le parti che considero più significative:
La prima volta che lo vidi il suo volto irradiò su di me una raggiante malizia. Mi piacque subito. Ero venuta [da Los Angeles] a New York per ascoltare sei nuove canzoni che lui aveva scritto per me. Ero onorata! Ero curiosa! Era come se stessi sulla riva di un fiume - un alluce nell'acqua - a tastare la situazione - e Charles arrivasse e mi spingesse dentro - "Nuota o affoga" - ridendo di me mentre zampettavo come un cane tra i flutti della musica classica nera.
Mai come in questo ultimo anno ho sentito il ticchettio del tempo che scorre. Volevo che Charlie vedesse il progetto completato. Ascoltò tutte le canzoni eccetto una - God Must Be a Boogie Man. So che l'avrebbe fatto sogghignare. Ispirata dalle prime quattro pagine della sua autobiografia - Peggio di un bastardo - sulla notte del nostro primo incontro - fu l'ultima a prender forma - due giorni dopo la sua morte.
E' stato un lavoro difficile ma stimolante. Cercavo di far contento Charles e allo stesso tempo rimanere fedele a me stessa. Ho inciso ogni canzone tre o quattro volte. Ero alla ricerca di qualcosa di personale - di qualcosa di reciproco - di qualcosa di indescrivibile.

Seguono i ringraziamenti di Joni. Tra cui quelli ai vari musicisti che suonarono nelle sessioni di prova, a certo Daniel Senatore, che fece conoscere a Mingus la musica della Mitchell, e ai musicisti che suonarono nelle sessioni finali del disco.
Queste versioni - scrive Joni - mi soddisfano. Sono dipinti sonori.
Per poi concludere con una descrizione della morte e i funerali di Mingus:
Charles Mingus, un mistico della musica, morì in Messico il 5 gennaio 1979 all'età di 56 anni. Fu cremato il giorno dopo. Quel giorno 56 capodogli si spiaggiarono sulla costa messicana e furono a loro volta inceneriti col fuoco. Ecco le coincidenze che elettrizzano la mia immaginazione.
Sue [Graham Mingus, la moglie], portò le ceneri in India come da lui richiesto fino alla sorgente del fiume Gange, in un punto dove l'acqua scorre turchese e luccica dell'oro delle squame di grandi carpe, e ve le gettò all'alba insieme a fiori e preghiere.
Sue e il fiume sacro
Ti condurranno tra i santi del jazz -
Da Duke e Bird e Fats –
E da qualunque altro santo tu abbia.

Penso che possa bastare, per oggi. Tornerò a breve, nella seconda (e ultima) parte dell’articolo, su alcune delle questioni qui sollevate.

When Charlie speaks of Lester... - I quaranta anni di "Mingus" /2

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Charles Mingus odiava le limitazioni. Odiava le categorie. Jazz, classica, rock, folk... per lui non significavano nulla, erano solo delle restrizioni espressive.
Sue Graham Mingus


* * *


L'esempio più bello, anche se non si tratta di un documento di natura jazzistica, è quello attuato dalla cantautrice canadese Joni Mitchell, artista famosissima che non ha certo operato in cerca di popolarità, che ha costruito uno splendido album dal titolo semplice e significativo: Mingus. All'interno di queste tracce sonore c'è tutta l'essenza della filosofia di Mingus: esprimere soprattutto se stessi. E infatti, questo è un album della cantante canadese, e non si distacca minimamente dai suoi lavori precedenti; eppure, il profumo di Mingus sembra colmargli le narici oltre che l'anima: quel sapore acro e amaro, dolce e fantasioso del grande contrabbassista sembra trasportato implicitamente nella personale espressione di Joni Mitchell, attuando proprio quel lavoro di "ispirazione" che Mingus, ad esempio, aveva fatto nei confronti di Ellington. L'operazione è di ampia entità, ed è nata quando il contrabbassista era ancora in vita, ma fu portata a termine quando il corpo di Mingus giaceva già nelle acque del Gange, ma è certo che se lo avesse potuto ascoltare lo avrebbe apprezzato, così come lo apprezzarono i lettori di Down Beat che nel Readers Poll del 1979 lo votarono miglior disco dell'anno (e in quello stesso referendum, Mingus fu votato musicista dell'anno). Quel disco era nato in maniera singolare: sia Mingus che la Mitchell stavano pensando, separatamente e all'oscuro l'uno dei pensieri dell'altro a un progetto che li coinvolgesse entrambi, Mingus aveva in mente di scrivere qualche composizione per lei, e Joni, dopo aver ascoltato Goodbye Pork Pie Hat, meditava di realizzare una sua versione. Si incontrarono quando Mingus già sedeva immobilizzato sulla sedia a rotelle. 
[...]
Due brani in particolare dimostrano quanto Joni Mitchell avesse colto il succo di quella sfuggente personalità e di come l'abbia espressa con intelligenza e sensibilità. Il primo, God Must be a Boogie Man, è un piccolo capolavoro: Joni ha composto la musica su un testo ricavato dalla autobiografia di Mingus, quello relativo ad una conversazione tra Mingus e il suo psicanalista: "In altre parole, io sono tre..."; adattandolo ma anche completandolo. L'arrangiamento, scarno ed efficace ma soprattutto pungente, lascia al basso di Jaco Pastorius di esporre e interpretare la melodia in lontananza, quasi in secondo piano, quasi a non voler distrarre l'ascolto del testo, mentre in primo piano c'è l'accompagnamento alla voce della chitarra di Joni che ogni tanto lancia frecce di suoni. Il secondo, Goddbye Pork Pie Hat, è organizzato in senso inverso: sulla musica di Mingus la cantautrice ha scritto un un testo aderente sia a Mingus che a colui a cui quella composizione è stata dedicata, Lester Young: When Charlie speaks of Lester you know someone great has gone..., canta Joni Mitchell su uno sfondo sonoro delicato, creato dal basso di Pastorius, dal piano elettrico di Herbie Hancock, dalla batteria di Peter Erskine, sui quali galleggia apparendo e scomparendo il sassofono soprano di Wayne Shorter; ma non ci sono solo Mingus e Lester, in quel testo: c'è tutto un mondo assai vicino ai due soggetti; e poi c'è quella voce che
accarezza la melodia con un garbo che ricorda Billie Holiday: quei glissando dolcissimi che cadono di peso che Lady Day usava spesso, come se la sua voce stesse venendo giù da una collina. Joni ha preso dei pezzettini brillanti del fraseggio di questa donna ma ha mantenuto il suo stile personale e unico, e la combinazione è di un fascino fatale.
(Neil Tesser, "Record Rewiews", Down Beat, 9 agosto 1979)


I due estratti di libro che avete appena letto li ho ricavati dalle pagine 105-107 di Charlie Mingus, un saggio del critico musicale Mario Luzzi che conservo gelosamente nella mia biblioteca personale dal lontano 1983. Ho deciso di presentarli qui perché sono quanto di più vicino ho letto alle impressioni che io stesso ho ricavato dall'ascolto di Mingus. La differenza più sostanziale riguarda semmai la scelta dei due brani simbolo del disco: l'accoppiata che proporrei io sarebbe piuttosto Goodbye Pork Pie Hat e A Chair in the Sky, ma si tratta appunto di scelte personali.




Decisamente critica, invece, la posizione di Luzzi sulla Mingus Dinasty, gruppo a formazione variabile ma tutto formato di ex musicisti di Mingus, ideato e coordinato dalla vedova del musicista, Sue Graham Mingus, che nel 1980 ripubblicò anche in un proprio lp, ma in forma solo strumentale, i brani composti da Mingus per il disco della Mitchell. Scrive Luzzi:
La Mingus Dinasty è una meravigliosa scatola vuota, dove la perizia tecnica e gli sforzi dei bravi musicisti non riescono a superare quel vuoto e quel carisma lasciato da Mingus. Ma questo lo si sapeva già: Mingus era unico e irripetibile.*

E anche qui posso solo dirmi d'accordo. Assistetti, alla fine del 1979, al concerto di Firenze della tournée italiana della Dinasty e non lo ricordo come granché esaltante. Se ne conservo ancora oggi qualcosa, ha più a che fare con l'amorevole introduzione parlata della bionda Sue che con l'esibizione musicale in sé.

Ma torniamo adesso a Mingus e più in particolare alla malattia che lo aveva inchiodato su una sedia a rotelle: la sclerosi amiotrofica laterale. Gliela diagnosticarono nel Giorno del ringraziamento del novembre 1977, senza dargli speranze di guarigione o sopravvivenza. Meno di un anno dopo, nell'estate del 1978, Mingus fu invitato a Washington, al primo Festival del jazz alla Casa Bianca, e fu lì che il grande sassofonista Gerry Mulligan gli consigliò di fare un tentativo con la guaritrice messicana Pachita.

Barbara Guerrero detta Pachita
Il nome di Pachita, probabilmente la più famosa guaritrice dell'era moderna, è già apparso una volta in questo blog, nella prima parte del mio articolo intitolato La storia segreta del film impossibile, all'interno di una citazione dal libro Psicomagia di Alejandro Jodorowsky. Proprio Jodorowsky, con cui ho avuto la possibilità di interagire varie volte tra la metà dei '90 e i primi anni del 2000, è stato per alcuni anni assistente di Pachita, sebbene, per quel che ricordo, in anni precedenti a quelli che sto trattando qui, e proprio da lei ha appreso l'essenziale dei metodi di guarigione, basati sulla relazione simbolica tra la malattia e l'inconscio del paziente, che ha in seguito utilizzati nella sua psicomagia.
Non userò però in questa occasione le parole di Jodorowsky per descrivere il metodo operativo di Pachita, bensì altre meno note (almeno in Italia) ma secondo me più efficaci e rispondenti al vero. Il che ha anche però fatto sì che l’articolo si allungasse oltremisura e io mi trovi ora costretto, per rispettare i miei standard di pubblicazione, a suddividerlo in tre post anziché due come inizialmente previsto. Appuntamento quindi ai prossimi giorni, per la (vera) conclusione.


* * *


* Mario Luzzi, "Trentatré 1/3", Popster, gennaio 1980.

L'immagine di apertura del post è: Joni Mitchell, A Chair in the Sky.

When Charlie speaks of Lester... - I quaranta anni di "Mingus" /3 (Finale)

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Charles Mingus parlava criticamente degli Americani, che con la loro cultura della Coca Cola non riuscivano a capire la statura intellettuale, il modo di vivere e pensare di popoli che hanno una storia di millenni... Cercavo di capire, di seguirlo in quel suo modo tipico di parlare, troppo chiuso per le mie orecchie poco use a quel linguaggio e a una serie di argomentazioni complesse portate avanti una dopo l'altra, che dall'estrema Asia al Mediterraneo, passando attraverso l'India e i paesi arabi, l'Egitto, toccava temi quali la religione, la vita, la politica, la musica di queste regioni...
Isio Saba, fotografo e pioniere del jazz in Italia


Ho terminato il post precedente scrivendo che avrei parlato del "metodo  operativo" di Pachita, ma con la precisazione che non sarebbe stato attraverso le descrizioni offerte nei suoi libri da Alejandro Jodorowsky, suo assistente per vari anni. Preferisco rivolgermi, allo scopo, all'opera di Carlos Castaneda, che nell'ottavo volume della sua saga sciamanica, The Power of Silence (1987), dice la sua, sebbene per la mediazione del solito don Juan, anche sulla famosa guaritrice messicana.
Ritengo però anche necessarie, a questo punto, un paio di premesse, la prima riguardante proprio la ragione di questa mia preferenza. Ho infatti scritto che avrei utilizzato parole "secondo me più incisive e più rispondenti al vero", senza con questo voler dire che secondo me Jodorowsky non dica il vero su Pachita, ma soltanto che il suo ordine di pensiero rimane ampiamente ancorato al "canone occidentale", come testimonia anche l'utilizzo abituale che lui fa, all'interno del suo sistema psicomagico, del termine "inconscio". Diverso è il caso di Castaneda, che pur essendo nato e cresciuto all'interno dello stesso paradigma, e pur avendo completato tutti i gradi della formazione accademica, riesce a trasferirsi a sua volontà interamente entro i confini di un "canone" altro, dove sono il nostro stile di pensiero e la nostra stessa concezione della realtà ad apparire in qualche modo difettosi, mancanti di qualcosa che è forse (o anche sicuramente) l'essenziale. Solo dall'interno di questi confini è, secondo me, possibile descrivere correttamente l'operato di Pachita, senza scomodare concetti come "inconscio" o altri allo stesso modo impropri.

Come scritto in un'occasione dallo stesso Castaneda:
A un dato momento, e senza neanche che me ne rendessi conto, il mio lavoro misteriosamente cambiò, dal raccogliere dati antropologici all'interiorizzare i processi cognitivi del mondo degli sciamani.*

Il secondo punto è più complesso e riguarda la particolare scrittura castanediana, densa di termini comprensibili solo all'interno di un determinato sistema di riferimento o paradigma. La parte di libro riguardante Pachita ne racchiude, per fortuna, solo uno: "punto di assemblaggio". Ma poiché riveste un ruolo decisivo nel testo, cercherò di offrirne una spiegazione il più sintetica e comprensibile che posso.
Proviamo a immaginare una massa energetica di inconcepibili proporzioni a cui la nostra minuscola massa energetica sia collegata attraverso un'unico punto di giuntura, delle dimensioni approssimative di una palla da tennis, la cui funzione è di convertire prima i flussi di energia, provenienti in numero incalcolabile dall'esterno, in dati sensoriali e poi assemblarli in modo tale che il nostro sistema cognitivo possa interpretarli, in ugual modo in tutti gli esseri umani, come "la nostra realtà”. E questo per mezzo di un secondo conglomerato di energia, analogo al primo, chiamato "intento" e responsabile, attraverso l'intenzionalità, di ogni possibile variazione di stato nell'universo. Con la conseguenza che la nostra realtà non è mai un prodotto diretto della percezione, ma di un'interpretazione dei dati della percezione stessa che avviene, consapevolmente o a livello subliminale, per mezzo dell'intento e dell'intenzionalità.
L'altra caratteristica fondamentale del punto di assemblaggio è il poter cambiare di posizione e collocarsi altrove nel nostro campo energetico, così da accogliere differenti flussi di energia dall'esterno, tradotti poi a loro volta in dati sensoriali che il nostro sistema cognitivo interpreta come una diversa realtà. Uno spostamento che può aversi spontaneo, e casuale, in una serie di occasioni, per esempio nel sonno, in conseguenza di un'estrema fatica, in certe malattie o per l'utilizzo di droghe. Uno degli obiettivi più importanti della disciplina sciamanica è intendere, per mezzo dell'intenzionalità, dei movimenti controllati del punto di assemblaggio, così da assemblare mondi (ovviamente preesistenti alivello energetico) regolati diversamente ma altrettanto coerenti di quello in cui viviamo. Mondi a cui non solo ogni essere umano può potenzialmente accedere, ma al cui interno può anche vivere o morire.
Ecco, credo che quanto appena premesso sia più che sufficiente a permettere di comprendere il senso dell'estratto che segue, che non presenta, per il resto, particolari difficoltà.

Da The Power of Silence di Carlos Castaneda (pag. 64-66, traduzione mia):

[Don Juan] mi ricordò un evento di cui ero stato testimone a Città del Messico e che mi rimase incomprensibile finché lui non me lo ebbe spiegato usando il paradigma degli sciamani.
Ciò di cui ero stato testimone era stata un'operazione chirurgica eseguita da una famosa guaritrice psichica. Il paziente era un mio amico. La guaritrice era una donna che entrava in una trance molto accentuata al momento di operare.
Fui in grado di osservare come, usando un coltello da cucina, aprì l'addome del mio amico all'altezza dell'ombelico, gli estrasse il fegato malato, lo mise in una boccetta di alcol, poi lo rimise al suo posto e richiuse la ferita, che non sanguinava, con la semplice pressione delle mani.
C'era un certo numero di persone nella stanza in penombra, a seguire l'operazione. Alcuni sembravano essere degli osservatori curiosi come me, altri degli assistenti della guaritrice.
Dopo l'operazione, parlai brevemente con tre degli osservatori. Tutti e tre mi confermarono di aver assistito agli stessi eventi a cui avevo assistito io. Quando poi parlai con il mio amico, il paziente, mi disse che durante l'operazione aveva percepito un costante ma lieve dolore allo stomaco e una sensazione di bruciore al fianco destro.
Raccontai tutto questo a don Juan e azzardai anche una spiegazione scettica. Gli dissi che la stanza in penombra secondo me si prestava perfettamente a giochi di prestigio di ogni genere e tali da render conto della visione di organi interni estratti dalla cavità addominale e lavati nell'alcol. Lo shock emotivo causato negli spettatori dal drammatico piombare in trance della guaritrice - che consideravo altrettanto un trucco - favoriva poi la nascita di un senso di fede quasi religiosa.
Don Juan mi fece subito notare che la mia era un'opinione scettica e non una spiegazione scettica, perché non spiegava il dato di fatto che il mio amico era effettivamente guarito. Don Juan mi propose allora una spiegazione alternativa basata sulla conoscenza degli sciamani. Mi spiegò che il fatto saliente da cui tutto l'evento dipendeva, era la capacità della guaritrice di muovere il punto di assemblaggio dell'esatto numero di persone presente nella stanza. Il solo trucco in gioco - se di trucco si poteva parlare - era che il numero di persone presenti nella stanza non doveva superare il numero che lei era in grado di gestire.
Il suo accentuato stato di trance e gli istrionismi che lo accompagnavano erano, secondo lui, o degli stratagemmi ben architettati per catturare l'attenzione dei presenti o delle manovre inconsce dettate dallo spirito stesso. In ogni caso i mezzi più appropriati a permettere alla guaritrice di promuovere quell'unità di pensiero necessaria a rimuovere ogni dubbio dalle menti dei presenti e forzarli a entrare in uno stato di consapevolezza intensificata.
Quando lei ha aperto il corpo con il suo coltello e ne ha estratto gli organi interni non ha fatto nessun gioco di prestigio, sottolineò don Juan. Si è trattato di eventi reali che, per il loro accadere in uno stato di consapevolezza intensificata, si collocano al di fuori dell'ambito del nostro ordinario metro di giudizio.
Chiesi a don Juan come poteva la guaritrice essere in grado di muovere il punto di assemblaggio di così tante persone senza neppure toccarle. La sua risposta fu che il potere della guaritrice, un dono o una straordinaria conquista, era di fare da canale per lo spirito. Era stato lo spirito, spiegò, e non la guaritrice a muovere i punti di assemblaggio.
"Te lo spiegai a suo tempo, sebbene tu non abbia capito una sola parola" continuò don Juan "che tutta l'arte e il potere della guaritrice consistevano nel rimuovere il dubbio dalla mente dei presenti. Così facendo, fu capace di permettere allo spirito di muovere i punti di assemblaggio. E una volta che questi punti si sono mossi, tutto diventa possibile. I presenti avevano avuto accesso allo spazio in cui i miracoli sono la normalità".
Aggiunse con enfasi che la guaritrice doveva essere lei stessa una sciamana e che se facevo uno sforzo di memoria avrei ricordato che era stata spietata con le persone che la circondavano, specialmente con il paziente.
Gli ripetei ciò che ricordavo della sessione. L'altezza e il tono piatti della voce femminile della guaritrice che mutavano radicalmente, al momento dell'ingresso nella trance, in una ruvida e profonda voce maschile. Una voce che annunciava che lo spirito di un guerriero dell'antichità precolombiana aveva posseduto il corpo della guaritrice. Una volta fatto l'annuncio, poi, l'atteggiamento della guaritrice mutò in modo radicale. Era posseduta. E assolutamente sicura di sé, e iniziò ad operare con totale sicurezza e fermezza.
"Preferisco la parola 'spietatezza' a 'sicurezza' e 'fermezza'"commentò don Juan, che poi proseguì: "La guaritrice doveva essere spietata per poter creare l'ambiente adeguato all'intervento dello spirito".
Asserì poi che eventi difficili da spiegare come quell'operazione sono in realtà molto semplici. A farli sembrare difficili è il nostro insistere nel pensare. Se evitiamo di pensare, ogni cosa trova il suo posto.
"Questo è completamente assurdo" ribattei a don Juan, e lo pensavo veramente.
Gli ricordai che lui stesso richiedeva a tutti i suoi apprendisti un pensiero rigoroso e che aveva sempre accusato il suo insegnante di non essere un buon pensatore.
"Certo che pretendo che tutti quelli di cui mi circondo pensino con chiarezza" replicò. "Ma spiego anche, a chi vuole ascoltare, che il solo modo di pensare chiaramente è non pensare affatto. Ero convinto che avessi compreso questa contraddizione degli sciamani".
Protestai a voce alta che la sua era un'affermazione oscura. Rise e mi prese in giro per il mio bisogno di difendermi sempre. Poi mi spiegò ancora una volta che per uno sciamano esistono due tipi di pensiero. Uno è il modo comune e ordinario di pensare, che è sempre comandato dalla normale posizione del suo punto di assemblaggio. E' un tipo di pensiero intorbidito che non risponde davvero alle sue necessità e gli lascia una gran nebbia nella testa. L'altro è il pensiero esatto. E' funzionale, economico, e lascia davvero molto poco di inspiegato. Don Juan rimarcò che perché questo tipo di pensiero prenda il sopravvento il punto di assemblaggio deve cambiare posizione. O almeno il modo ordinario di pensare deve cessare, così da permettere al punto di assemblaggio di spostarsi. Di qui l'apparente contraddizione, che in realtà non è per niente una contraddizione.


Joni Mitchell, Mingus in Mexico (1979).


Il problema di Pachita con Mingus era che la sua malattia non era del tipo che lei potesse aggredire con il suo famoso coltello da cucina, per cui dovette ricorrere alle cure tradizionali che i curanderos si tramandano da secoli, o da millenni, di generazione in generazione, consistenti di intrugli, impiastri e rituali di varia natura. Se Pachita si fosse davvero illusa di poter guarire Mingus in quel modo, o se abbia invece voluto illudere lui, non possiamo saperlo. Ma se fosse vero il secondo caso, allora potrebbe essere riuscita nel suo scopo, almeno a leggere quel che Sue Graham Mingus ricorda di quei giorni:
Abbiamo fatto un sacco di tentativi, di cose pazzesche che però, fortunatamente, hanno dato un sacco di vitalità a Mingus in quegli ultimi sei mesi di vita, perché quella strega gli aveva dato una speranza. Lui si lasciava fare tutto, sopportava tutto. Malgrado tutto, senza quei tentativi la vita sarebbe stata per Mingus, e per tutti noi, assai più pesante.**

Nel frattempo, mentre accadeva tutto questo, Joni Mitchell scriveva, nel finale del suo testo per Goodbye Pork Pie Hat, come in una cronaca in presa diretta:
Now Charlie's down in Mexico
With the healers
So the sidewalk leads us with music
To two little dancers
Dancing outside a black bar
There's a sign up on the awning
It says "Pork Pie Hat Bar"
And there's black babies dancing...
Tonight!




* * *


* Dal commentario dell'autore all'edizione del trentennale di The Teachings of Don Juan: A Yaqui Way of Knowledge. New York, Washington Square Press; 1998.

** Intervista con Sue Graham Mingus. In: Mario Luzzi, Charles Mingus. Lato Side Editori, Roma; 1983

L'immagine di apertura del post è: Joni Mitchell, Goodbye Pork Pie Hat (1979).

Sguardi sul futuro: Picnic at Hanging Rock Reloaded

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Prossimamente su questo blog.




Perché? Perché se è vero che everything begins and ends at exactly the right time and place (Picnic at Hanging Rock, p.132) è altrettanto vero che... It is happening now. As it has been happening ever since Edith Horton ran stumbling and screaming towards the plain. As it will go on happening until the end of time (Chapter Eighteen, incipit).

Bellissimi coetanei: I miei dieci film degli anni '60 (meme cinematografico) /1

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A onor del vero, non avevo in programma altri post in questo mese di giugno dopo l'impegnativa trilogia Mitchell-Mingus, ma, si sa, l'imprevisto è sempre in agguato e ha preso stavolta le sembianze di un meme cinematografico, per me irresistibile, proposto dal vulcanico Miki Moz sul suo immarcescibile Moz'O'Clock. Sebbene, a dirla tutta, neanche in questa occasione, come in molte altre, io sia riuscito a mantenermi granché fedele alla proposta originale.
Miki, infatti, nel suo post [CINEMA] bellissimi coetanei (i miei dieci film preferiti del 1983) ha elencato dieci film tutti distribuiti nelle sale nel suo anno di nascita, il 1983, mentre io, che come ho scritto in un mio commento al suo post, non saprei neanche da che parte cominciare a trovare dieci bellissimi veramente miei coetanei, ho scelto di produrre, in alternativa, un elenco di dieci film distribuiti lungo l'arco di un decennio, a cominciare dal mio effettivo anno di nascita, il 1960, fino ad arrivare al 1969. E aggiungo, a questo proposito, che dei dieci film in elenco quelli che ho effettivamente visto una prima volta da bambino, negli anni '60, sono concentrati nelle prime tre posizioni (dal 1960 al 1962), mentre i rimanenti sette li ho tutti scoperti in decenni posteriori, in taluni casi anche molto posteriori.
Premesso ciò, vengo ora a presentarvi i miei primi cinque bellissimi (più o meno) coetanei - quelli compresi tra il 1960 e il 1964 - rimandandovi, per i restanti cinque, al prossimo post, che vedrà probabilmente la luce nella prima settimana di luglio.


Bellissimi coetanei Parte I: 1960-64


1960 - Il villaggio dei dannati (Village of the Damned) di Wolf Rilla

Paese di produzione: UK; durata: 1h 17min; genere: Horror, Fantascienza; prima programmazione italiana: 13 luglio 1961; B/N.



Gli abitanti di un intero villaggio della Scozia, animali compresi, cadono misteriosamente addormentati tutti insieme per alcune ore. Mesi dopo, si scoprirà che tutte le donne sono in dolce attesa. Ma di chi?

Tratto dal bellissimo romanzo di John Wyndham I figli dell'invasione (The Midwich cuckoos, 1957), questo pellicola inglese ricca di atmosfera e suspense ruota intorno a un gruppo di bambini dall'aria inquietante e glaciale. E', come ho scritto nell'introduzione, uno dei tre film della mia lista da me visti da bambino, direttamente negli anni '60.


1961 - Atlantide continente perduto (Atlantis, the Lost Continent) di George Pal

Paese di produzione: USA; durata: 1h 30min; genere: Avventura, Fantascienza; Colore.



Anche di questo film ho subito il fascino direttamente da bambino, negli anni '60. A differenza però del precedente e di quello che segue, da allora non mi sono ancora deciso a rivederlo. E tutt'ora mi interrogo sul da farsi. La scena che lo ha fatto entrare di diritto nella rosa degli "indimenticabili della mia infanzia"è in ogni caso quella relativa agli esseri metà uomo metà maiali visibili nella parte centrale inferiore del poster riprodotto qui sopra. Sono abbastanza sicuro, in base ai miei ricordi, che sia dipeso in gran parte dalla viva passione che coltivavo negli stessi anni per L'Odissea di Omero.


1962 - Hallucination (The Damned) di Joseph Losey

Paese di produzione: UK; durata: 1h 27min; genere: Drammatico, Fantasy, Horror; prima programmazione italiana: 13 dicembre 1967; B/N.


Splendida pellicola d'autore della mitica casa di produzione Hammer e terzo e ultimo film in lista da me effettivamente visto negli anni '60. Come ne Il villaggio dei dannati, anche qui la trama ruota attorno a dei bambini possessori di un inquietante segreto, sebbene il loro aspetto sia più normale e sebbene, a differenza dei loro predecessori, siano anche privi di tendenze omicide. Ma mai come in questo caso... l'apparenza inganna. Agghiacciante il finale, che fin dalla prima visione non ho mai più dimenticato.

Aggiungo, a titolo di curiosità, che negli anni ho visto circolare questo film con almeno quattro titoli diversi: Hallucination, La fossa dei dannati, These Are the Damned, The Damned.


1963 - Giovani prede (Mikres Afrodites) di Nikos Koundouros

Paese di produzione: Grecia; durata: 1h 28min; genere: Drammatico, Amore, Erotico;  prima programmazione italiana:
1968; B/N.

Questo film è basato su un mito narrato in un idillio pastorale di Teocrito, scritto nel III secolo a.C., da cui ha preso spunto Longo Sofista per il suo romanzo Dafni e Cloe (Δάφνις καὶ Χλόη), ambientato nel 200 a.C.(Nota del film)

La trama segue in parallelo le vicende di amore e caccia di due pastori in transumanza, Tsakalos e il giovane adolescente Skymnos, rispettivamente con la bellissima Arta e con una giovane ragazza di nome Chloe, da loro incontrate sulla costa, nei pressi di un villaggio di pescatori.


Takis Emmanuel (Tsakalos) e Eleni Prokopiou (Arta).

Vangelis Ioannidis (Skymnos) e Kleopatra Rota (Chloe).



1964 - Il giovedì di Dino Risi

Paese di produzione: Italia; durata: 1h 45min; genere: Drammatico, commedia; B/N.


Walter Chiari e Roberto Ciccolini.

Dino Versini, padre divorziato, per la prima volta dopo cinque anni trascorre un'intera giornata con il figlio Robertino.

Molte le affinità con l'altro, più celebre film di Dino Risi, Il sorpasso, a cominciare dal personaggio di Walter Chiari che ricalca in buona parte il Bruno Cortona di Vittorio Gassman. Ma la storia evolve, e soprattutto si conclude, in modo diverso.
Tutto il film è da vedere, ma la mia sequenza preferita rimane senza dubbio quella, quasi astratta, con al centro il romanzo di Jack London Il vagabondo delle stelle, sequenza da cui ho ritagliato il fermo immagine riprodotto sopra. Per chi fosse interessato solo a questa breve parte a tema letterario, può vederla a questo indirizzo Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=6PQIDdhq1_o, con inizio 
dal minuto 1:02:28.


E anche per stavolta è tutto. Arrivederci qui, per chi vuole, con la seconda parte. Vi ricordo soltanto, prima di chiudere, che se volete aggregarvi attenendovi al concept originale non dovete seguire il mio esempio bensì quello di Miki Moz (anche se niente vi vieta di seguirci entrambi).


* * *


L'immagine di apertura del post è un altro fermo immagine dal film Hallucination (The Damned) di Joseph Losey.

Bellissimi coetanei: I miei dieci film degli anni '60 (meme cinematografico) /2

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Vi presento oggi la seconda parte dell'elenco di film con cui rispondo al meme (o tag) ideato e lanciato dal blogger Miki Moz nel post Bellissimi coetanei (i miei dieci film preferiti del 1983). Meme da me riadattato alle mie esigenze, come ho spiegato nell'introduzione alla prima parte dell'elenco.


Bellissimi coetanei Parte II: 1965-66


1965 - La decima vittima di Elio Petri

Paese di produzione: Italia, Francia; durata: 1h 32min; genere: Azione, Fantascienza; colore.

Dico subito che questo film è tutt'altro che uno dei miei "bellissimi", e che anzi, a dirla tutta, è talmente pieno di difetti che ne salvo ben poco. Che ci fa dunque in questo elenco? La risposta è che quando ho consultato il mio foglio excel che raccoglie tutti i film che ho in cineteca, mi sono accorto che questo titolo è l'unico relativo all'anno 1965 insieme a Alphaville di Jean-Luc Godard. E poiché anche il film di Godard, al di là della meravigliosa resa "atmosferica", non mi ha entusiasmato, alla fine ho deciso di fare un'operazione stile Brucia, ragazzo brucia e concentrarmi sulla parte de La decima vittima incentrata sui fumetti (che è poi l'unica vera ragione per cui conservo il titolo in cineteca).
Ma voglio comunque premettere ugualmente qualcosa di generale sulla pellicola, cominciando con il dire che la sua sceneggiatura è tratta da un geniale e fulminante racconto breve del grande scrittore di fantascienza Robert Sheckley, The Seventh Victim. Il problema è che in questa particolare trasposizione filmica il carattere grottesco, tipico della scrittura di Sheckley, è reso in forma di farsa, con pretese di critica sociale, e pressoché tutta la densa suspense del testo originale va a farsi friggere. L'utilità dell'operazione consiste così più che altro nel ricordarci come sia un caso fortunato che solo in via eccezionale le strade del cinema italiano, soprattutto quando all'opera ci sono certi sceneggiatori, si siano incrociate con quelle della fantascienza.
La trama, del racconto come del film, parla di un futuro in cui l'umanità, evitata per un pelo l'autodistruzione e decisa così a farla finita una volta per tutte con la guerra, permette agli individui più violenti della società di dar sfogo ai propri istinti omicidi con la caccia, regolata per legge, ai propri simili. Niente di costrittivo, in ogni caso, perché tutto avviene su base volontaria e cacciatori e vittime sono le stesse persone, che si alternano nei due ruoli. Inoltre, se compiuto al di fuori delle regole, l'omicidio rimane un crimine duramente perseguito dalla società, anche nel caso in cui capiti di uccidere per errore qualcun altro nel corso di una regolare caccia. Non vi è un limite al numero di cacce a cui si può partecipare, né verso il basso né verso l'alto, ma una serie di incentivi invogliano ad aspirare ad almeno venti cacce, di cui dieci nei panni del cacciatore e dieci in quelli della vittima.
Venendo infine all'apparente bisticcio sul titolo, di cui forse vi sarete accorti, va detto che il racconto di Sheckley si presta altrettanto bene a essere presentato come La settima vittima che come La decima vittima, al punto che l'editore Bompiani non ebbe problemi, nello stesso 1965, a usare il film da traino e riproporre il racconto ai lettori italiani con il secondo titolo, dopo che la Mondadori lo aveva già presentato su Urania, tre anni prima, con quello fedele all'originale.

Premesso questo, è ora il momento di analizzare, più approfonditamente, la parte fumettofila del film.

Marcello Poletti (Marcello Mastroianni), il cui fumetto preferito scopriamo presto essere L'uomo mascherato (The Phantom), è soggetto a continui pignoramenti a causa delle pretese della ex moglie. Arriva così anche il momento doloroso del sequestro dei "classici", una collezione di fumetti il cui pezzo forte, ci viene detto nel film, è un Gordon nel regno di Aura del 1935, che non viene però mostrato. Si tratta in realtà di un albo inesistente, giacché l'unico albo di Gordon pubblicato in Italia nel 1935 (da Nerbini) è Il razzo celeste del dottor Zarro, che raccoglie le prime tavole (dal 7-1-1934 al 9-9-1934) dell'eroe di Alex Raymond. Siamo quindi in zona pseudobiblion.

A essere invece mostrati nel film, con dettagli ben riconoscibili, sono gli albi delle edizioni Fratelli Spada (con L'uomo mascherato e Mandrake) e Cenisio (però, chissà perché, solo con due titoli del suo scomparto comico: Tom e Jerry e Silvestro).




In più è possibile scorgere, relegati nell'angolo superiore di sinistra della prima immagine, il numero 3 de Il magnifico Britton, collana di fumetti di guerra apparsa in 14 numeri tra il 1965 e il 1967, e, mi pare, un Pantera Bionda di assai difficile identificazione.

Va inoltre ad aggiungersi, in chiusura della scena del sequestro, al succitato pseudobiblion uno pseudotopos. Olga (Elsa Martinelli), la nuova compagna di Marcello Poletti, ordina per telefono un nuovo arredamento, in stile neogotico, con cui sostituire quello appena sequestrato, e veniamo così a sapere che la loro casa si trova sul Lungotevere Fellini.

Ma non sono neanche, quelli fin qui citati, i soli fumetti a fare una comparsata nel film. In una parte precedente del film era già stato mostrato, in mano prima alla vittima Marcello Poletti, poi alla sua cacciatrice Caroline Meredith (Ursula Andress), il numero 157 del bimestrale Adventures in the Unknown, del giugno 1965, edito dalla ACG (American Comics Group).




A parte questa serie di divertenti curiosità, del film salvo per il resto poco più che le scenografie e i costumi, in riuscita sintonia con certo tipico gusto pop e psichedelico degli anni '60.


* * *


Torno adesso, dopo questo excursus cine-fumettistico, in piena zona "bellissimi", con l'anno 1966, che ho scelto di commemorare con ben due titoli. Non soltanto per la mia indecisione tra il proporre l'uno o l'altro, ma anche perché, per quanto lontanissimi tra loro sotto ogni altro aspetto, i due film sono accomunati dal dettaglio, non così comune nel cinema mainstream di quegli anni, di includere entrambi la rappresentazione di una cerimonia pagana.

1966 - Andrej Rublëv di Andrei Tarkovsky

Paese di produzione: CCCP; durata: 3h 25min; genere: Biografico, Drammatico, Storico; B/N e colore; prima programmazione italiana: 28 settembre 1972.

La biografia per immagini del più celebre e celebrato pittore di icone di tutti i tempi, Andrej Rublëv (1360-1430), canonizzato Santo della Chiesa ortodossa nel 1988.

Più bellissimo di così si muore. Del resto, è un Tarkovsky. Che è un po' come dire di un quadro che è un Rembrandt o un Van Gogh.

Della vita del pittore russo al centro del film si sa in realtà pochissimo e non c'è dubbio che Tarkovsky e il suo co-sceneggiatore Andrey Konchalovskiy abbiano dovuto lavorare molto di fantasia per riempire le lacune. Un po' come aveva fatto, prima di loro, un altro russo, lo scrittore Dmitry Merezhkovsky (1866-1941) trattando nel suo romanzo La rinascita degli dei la vita di Leonardo sullo sfondo di un Rinascimento in piena resurrezione del paganesimo.
E dicevo appunto, più sopra, della cerimonia pagana messa in scena nel film. La prima parte potete visionarla in questo estratto che ho trovato su youtube:




Mentre nel seguito si vede un gruppo di uomini e donne nudi che fanno scorrere sulla corrente del fiume, tra due file di persone, una sorta di barca-bara con all'interno una statua sormontata da una candela accesa, fino a un cavallo bianco.



1966 - Operazione diabolica (Seconds) di John Frankenheimer

Paese di produzione: USA; durata: 1h 46min; genere: Fantascienza, Thriller; B/N; prima programmazione italiana: 4 febbraio 1967.

E questo è un Frankenheimer. Non esattamente il mio genere di regista, ma comunque uno che sa il fatto suo e che in questa sua affascinante creatura affronta in modo secondo me impeccabile e avveniristico una storia con tutte le carte in regola per piacermi. E, detto fra parentesi, con simili credenziali, lo avrei visto molto bene alla prova anche su La settima (o decima) vittima.

La vicenda ha a che fare, stavolta, con un'organizzazione segreta che offre a un uomo sposato, con figlia e anzianotto di nome John Randolph (Arthur Hamilton), un possibile riscatto dalla mediocrità del suo vivere quotidiano, grazie a un cambio radicale di identità comprensivo di una plastica facciale. Che poi anche in questo caso valga la regola del "non è tutto oro quel che luccica", credo sia abbastanza facile da immaginare...
In quanto al cambio di identità, quanto sia radicale potete verificarlo di persona mettendo a confronto il prima e dopo l'operazione, quando all'impiegato di banca Randolph/Hamilton (foto in alto) succede sullo schermo Rock Hudson nei panni del pittore Antiochus Wilson (foto in basso):




Mentre se il film sarebbe o no comparso in questo meme anche senza la famosa scena della cerimonia pagana, non so dirlo. Cerimonia per l'occasione esplicitamente bacchica e mostrata, nella sua interezza, in questo secondo estratto video da youtube.




Ancora un paio di note, prima di chiudere: primo, le scene di nudo che avete appena visto non passarono, come prevedibile, la censura della MPAA nel 1966, e furono ripristinate per la prima volta, su laserdisc, nel director's cut del 1996; secondo, di questo film si è occupata una volta anche Kukuviza nel suo blog Cinecivetta, nel post dal promettente titolo Operazioni chirurgiche anni '60.


Mancano ancora all'appello, a questo punto, solo due film e tre anni (1967, 1968, 1969). Non so ancora bene come mi regolerò al riguardo, ma arrivederci comunque qui, tra non molto...


* * *


Nell'immagine di apertura del post: l'attore Massimo Serato in un fermo immagine del film La decima vittima di Elio Petri (1965).

Bellissimi coetanei: I miei dieci film degli anni '60 (meme cinematografico) /3

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Se la seconda parte del mio percorso in questo meme (o tag) ideato e lanciato dal blogger Miki Moz con il suo post Bellissimi coetanei (i miei dieci film preferiti del 1983). era caratterizzata, nella sua prima metà, dal fumetto classico, questa terza, nella seconda metà del post, la fa da padrone il fumetto nero italiano, con protagonisti i famigerati personaggi con la "k" nel nome, all'inizio (Kriminal, Killing), nel mezzo (Zakimort) o alla fine (Diabolik, Satanik).
Vi ricordo soltanto, ancora una volta, prima di passare ai film in elenco, che questa versione del meme è quella da me riadattata, nei modi e per le ragioni che ho spiegato nelle righe che introducono la prima parte dell'elenco, mentre per la versione originale vi rimando al link in alto al blog Moz O'Clock.


Bellissimi coetanei Parte III: 1967-68


1967 - Io sono curiosa (Jag är nyfiken - en film i gult) di Vilgot Sjöman

Paese di produzione: Svezia; durata: 2h 01min; genere: Drammatico, Erotico, Documentario; B/N; prima proiezione italiana: Marzo 1969.

Una ragazza svedese di nome Lena abita con il padre in un piccolo appartamento di Stoccolma. Curiosa di tutto, raccoglie ogni genere di dati attraverso delle prove test, da lei elaborate e messe in pratica, consistenti in interviste, esperimenti relazionali, ecc. Conserva poi tutto nella sua stanza, in un gigantesco schedario che si allunga ormai fino al soffitto. 

Film profondamente legato ai miei trascorsi svedesi e che, anche per questo, entra di diritto tra i miei "bellissimi" dei '60, con accompagnamento di fanfare e rulli di tamburo.
Ufficialmente considerato il primo film mainstream a mostrare un nudo integrale maschile, si spiega anche con questa ragione la cattiva fama che la pellicola si è guadagnata nello scorcio finale del suo decennio di produzione. In vari paesi, Svezia compresa.

Dettaglio di copertina del magazine americano Evergreen Review #56 (July 1968).


Uscito nelle sale italiane nel marzo 1969, è sequestrato nello stesso mese su tutto il territorio nazionale, su ordinanza del sostituto procuratore Angelo Dore, per le sue esposizioni di "sequenze di rapporti sessuali e di nudi femminili e maschili, lesive del comune senso del pudore". Se e quando abbia poi ripreso a circolare nelle nostre sale, non sono riuscito a scoprirlo (neanche dopo la consultazione di quattro opere in cartaceo, di cui due specifiche sulla censura in Italia). Forse non significa nulla, ma merita comunque citare che l'Editoriale Corno, nel proporre nel 1974 ai lettori italiani la storia di Spider-Man A Monster Called Morbius (Amazing Spider-Man # 101, Oct. 1971), traduce correttamente il titolo americano I am Curious in Io sono curiosa, e senza sentire la necessità di ricorrere a possibili titoli di riserva a noi più noti.

Dalla pagina 3 di Un mostro chiamato Morbius (L'Uomo Ragno n. 102, 28 marzo 1974).
Testi: Roy Thomas; disegni:Gil Kane; chine: Frank Giacoia.


Dubito in ogni caso che senza l'esplicita prestazione erotica dell'attrice protagonista Lena Nyman il film avrebbe potuto affermarsi al di fuori dei confini svedesi, con il suo farraginoso alternarsi di scene recitate e spezzoni di interviste a gente di ogni tipo, indifferentemente famosa o comune. Tra i personaggi più noti Martin Luther King, intervistato durante la sua visita a Stoccolma del 1966, e il politico socialdemocratico Olof Palme, futuro premier svedese dal 1969 al 1976 e dal 1982 al 1986, quando fu assassinato all'età di 59 anni. Palme fu tra l'altro anche oggetto, nel corso della sua carriera politica, di una richiesta ufficiale di dimissioni proprio a causa della sua partecipazione alla pellicola di Vilgot Sjöman.

Lena che si dà allo yoga nella campagna svedese è una delle scene stra-cult del film Io sono curiosa.


Nel 1968 il film vede un seguito, sempre a firma di Sjöman e sempre con Lena Nyman nei panni della protagonista: Jag är nyfiken – en film i blått (Io sono curiosa - un film in blu), a completare con il blu i colori della bandiera svedese, dopo che nel titolo originale del primo film era compresa la specifica "en film in gult" (un film in giallo).
Questo seguito, rispetto al primo molto attenuato nella componente erotica, per favorirne la diffusione internazionale, non vedrà mai nessun tentativo di distribuzione nel circuito delle sale italiane.


* * *


1968 - La bambinaia  di Mario Monicelli (Capriccio all'italiana, segmento 1)

Paese di produzione: Italia; durata: 05min; genere: Commedia; Colore.

La bambinaia di Mario Monicelli è il primo, e uno dei due più brevi, dei sei cortometraggi che vanno a comporre il film-mosaico Capriccio all'Italiana. Il regista sceglie di inserirsi nel dibattito, acceso in quegli anni, sull'influenza dei fumetti neri, i cosiddetti fumetti con la "k", sul costume e la società, e lo fa con intenti chiaramente grotteschi, sottolineati dall'età esageratamente piccola dei lettori protagonisti dell'episodio, e irridenti nei confronti di certo perbenismo.
La bambinaia teutonica interpretata da Silvana Mangano sorprende il gruppo di bambini di buona famiglia che le è affidato immerso nella lettura di fumetti vari, tra i quali risaltano quattro dei titoli neri più famosi  e discussi del periodo: Kriminal, Satanik, Sadik e Diabolik. Gli albi mostrati nel film risalgono tutti al maggio 1966 e sono, nell'ordine, Kriminal n. 46: Il gioco del più, unico con la copertina mostrata in primo piano (fig. 1), Sadik serie III n. 6: La mummia (fig. 2), Satanik n. 35: Il tempio di Giove (fig. 3) e, a malapena distinguibile nell'immagine, Diabolik anno V n. 10: La notte dei delitti (fig. 4).

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

Fig. 4


La bambinaia, tutta d'un pezzo com'è, inorridisce alla vista e comincia così a sequestrare gli albi e a gettarli nella piscina del giardino, a sommo sconforto di ogni moderno collezionista che attenda alla visione del film.
Spassoso in ogni caso il momento in cui uno dei bambini sventola sotto gli occhi della bambinaia un albo Marvel americano (in lingua inglese!) chiedendogli se quello vada invece bene come lettura. Per la cronaca, si tratta di The Avengers numero 28, Among Us Walks... A Goliath!, del maggio 1966.

Fig. 5 - Pure questo? Pure questo non va bene?


Ma niente da fare... l'irremovibile bambinaia teutonica ha in mente letture più sane ed educative, e in particolare le Fiabe di Perrault, che inizia a leggere ai bambini, con effetti su di loro che sono però facilmente deducibili dall'immagine riprodotta qui sotto. Il corto si chiude su un pianto a dirotto generalizzato.

Fig. 6


1968 - Il mostro della domenica  di Steno (Capriccio all'italiana, segmento 2)

Paese di produzione: Italia; durata: 23min; genere: Commedia; Colore.

Anche Il mostro della domenica di Steno, secondo segmento di Capriccio all'italiana, è all'insegna del fumetto nero. L'anziano anonimo signore interpretato dal grande Totò, alla sua penultima apparizione sullo schermo (l'ultima sarà nel quarto corto di questo stesso film, Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini), odia i capelloni e la vista di un albo di Diabolik (I sette cobra, Anno V n. 23 del 14/11/1966) che spunta dalla tasca posteriore dei pantaloni di uno dei detestati giovinastri (fig. 7) lo ispira a passare dalle parole ai fatti (fig. 8). Usando l'arte del travestitismo, il neonato giustiziere comincia a ripulire la città di tutti i capelloni, adescandoli ora vestito da prete, ora da gay (fig. 9), ora da prostituta, ecc. Ma la polizia intanto indaga (fig. 10), poi lo arresta, gli fa confessare i suoi delitti e...

Fig. 7

Fig. 8

Fig. 9

Fig. 10


Come ho scritto all'inizio di questa seconda metà del post, il film Capriccio all'italiana si compone di sei cortometraggi, molto vari tra loro per natura e durata. Qui ho presentato i primi due, ma è mia intenzione presentarne ancora un terzo, in un'edizione speciale che troverete a breve sempre qui, su questo schermo.


* * *


L'immagine di apertura del post è un fermo immagine del film Io sono curiosa (Jag är nyfiken - en film i gult) di Vilgot Sjöman (1967).


Che cosa sono le nuvole? - Incantesimi cinemusicali /11

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Questo undicesimo Incantesimo cinemusicale, che segue di circa un anno il precedente, va a completare la mia partecipazione al meme (o tag) di Miki Moz sui nostri Bellissimi coetanei (i dieci film preferiti del nostro anno di nascita), che nel mio caso ho però presentato in una versione diluita che va dal 1960 al 1968.
Approfitto così dell'occasione per un riepilogo dei dieci film da me chiamati in causa nei tre post in cui ho suddiviso il meme:
  1. Il villaggio dei dannati (Village of the Damned, UK, 1960)
  2. Atlantide continente perduto (Atlantis: The Lost Continent, USA, 1961)
  3. Hallucination (The Damned, UK, 1962)
  4. Giovani prede (Mikres Afrodites, Grecia, 1963)
  5. Il giovedì (Italia, 1964)
  6. La decima vittima (Italia/Francia, 1965)
  7. Andrej Rublëv (CCCP, 1966)
  8. Operazione diabolica (Seconds, USA, 1966)
  9. Io sono curiosa (Jag är nyfiken - en film i gult, Svezia, 1967)
  10. Capriccio all'Italiana (Italia, 1968)

Ma se una parte di questi film rientra effettivamente nella categoria dei miei "bellissimi", altri ce li ho fatti rientrare per colmare dei vuoti cronologici, in virtù del loro offrirmi comunque dei motivi di interesse. Dell'ultimo film in lista in particolare, Capriccio all'Italiana, ho presentato nel post precedente i primi due dei sei corti che lo compongono, ma il vero "bellissimo" arriva solo adesso, con il corto di Pier Paolo Pasolini oggetto di questo post, un concentrato di poesia allo stato puro che è anche un capolavoro del cinema. E poiché il segmento si apre e si chiude con Domenico Modugno che canta una altrettanto bellissima canzone, musicata dallo stesso cantante su testo di Pasolini, mi è piaciuto cogliere al volo l'occasione e proporvi finalmente un Incantesimo cinemusicale il cui allestimento meditavo in realtà da tempo.


1968 - Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini (Capriccio all'italiana, segmento 4)

Paese di produzione: Italia; durata: 20min; genere: Commedia; Colore.


Che cosa sono le nuvole? racconta di una messa in scena dell'Otello di Shakespeare in forma di teatro di marionette, con Ninetto Davoli e Totò (alla sua ultima prova d'attore) che interpretano rispettivamente il moro di Venezia e Jago, mentre troviamo Laura Betti nel ruolo di Desdemona, Franchi e Ingrassia in quelli di Cassio e Roderigo, e Carlo Pisacane in quello di Brabanzio.

Le stesse parole della canzone sono una rielaborazione del testo originale di Shakespeare, come vi sarà possibile constatare di persona dalla tabella di confronto che segue i due estratti video, da me realizzata utilizzando come fonte il Meridiano Mondadori del 2001, Per il cinema, oltre tremila pagine tutte dedicate all'opera filmica di Pasolini.




Come si è visto, Modugno interpreta il ruolo dello spazzino, che poi, nel finale del corto (l'estratto video che segue), porterà all'immondezzaio le marionette di Otello e Jago, dopo che il pubblico dello spettacolo, rivoltatosi alla sprovvedutezza del primo e alla malvagità del secondo,le ha rese non più utilizzabili.
Avrete forse anche notato, nel primo video, l'utilizzo di una serie di riproduzioni di opere di Diego Velazquez in forma di poster, abbinate a titoli di spettacoli immaginari. Tra questi, "La terra vista dalla luna", titolo di un altro cortometraggio di Pasolini (dall'opera collettiva Le streghe) sempre interpretato da Totò e Ninetto Davoli.
Anche il secondo video propone un Velazquez: Venere allo specchio. Che è l'unico nudo dipinto dal pittore spagnolo e, di conseguenza, unico sua opera che si addica all'abitacolo di un camion. Mentre la musica conclusiva, che accompagna la scena delle nuvole, è un frammento dell'Adagio dal Quartetto d'archi K.516 di Wolfgang Amadeus Mozart.




Cosa sono le nuvole (Modugno/Pasolini)
Otello
(William Shakespeare)
Ch'io possa esser dannato
se non ti amo
E se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo... così.
III,iii,89-91: Perdition catch my soul,
But I do love thee!
And when I love thee not,
Chaos is come again.

III,iii,444: All my fond love thus do I blow to heaven.
Oh! Malerba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah! ah! tu non fossi mai nata!
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo... così.
IV,ii,66-68:O thou weed!
Who art so lovely fair and smell'st so sweet
that the sense aches at thee, would thou had'st ne'er been born.

III,iii,444: All my fond love thus do I blow to heaven.
Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso
Perciò io mi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.
I,iii,207-8:We lose it not so long as we can smile.
Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l'udito.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo... così.
I,ii,217-8:But words are words; I never yet did hear
That the bruis'd heart was pierced through the ear.

III,iii,444: All my fond love thus do I blow to heaven.

Imparare dalla sinistra: Kathy Martin e il collettivo comunista Josephine James

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Lo stimolo a tornare a scrivere sul blog, dopo una così lunga pausa, poteva provenirmi solo da un tema forte, qual è nel mio caso l'autobiobibliografia, da me considerata da sempre la colonna portante e la principale ragion d'essere di Cronache del Tempo del Sogno. Più in particolare, torno a parlare di una vecchia collana di libri da edicola che ha già fatto capolino più volte in passato in questo blog, La stella d'oro, formata di 76 volumetti pubblicati dall'editore Arnoldo Mondadori tra il 1965 e il 1968 (più una fugace coda di quattro numeri, usciti nelle edicole nel 1970), concentrandomi però, stavolta, solamente su una delle serie pubblicate all'interno della collana, quella relativa al ciclo di storie con protagonista Kathy Martin, infermiera di professione e investigatrice per caso. La ragione di questa mia scelta? L'essermi io trovato coinvolto, in giovanissima età, nella lettura di alcune storie del ciclo.

Sono tredici i volumi che formano in origine la serie Kathy Martin Stories, tutti pubblicati in America, tra il 1959 e il 1965, nei Golden Books, mentre la mondadoriana La Stella d'oro ne ha presentati in traduzione italiana sette (nei numeri 5, 6, 17, 18, 40, 60, 69 della collana), corrispondenti alle prime cinque storie di Kathy Martin, più l'ottava e la nona. Per quel che mi è dato ricordare, tutto iniziò per me da La miniera fantasma (La stella d'oro n. 6), che presentava, nel giusto ordine, il secondo volume della serie originale, Junior Nurse (A Kathy Martin Story #2). Il titolo italiano, così variato, ebbe senza dubbio un ruolo importante nel convincermi all'acquisto del piccolo volume, giacché trovo a dir poco difficile immaginare che un volume intitolato L'apprendista infermiera, o qualcos'altro del genere, avrebbe potuto ugualmente finire nelle mie mani. E neanche nulla indicava, da nessuna parte, che mi apprestavo a leggere una "serie da ragazze" (Girls' Series), e che ero quindi doppiamente fuori bersaglio: 1) non avevo l'età giusta consigliata (superiore ai dieci anni), 2) non avevo il sesso giusto. Questo in teoria, perché poi, nella realtà dei fatti, la lettura de La miniera fantasma mi appassionò a sufficienza da invogliarmi a voler prima sapere delle "origini" di Kathy Martin e acquistare così il precedente volume della serie, Una cuffia per Kathy (La stella d'oro n. 5) - traduzione, stavolta fedele anche nel titolo, di A cap for Kathy (A Kathy Martin Story #1) - e poi seguirla in Alaska con il volume Infermiera in Alaska (La stella d'oro n. 40) e ancora oltre, fino a La strada del coraggio (La stella d'oro n. 69).

Naturalmente ho anche creduto, per molto tempo, che i libri fossero scritti da Josephine James, come recitavano le copertine, prima che le mie ricerche autobiobibliografiche mi portassero a scoprire che non è esistita nessuna scrittrice con questo nome, sotto cui sono riuniti in realtà tre diversi scrittori, operativi in due fasi distinte della serie. Nella prima fase, relativa ai primi nove volumi, operano in tandem Emma Josephine Gelders Sterne (1894 - 1971) e Barbara Lindsay (1920 - ?), rispettivamente madre e figlia; nella seconda, relativa agli ultimi quattro volumi, il loro amico e parente acquisito Louis Earl Hartman, (1915 - ?), indagato, dal 1957, dal Committee on Un-American Activities of the House of Representatives per sospetta attività comunista clandestina. Le stesse Sterne e Lindsay erano del resto iscritte al Communist Party e molto impegnate nelle cause per l'uguaglianza razziale e i diritti civili.

Nulla di strano in questo, almeno secondo la studiosa di cultura americana Julia Mickenberg, che nel suo libro Learning from the Left: Children's Literature, the Cold War, and Radical Politics in the United States, spiega come le serie fossero destinate a un pubblico puramente popolare e/o molto giovane, erano soggette a un minor controllo governativo rispetto alle altre pubblicazioni librarie e per questo predilette dagli scrittori della sinistra radicale - anarchici, comunisti e socialisti - che vi si rifugiavano volentieri.
Nel caso particolare poi della Artists and Writers Press, la ramificazione della Western Printing che, sotto l’etichetta Golden Press, stampava i Golden Books, i suoi amministratori non erano solo consapevoli delle idee politiche di certi loro collaboratori, ma le condividevano pure in buona parte. E questo permise anche a Louis Hartman di subentrare alla Sterne e alla Lindsay, sempre sotto l'ombrello del nome Josephine James, quando nessun altro editore voleva avere a che fare con lui.
Riguardo invece alle ragioni del cambio di testimone, la principale sembra essere stata la volontà delle due scrittrici di alleggerirsi di una parte del loro carico di lavoro per avere più tempo da dedicare alle battaglie per l'uguaglianza razziale e i diritti civili, in pieno corso nell'America della prima metà degli anni '60.

Emma Gelders Sterne nel 1912
Ma comunque stessero davvero le cose, è indubbio che i rapporti tra al Sterne e al Lindsay da una parte e i curatori della serie di Kathy Martin, gli editor Carolyn "Carrie" Lynch e Pete Borden, dall'altra, fossero cordiali ma non del tutto fluidi. In particolare, in una lettera sopravvissuta da lei scritta in data 16 settembre 1963, Carrie Lynch lamenta una differenza di vedute circa i temi da trattare nelle storie di Kathy Martin e si trova costretta a respingere, per l'ennesima volta, una trama proposta dalle due autrici (per il decimo libro della serie), che lei giudica troppo "cupa", oltre a dover ribadire, dopo sette libri della serie già pubblicati, quali sono i confini del genere: "Questi libri devono essere letture leggere, non troppo serie né classici della letteratura... Devono intrattenere, ma anche essere sobri" e contenere "un po' di romance e un po' di mistero giallo".
La Lynch plaude tuttavia alla "profondità di carattere dei personaggi", superiore a quello che ci si aspetta di incontrare in tale genere di narrativa, così come anche “all’empatia e sensibilità con cui sono trattati i problemi relativi alla conoscenza umana, alle relazioni personali, ai valori, ecc.”, per poi però ripetere che certi argomenti, azioni e comportamenti non sono appropriati. Elencando, tra questi, la morte, la malattia incurabile, la dipendenza da droga, le perversioni, la malattia mentale.
E inoltre:
Né le lettrici si aspettano di trovarvi dentro sermoni, prediche, propaganda, indottrinamenti, inviti ad abbracciare cause o orientamenti politici, sociali o morali. Semplicemente non si aspettano che questi libri propagandino delle cause o provino a convertire qualcuno… E sono sicura che vi sono molte più cose che un potenziale acquirente (genitore o lettrice) non si aspetta di trovare in questi libri (e sa il cielo che io non sto accusando voi di star provando a includere questo genere di cose indesiderate!!!!!!)…

La lettera non dice quale sia il nuovo soggetto incriminato proposto dalle due scrittrici, ma Carrie Lynch ricorda loro che lei, insieme al suo collega Pete Borden, ha già respinto in passato almeno un soggetto sulla tossicodipendenza e uno sulla malattia mentale.
Non è in ogni caso difficile notare come l'enfasi esagerata con cui la Lynch si sforza, nella sua lettera, di rassicurare la Sterne e la Lindsay (con sei punti esclamativi) sia in realtà un modo affettuoso di sottintendere l'esatto contrario: che è precisamente a loro due che è indirizzata la sua critica. E in particolare alla Sterne, che al momento di dare avvio alla serie di Kathy Martin aveva già al suo attivo un buon numero di libri per l'infanzia, incluso alcuni Golden Books.

Quanto comunque il gioco di sponda tra i due editor e il tandem di scrittrici dovesse essere giocato sugli equilibrismi e su un qualche tipo di connivenza da parte dei primi, lo rivela (tra i volumi che ho letto) l'ottavo libro della serie: Adventure in the Sierra (Avventura nella Sierra, La stella d'oro n. 60), che narra una storia cupa e dominata dalla costante della morte, che finisce anche per guadagnarsi il titolo di un capitolo (il più denso e pregnante del libro): "L'ombra della morte". Capitolo in cui tra l'altro le due autrici non mancano di esibirsi in un giochetto dal sapore quasi metaletterario, scrivendo, a chiusura di un lungo paragrafo, che "l'ombra della morte non deve posarsi sull'infanzia e sulla speranza". Che altro non è, in ultima analisi, se non uno dei precetti a cui doveva teoricamente sottostare una serie come quella di Kathy Martin e che in questa sua ottava avventura va vistosamente infranto.

Ma che Kathy Martin Stories non sia proprio una serie come le altre lo svela forse più di ogni altra cosa l'esser presto diventata la più amata dai lettori (lettrici, in teoria) tra tutte quelle pubblicate nei Golden Books. Perché se era probabilmente vero, come scrive Carrie Lynch, che genitori e giovani lettrici non si aspettavano di trovarvi un gran numero di cose, era forse altrettanto vero che erano contenti e contente di trovarvele, se e quando capitava.

Emma Gelders Sterne nel 1970
E se il motivo principale che portava Emma Josephine Gelders Sterne e Barbara Lindsay a scrivere la serie era guadagnare soldi facili, nel frattempo che scrivevano, sempre per un pubblico di giovani e giovanissimi, libri di argomento più impegnato ma meno redditizi, è facile percepire, dalla lettura delle storie, come si dedicassero in realtà con passione ai personaggi e alle situazioni, anche provando ogni volta a spingere un po' più in là i confini di ciò che era richiesto o accettabile in quel genere di narrativa. Secondo Faith Lindsay, figlia di Barbara e nipote di Emma, il punto della questione era che il collettivo Josephine James (La Sterne e la Lindsay prima e Hartman dopo) non demordeva mai dal tentativo di contestualizzare le storie di Kathy Martin e metterle al passo con le nuove istanze sociali degli anni ’60.
Proprio come scrive, ancora Julia Mickenberg, a proposito dell'anticonvenzionalità della serie:
Kathy Martin e le sue amiche – l’afroamericana Faith Channing, l’ispanoamericana Jenny Ramirez e la nippo-americana Yo Nakayama – sono giovani donne più interessate a inseguire le loro carriere che a metter su famiglia (e quando si sposano in genere insistono nel voler continuare a lavorare). E si trovano a vivere improbabili avventure che sfidano le convenzioni tradizionali e il sessismo tipico della narrativa di serie, al tempo stesso che nei libri sono però utilizzati i convenzionali requisiti di giallo e romance.

Come forse vi sarete accorti, le cose cambiano, e quella che un tempo era l'anticonvenzionalità è diventata ciò che oggi è, in una qualunque serie, la convenzione.


* * *

Fonti utilizzate

Julia L Mickenberg, Learning from the Left. Children's Literature, the Cold War, and Radical Politics in the United States. Oxford University Press, USA, 2006.

Julia L Mickenberg, Nursing Radicalism: Some Lessons from a Post-War Girls' Series. In: American Literary History Vol. 19, No. 2 (Summer, 2007), pp. 491-520.

Emma Gelders Sterne. In: https://www.bhamwiki.com/w/Emma_Gelders_Sterne

United States, Congress House, Committee on Un-American Activities, Proceedings Against Louis Earl Hartman. August 23, 1957.

L'immagine di apertura del post è un dettaglio della copertina di Stan Klimley per il volume African Adventure (A Kathy Martin Story #13, Golden Books 1965). Clicca sull'icona a lato per ala visualizzazione intera.

Trilogia delle Madri /18: Le Tre Madri di Lilith Samael (The Editor)

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Siamo tutti montatori della nostra realtà.
(Rey Ciso, the editor)

In epoca romana i cosiddetti "editor" erano considerati un collegamento con l'aldilà. Erano soliti evocare e riportare alla luce. Da qui l'origine latina della parola "editor".
(Father Clarke, the priest)

* * *

Nota preliminare: La pubblicazione di questo post era prevista per una fase successiva della serie sulla Trilogia delle madri. Ho deciso di anticiparla a causa del poco tempo che ho a disposizione in questo periodo per il blog e che fa sì che l'elaborazione della nuova parte relativa a "Verso il Mar nero", sebbene sia in una fase già abbastanza avanzata, proceda con ancor più lentezza del solito.

* * *

Chi ha dimestichezza con il genere cinematografico noto oltreoceano semplicemente come "giallo", e che si riferisce in particolare ai thriller erotici italiani dei decenni 1960-'80, ne conosce bene le regole generali: una serie di delitti efferati, spesso a sfondo sessuale; una lista di indiziati, tra i quali non è per forza detto si annidi l'assassino; l'avvio di un indagine, condotta da un ispettore o commissario di polizia con metodi più o meno ortodossi e che non sempre la vede lunga; la scoperta dell'assassino, spesso a opera di uno degli stessi indiziati. Il tutto interpretato da attori e attrici con le facce e i corpi giusti e offerto al pubblico pagante con titoli di richiamo o supposti tali. E' questa la materia cui attinge a piene mani, allo stesso tempo oltraggiando e omaggiando, il film canadese del 2014 The Editor, prodotto, sceneggiato, diretto e interpretato dagli specialisti di B-movies Adam Brooks e Matthew Kennedy.

Da chiarire subito è che "editor" si traduce in questo caso "montatore", che è il lavoro di Rey Ciso (Adam Brooks), "forse il miglior montatore che il mondo abbia mai avuto" ma ora ridotto - dopo aver perso quattro dita di una mano nel tentativo di montare il film più lungo del mondo, La vita di Umberto Fantori (Dan Bern) e averle sostituite con una scomoda protesi di legno - a occuparsi di B-movies.
The Editor è infatti ambientato in un'epoca, che alcuni dettagli del film fanno supporre sia i primi anni '80, in cui il montaggio cinematografico si faceva ancora con il taglia e incolla manuale.

Film a suo modo molto filosofico, come fanno intendere anche le due citazioni con cui ho scelto di aprire il post, la trama di The Editor è in realtà non molto di più del risultato di un sofisticato, e appassionato, collage di scene "copiate" da una miriade di film di genere (ma non solo) e montate insieme, come fosse esso stesso uno dei prodotti del lavoro del suo protagonista (e in effetti i crediti finali nominano Rey Ciso come editor del film).

Una lista (comunque parziale) del sito IMDB enumera tra le pellicole citate/sbeffeggiate, le seguenti:

Lo strano vizio della signora Wardh (1971)
Giornata nera per l'ariete (1971)
La tarantola dal ventre nero (1971)
A Venezia... un dicembre rosso shocking (1973)
Amarcord (1973)
Autostop rosso sangue (1977)
Inferno (1980)
Shining (1980)
...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà (1981)
Quella villa accanto al cimitero (1981)
Lo squartatore di New York (1982)
Videodrome (1983)
Murderock - Uccide a passo di danza (1984)


"Voglio una donna! Voglio una donna!".
Dal film Lo specchio e  la ghigliottina di Umberto Fantori, con Josephine Jardin e Rey Ciso.


In effetti, ad averne tempo e voglia, non c'è quasi sequenza del film che non possa diventare oggetto di analisi e di ricerca di ulteriori fonti, ma qui interessano (per fortuna) solo quelle di matrice più prettamente argentiana e in particolare relative alla Trilogia delle Madri. Che poi sono alla fin fine le dominanti in The Editor, come promesso fin dai titoli di testa, che accreditano il nome di Claudio Simonetti tra le firme della colonna sonora, e dall'utilizzo, fin dai minuti iniziali, di filtri colorati intesi a riprodurre i cromatismi di Suspiria e Inferno, primo e secondo capitolo della Trilogia argentiana. E a questo punto, se io fossi l'inimitabile Cassidy, vi direi di tenere senz'altro aperta la casella sul titolo Inferno...


La bicromia rosso-blu (rame-piombo), dominante nel film alchemico Inferno (Dario Argento, 1980),
qui ripresa in una delle scene iniziali di The Editor.


Bullizzato a causa del suo handicap dalla moglie, l'attrice dismessa Josephine Jardin (Paz de la Huerta), oltre che, pare, da buona parte del resto del mondo, la vera gatta da pelare comincia per il montatore Rey Ciso quando gli interpreti principali della pellicola su cui è al lavoro - la nuova opera di Francesco Mancini (Kevin Anderson), già regista di film quali Tarantola e Il gatto dalle lame di velluto - finiscono assassinati uno dopo l'altro e lui, causa l'assassino che firma i propri delitti mozzando quattro dita alle sue vittime, diventa il principale indiziato. Sulle sue tracce, ovvero su quelle dello psicopatico assassino, si mette l'ispettore di polizia, psicopatico a sua volta, Peter Porfiry (Matthew Kennedy).


L'ispettore di polizia Peter Porfiry naviga nell'occulto in una delle scene di The Editor
ispirate a La terza Madre (Dario Argento, 2007).


Questa in estrema sintesi la trama del film, che non rende in alcun modo giustizia alla sua complessità e ricchezza di invenzioni, talvolta divertenti e spesso orripilanti ma mai banali, a dispetto del suo metter volutamente su schermo la sagra degli stereotipi. E se, come detto, quasi ogni sua sequenza meriterebbe un discorso a sé, qui voliamo direttamente, o quasi, all'ultimo terzo della pellicola, quando, dopo gli pseudo-film, entrano in scena gli pseudobliblia. A interessare noi è quello già evidenziato nell'immagine di apertura del post, Three Mothers di Lilith Samael, che compare la prima volta in The Editor nelle mani della moglie di Rey Ciso, l'attrice dismessa, e frustrata, Josephine Jardin.




Il libro in questione fa ovviamente il verso a The Three Mothers di Emilio Varelli, l'architetto-alchimista progettatore delle tre dimore delle Madri, mostrato da Dario Argento nel film Inferno. Mentre il nome della sua autrice (o coppia di autori?) altro non è che la somma dei nomi Lilith e Samael, coppia di demoni ebraici dalla cui unione nacque, secondo una tradizione occulta*, Tubal-Cain, non a caso considerato il primo chimico della storia dell'umanità.

Sempre da Inferno attinge inoltre una delle scene finali di The Editor, in cui l'ex attrice Josephine Jardin, immedesimatasi nella figura di Mater Tenebrarum, perisce come quest'ultima tra le fiamme, mentre proclama che il suo nome è "Morte! Morte! Morte!...".




Sono questi i principali "prelievi", anche se non i soli, dalla Trilogia delle Madri presenti in The Editor, un film entrato di diritto tra i miei Kult minori e del quale voglio, prima di chiudere, segnalare almeno altri due suoi tanti piccoli tesori: la presenza tra gli interpreti, nel ruolo dello psichiatra pazzo Dr. Casini, di un monumento del nostro cinema qual è Udo Kier, e la nota che l'artista cinematografico Graham Humphreys, già autore dei poster di The Evil Dead e Nightmare On Elm Street, ha appositamente realizzato per il film ben quattro poster relativi a quattro pellicole immaginarie: The Mirror and the Guillotine; The Cat with the Velvet Blades; Color Me Sin; Tarantola.


Da sinistra a destra: Rey Ciso, il montatore; la sua assistente Bella (Samantha Hill); il poster di
The Cat with the Velvet Blades. Si intravede, sulla parete di fondo, anche il poster di Tarantola.


* * *


Genesi, 4:22 lo dice invece figlio di Lamech e Zillah, e fratello di Naamah.

Trilogia delle Madri /18: Verso il Mar Nero /5

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E' tempo di riprendere, dopo l'intermezzo ricreativo dedicato al film The Editor, la progressione ufficiale di questa serie di articoli, e insieme il lento ma inesorabile cammino verso il Mar Nero. Più in particolare, questo post porta finalmente a conclusione il trittico relativo alla tragedia Eumenidi di Eschilo, ispiratomi, come forse ricorderete, da una frase del Supiria de Profundis di Thomas De Quincey, che non sarà male ripetere qui ancora una volta:
Erano queste le Semnai Theai, o Dee Sublimi, erano queste le Eumenidi o Graziose Signore (così chiamate dall’antichità in trepida propiziazione) dei miei sogni di Oxford.

L'analisi approfondita di Eumenidi - accompagnata da quella di altre parti dell'Orestiade e dal confronto con il brano di Plutarco tratto dalla Vita di Marcello e con le posteriori tragedie di Sofocle e Euripide - mi ha appunto permesso di mostrare fin qui quanto si assomiglino, per caratteristiche e funzioni, le due triadi di divinità femminili delle Madri e delle Erinni (o Furie). Abbastanza, senza dubbio, da permettere a De Quincey di giocare con gli appellativi "Semnai Theai" e "Eumenidi", sebbene sia anche vero che quel "dei miei sogni di Oxford" in chiusura di citazione, giochi del tutto a sfavore della volontà, da parte dello scrittore inglese, di una loro totale identificazione. Va inoltre ricordato che in De Quincey l'accostamento tra le due triadi è facilitato dal suo appropriarsi, nel capitolo del Supiria de Profundis in cui presenta la sua versione delle Madri, Levana e le "Nostre Signore del dolore", del principio eschileo della sofferenza come madre di saggezza.

Chiarito questo, riprendo ora il discorso sulla tragedia Eumenidi da dove lo avevo lasciato, cioè dall'assoluzione finale di Oreste nel processo che lo vedeva imputato di matricidio. Assoluzione decisa dal tribunale dell'Areopago ma con l'intervento fondamentale della dea Atena, che dopo averlo insediato lo presiede in quella prima seduta. E' infatti la dea a garantire, con il suo voto finale, il perfetto equilibrio tra accusa e difesa e la conseguente assoluzione del matricida.

Il giudizio e l'assoluzione di Oreste non esauriscono tuttavia affatto il compito del tribunale dell'Areopago. La dea Atena ne decreta anzi un'ideale perpetuazione in tutti i tempi a venire (Eumenidi, 681-707):
Ascoltate questo decreto, popolo dell'Attica,
voi che giudicate il primo processo per sangue versato.
Anche nel tempo a venire resterà sempre al popolo di Egeo
questo Consiglio di giudici. Questo è il colle di Ares,
sede e accampamento delle Amazzoni, quando vennero in armi
per odio contro Teseo, e innalzarono qui, contro l'Acropoli,
una nuova acropoli, irta di torri, e sacrificavano ad Ares. Qui
la reverenza dei cittadini e la paura, sua consanguinea,
li tratterrà, di giorno, come di notte, dal commettere ingiustizia;
a meno che i cittadini stessi non stravolgano le leggi:
l'acqua limpida, corrotta con il fango, non sarà più bevibile.
Ai cittadini consiglio di coltivare e riverire
una vita non troppo libera, non troppo dominata
e di non cacciare dalla città tutto ciò che suscita paura:
chi, tra i mortali, può essere giusto, se non teme nulla?
Se rispetterete secondo giustizia questa maestà,
avrete un baluardo a salvezza della vostra contrada
e della città: nessuno ne ha di uguali, non tra gli Sciti,
né nella terra di Pelope. Io fondo un tribunale
incorruttibile dal denaro, venerando, inflessibile, presidio della terra,
vigile a difesa di chi dorme. [...]

Trapela qui, segnatamente nei versi 690-9, il forte pessimismo eschileo sulle inclinazioni naturali dell'essere umano, che lasciate senza redini tendono irrimediabilmente verso l'ingiustizia. Per questo non è neppure pensabile fondare una dike davvero giusta senza un intervento divino di qualche tipo. Compito dei legislatori sarà poi quello di legiferare senza mai perdere di vista il principio divino della giustizia, nella consapevolezza che qualsiasi intervento meramente umano può solo essere peggiorativo.
Così come l'elemento "pauroso" (deinòn) del divino, se utilizzato nella giusta misura, senza eccedere, è garanzia di buongoverno della città. In Eumenidi, è l'assimilazione delle Erinni nel culto religioso cittadino a garantire contemporaneamente l'assimilazione del deinòn e a creare l'equilibrio tra le due diverse forze personificate da Atena e Erinni - olimpica e patriarcale la prima, ctonia e matriarcale la seconda.


Rembrandt Harmensz. van Rijn, Pallade Athena o Figura con armatura, 1664-65
Ma è anche sempre preferibile "lasciare a piede libero un colpevole, che rischiare di condannare un innocente", secondo la linea garantista a cui si attiene la dea nel fondare il tribunale dell'Areopago. Il che si traduce, all'atto pratico, nella regola che, in caso di parità di voti nel verdetto di colpevolezza o innocenza, si manda l'imputato assolto. E il tribunale dell'Areopago è appunto strutturato in modo da rendere possibile la parità di giudizio.
Nel caso specifico di Eumenidi, è il voto finale della stessa Atena che permette di raggiungere la parità nella conta dei giudizi e quindi far pendere la bilancia della giustizia a favore di Oreste. Lo stesso meccanismo permette inoltre alle Erinni di uscire dalla contesa sconfitte ma non umiliate, e la scaltra Atena ha così più facile gioco nel tener loro testa nel successivo confronto dialettico, quando le dee primigenie minacciano per due volte di estendere all'intera città di Atene il trattamento che intendevano riservare a Oreste (E., 781-788):
nuovi dei! Avete calpestato antiche leggi,
le avete strappate dalle mie mani. Ma io, umiliata, infelice, schiacciata dall'odio,
in questa terra phéu! veleno, veleno verserò dal cuore... e da esso una lebbra
che secca le foglie, che non fa nascere figli, - o Dike, Dike! -
dilagando al suolo, scaglierà su questa contrada
contagi che annientano i mortali. Levo gemiti.
Che fare? Ridono di me. Dolore insopportabile
ho patito in questa città.  sciagurate, infelici
vergini figlie della Notte, straziate dal disonore!

E' questo lo scoglio più difficile da superare per Atena, forse l'unico vero scoglio. E la dea per riuscirvi ricorre all'aiuto delle dolci ma penetranti armi di Peíthō, persuasione. Una prima volta e poi (con parole variate di poco) una seconda (alla reiterazione della minaccia in E., 809-821), replica a Erinni, proponendo una sorta di scambio alla pari (E., 792-808):
Ascoltatemi, basta con gravi lamenti.
Non siete state sconfitte: il verdetto è uscito dalle urne
a parità di voti, secondo verità, senza umiliarvi.
Da Zeus erano già venute fulgide testimonianze, e il testimone
era lo stesso che aveva dato il responso:
Oreste non ricevesse danno per quanto aveva fatto.
E voi non scagliate pesante rancore contro questa terra, non furia,
non rendetela infeconda, grondando dai vostri pomoni
gocce di veleno che distruggano i semi con lame spietate.
In piena giustizia, io vi prometto che avrete sedi e recessi sacri in questa terra giusta,
e siederete presso gli altari su troni fulgenti, onorate dai cittadini.

Che il Coro respinge però per altre due volte, con parole sdegnate (E., 837-846 e 870-880):
Io soffrire questo!
Phéu!
Io, dotata di antica saggezza,
abitare in questa terra!
Macchia d'infamia, phéu!
Spiro furia e tutto il mio odio.
Oiόi dá phéu!
Quale spasimo mi trafigge i fianchi?
Ascoltami, io madre Notte!
Dagli antichi onori,
inganni invincibili di dei
mi ridussero a nulla.

Solo quando la dea della sapienza spinge infine l'arma della propria persuasione al punto di riconoscere alle più anziane Erinni una saggezza superiore alla propria, le antiche dee figlie di Notte accettano di deporre le armi, in cambio della promessa di onori e di una dimora "immune da ogni patimento".


Leo von Klenze, L'Acropoli di Atene (1846).

Assistiamo, in definitiva, in Eumenidi, a una sintesi, ottenuta attraverso l'intermediazione di Atena (le cui prerogative si distaccano qui notevolmente da quelle del fratello Apollo, con la sua inalterabile intransigenza), tra un'antica e una nuova forma di dike, che instaura, nel tessuto sociale della Polis, un pur precario equilibrio tra l'antica e la nuova forma della giustizia. Con il nome cambiato in Eumenidi, le Erinni sono ora domate, senza però essere per questo completamente spogliate delle loro antiche prerogative. La nuova funzione che Atena richiede loro è infatti a un tempo creativa e distruttiva (E., 903-915):
Quanto possa portare a vittoria senza macchia,
e sorga dalla terra, dalla rugiada marina e dal cielo;
e che i soffi di venti che spirano sotto il sole terso
raggiungano questa contrada, e il frutto della terra e delle greggi
non si stanchi, con il trascorrere del tempo, di affluire in rigoglio ai cittadini,
e sia integro il seme dei mortali. Ma stermina gli empi.
Io amo, come il giardiniere ma le sue piante,
che la stirpe di questi uomini giusti
fiorisca senza dolore. E' questo il tuo compito. E io
non consentirò che nelle gare gloriose della guerra
questa città, vittoriosa, non mieta onore tra i mortali.

Avviene così che le Erinni, divenute le "graziose signore" di cui parla De Quincey, si tramutino da maledizioni a benedizioni per i buoni cittadini e per gli amici di Atene, mentre conservano la loro natura di dee terribili e paurose per tutti gli altri.
Segue a questo punto nella tragedia un prolungato scambio di onori e auguri, tra la dea olimpica e le anziane figlie di Notte, fino al suo chiudersi, insieme a all'Orestiade tutta, con la scena di un corteo cerimoniale che accompagna le Eumenidi nella loro nuova dimora, un santuario nel sottosuolo dell’Acropoli di Atene (E., 1021-1031, con una lacuna nel testo originale):
Apprezzo questi voti augurali,
e alla luce di fiaccole fulgenti
vi scorterò giù, nei luoghi di sotto terra,
insieme con queste ancelle,
custodi rituali del mio simulacro.
Onorate queste deità ammantate di vesti purpuree,
e prenda slancio il bagliore della fiamma,
affinché il loro soggiorno benevolo in questa terra
in futuro rifulga nelle gesta di uomini eccellenti.

Anche come Eumenidi dunque, e pur se hanno sostituito le loro vesti nere di sangue raggrumato con altre purpuree, le dee conservano la loro originaria natura sotterranea e i loro riti continuano come prima a essere officiati nelle ore notturne. Con sacrifici senza libagioni di vino e con miele sobrio, come si conviene agli dei inferi.

E Oreste? Oreste farà ritorno alla sua Argo, ora gemellata con Atene, ma per poco. Le Erinni continuano infatti a perseguitarlo ed è di nuovo Apollo a giungergli in soccorso, con un nuovo oracolo: deve ora recarsi sulle rive del Mar Nero, nel Chersoneso taurico (l'attuale Crimea), rubare un'antica statua lignea di Artemide e portarla ad Atene. E' così che un'antica dea barbara fa il suo primo ingresso nel mondo greco e occidentale.


* * *


L'immagine di apertura del post è: Philippe Auguste Hennequin (1762-1833), The Furies or Eumenides chasing Orestes.

Best Heavy Metal Covers /1: Volume 1 - 7 (1977 - 1983)

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Introduzione

In un mio ormai lontano articolo, che si ostina misteriosamente a permanere ai vertici della classifica dei miei post più popolari, 10 serie a fumetti che hanno scandito i miei anni '70, una delle dieci serie citate era il magazine patinato statunitense Heavy Metal, accompagnato tra l'altro dalla stessa immagine riprodotta al punto 1 di questa rassegna di copertine.
Pubblicato per oltre tre decenni dalla National Lampoon e tuttora in vita, sebbene con una struttura editoriale abbastanza diversa da quella delle origini,  Heavy Metal nasce come versione d'oltreoceano della francese Métal Hurlant, sebbene poi nel tempo acquisti una sempre maggiore autonomia di contenuti, e presenta per la prima volta al pubblico americano degli anni '70 fumetti in maggioranza europei, in particolare dell'area mediterranea, francese, italiana e spagnola.

Nel mio caso specifico, la rivista Heavy Metal ha accompagnato il mio percorso di lettore e collezionista di fumetti per due anni e mezzo, dal maggio 1977, data di uscita del primo numero, al novembre 1979, quando la acquistai per l'ultima volta. Il vortice di eventi in cui mi trovai coinvolto in quel particolare periodo della mia vita mi distrasse infatti sia da quella che dal resto delle pubblicazioni estere che seguivo. Solo in tempi abbastanza recenti ho cercato di recuperare il più possibile dei numeri della rivista usciti dopo di allora, sebbene trovandovi ben poco ancora in linea con i miei gusti antiquati. Ma qualcosa comunque c'era e c'è tuttora.

Questa che vi presento oggi è la prima parte di una rassegna di copertine del magazine da me scelte in base a un criterio puramente soggettivo, a cui altri potrebbero legittimamente ribattere con le loro personali scelte. Mi sembra doveroso premetterlo, prima di lasciarvi alla lettura (e visone) di questa mia rassegna, per spiegare il perché dell'assenza di alcuni degli autori più famosi e ricorrenti sulle copertine di Heavy Metal, quali per esempio Luis Royo o Simon Bisley, che non rientrano né tra i miei dieci né tra i miei cento artisti preferiti del settore.

Best Heavy Metal Covers Parte I: Volume 1 - 7 (1977 - 1983)


1. Vol. 1 No. 4 - July 1977 - Jean "Moebius" Giraud: Arzach Rides Again



Colui che è forse, dopo Charles M. Schulz, il più famoso autore di fumetti di tutti i tempi, non avrebbe bisogno di presentazioni. Ma va almeno detto che, con il nome d'arte di Moebius, Jean Giraud (1938-2012) è tra i quattro fondatori, nel dicembre 1974, della casa editrice Les Humanoïdes Associés e, di conseguenza, della rivista Métal Hurlant*. E' per i primi numeri di Métal Hurlant che Moebius crea il primo ciclo di quattro storie con protagonista Arzach (Harzak, Arzak, Harzakc), un girovago solitario che vola, all'apparenza senza meta, in groppa a una sorta di pterodattilo. Il ciclo, riproposto fedelmente nei primi quattro numeri di Heavy Metal, è formato di quattro storie mute di otto pagine l'una, divenute nel tempo celebri per la spettacolarità dei disegni e l'originalità del segno grafico, che farà scuola nel campo del fumetto, del cinema d'animazione e dell'illustrazione. La copertina del numero quattro di Heavy Metal, riprodotta sopra, mostra fronte/retro le due pagine centrali della quarta storia.

* Gli altri tre soci fondatori de Les Humanoïdes Associés sono i fumettisti Jean-Pierre Dionnet e Philippe Druillet, e l'imprenditore Bernard Farkas.

2. Vol. 3 No. 6 (31) - October 1979 - J. K. Potter: Mr. Lovecraft


Jeffrey Knight Potterè un musicista e illustratore contemporaneo, specialista in collage fotografici surrealisti rivelatori del suo spiccato gusto del macabro. Nel 1988 e nel 1994 ha vinto il World Fantasy Award come miglior illustratore del fantastico.
Il trentunesimo numero di Heavy Metal, l'unico che sfoggi una copertina di Potter, è un numero monografico dedicato al celeberrimo scrittore americano Howard Phillips Lovecraft. Presenta storie di vari autori, e tra queste il classico The Dunwich Horror di Alberto Breccia. Ma l'artista che secondo me restituisce meglio le atmosfere del "solitario di Providence"è Jean-Michel Nicollet, in questa breve storia di tre pagine intitolata semplicemente H.P.L. (Click to enlarge and read).


3. Vol. 3 No. 7 (32) - November 1979 - Joe Jusko: Fetch



Joe Juskoè senza dubbio uno dei più noti e apprezzati tra gli odierni illustratori del fantastico. Come per la quasi totalità dei suoi colleghi, anche il suo interesse verte sulla figura umana, specialmente femminile. Caratterizzato nello stile da una "pennellata" fin troppo materica e carica di colore, raggiunge comunque spesso risultati di indubbio fascino. Anche nella produzione a fumetti, come ben testimonia questa scelta di esempi dalla miniserie di Vampirella, Bloodlust (Harris, 1997).


4. Vol. 3 No. 11 (36)- March 1980 - John Bolton: Little Propositions


John Boltonè stato, con Barry Windsor-Smith, uno dei primi disegnatori inglesi a trasferirsi negli Stati Uniti per cercare fortuna nei campi del fumetto e dell'illustrazione. Caratterizzato da uno stile fotografico, negli anni '80 ha lavorato soprattutto per il Marvel Comics Group, quasi sempre in tandem con lo sceneggiatore Chris Claremont, illustrando le storie brevi degli X-Men per X-Men classic e la saga Fantasy Marada, the She-Wolf per il magazine Epic Illustrated, diretto concorrente di Heavy Metal. In seguito si è dedicato soprattutto all'horror, suo genere preferito, collaborando, tra gli altri, con lo scrittore Clive Barker.
Oltre a questa copertina dalle tinte più delicate del solito, Bolton ha realizzato per Heavy Metal anche le sensuali vampire del volume antologico Bad Blood. The Vampire Collection (1993).


  5. Vol. 4 No. 3 (39) - June 1980 - H. R. Giger: The Necronomicon


Come il francese Moebius, anche lo svizzero Hans Ruedi Giger (1940-2014) non avrebbe bisogno di presentazioni, tanto è famoso. Pittore, designer e scultore, ha compiuto escursioni anche nel campo del fumetto (per la casa editrice tedesca Taschen), della musica (come autore di copertine di dischi) e nel cinema (come scenografo e creatore di mostri per film quali Alien e Species), che lo hanno fatto conoscere al pubblico di massa. Il suo strumento privilegiato è l'aerografo, col quale realizza le sue famose commistioni di carne e metallo, spesso costellate di allusioni agli organi genitali maschili e femminili. Alejandro Jodorowsky lo volle come scenografo per il suo progetto incompiuto Dune, perché l'unico artista, nelle sue parole, capace di dar forma all'orrore metafisico.
Giger è stato spesso ospite delle pagine di Heavy Metal. L'immagine qui sotto riprodotta è tratta dalla Gallery del no. 283 e fa sempre parte del ciclo pittorico Necronomicon.


6. Vol. 4 No. 6 (42) - September 1980 - Robert Adragna: It Came From Mount Saint Helens


Robert Adragnaè un illustratore di stampo classico, di solido mestiere, autore di copertine e illustrazioni interne per libri e riviste di fantascienza e horror. La copertina a lato, che sembra uscita da un pulp magazine degli anni '30 o '40, mi risulta essere la sua sola opera realizzata per Heavy Metal.
E' soprattutto noto al grande pubblico, almeno quello di cultura anglosassone, per le copertine della serie Three Investigators (Random House, 1979 – 1985).

7. Vol. 5 No. 8 (56) - November 1981 - Vicente Segrelles: The Mercenary


Altro fumettista e illustratore che utilizza per le sue opere a fumetti uno stile prettamente pittorico, di Vicente SegrellesHeavy Metal ha fatto conoscere in America El Mercenario, definito una volta da Moebius il più bel fumetto del mondo.
Molto apprezzato in Italia, anche da Federico Fellini che cercò di incontrarlo, ma pare senza successo, a causa del carattere schivo e riservato dell'artista, Segrelles è stato anche autore, dal 1988 al 1991, delle copertine della rivista italiana di fantascienza Urania.
Quelle riprodotte qui sotto sono le tre spettacolari pagine d'esordio della serie El Mercenario, apparse sul no. 55 di Heavy Metal.


8. Vol. 5 No. 9 (57) - December 1981 - H. R. Giger: Giger Does Debbie


In questa magnifica copertina, la seconda e ultima di Hans Ruedi Giger su Heavy Metal, il pittore svizzero meccanizza nel suo stile tipico la cantante e attrice Debbie Harry, famosa in quegli anni come frontwoman del gruppo musicale Blondie.
Il titolo dell'illustrazione, Giger Does Debbie, approfitta scherzosamente della grande notorietà, all'epoca, della trilogia XXX con Bambi Woods intestata al personaggio della famelica Debbie: Debbie Does Dallas, Debbie Does Dallas Part II, Debbie Does Dallas III: The Final Chapter.

9. Vol. 6 No. 2 (62) - May 1982 - Richard Lon Cohen, Jon Townley: Spheres


Questa bella copertina alla Dalì è, insieme a un'altra copertina di Heavy Metal (no. 33 del dicembre 1979), una delle pochissime opere riconducibili al duo Richard Lon Cohen e Jon Townley. Per il resto, l'archivio ISFDB elenca a loro nome solo la copertina del paperback Tintagel (Berkley Books 1981) e un'illustrazione per il magazine Omni (1980).

10. Vol. 7 No. 6 (78) - September 1983 - Enrich Torres: Aries


Illustratore versatile, che si adatta a generi diversi, Enrich Torres (o Enrique Torres o Enric Torres-Prat) è soprattutto noto per le cinquantadue copertine da lui realizzate nei decenni 1970 e 1980 per i magazine horror della Warren Publishing di Jim Warren: Creepy, Eerie e in particolare Vampirella. Il soggetto dell'illustrazione di questa copertina è una liberissima interpretazione dell'artista del segno zodiacale dell'Ariete.
Sulle copertine dei numeri 50 (maggio 1981) e 83 (febbraio 1984) di Heavy Metal compaiono altre due illustrazioni di Torres. Questa subito sotto è la seconda delle due.


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