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The Pleasure of Pain II: Il Divin Marchese e il Conte immaginario, citazioni a confronto

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Max Ernst, Napoleon in der Wildnis (1941) 
Nel suo libro Le Marquis de Sade et sa complice ou Les revanches de la Pudeur (ed. it. Scritti inediti sull'opera di Sade, Longo, 1992), il critico letterario Jean Paulhan (1884-1968) così scrive:
Se Justine ha meritato d'essere la bibbia - almeno in una determinata epoca della loro vita - di Lamartine, di Baudelaire e Swinburne, di Barbey d'Auriville e di Lautréamont, di Nietzsche, di Dostoïevsky e di Kafka (o, su un piano leggermente diverso, di Ewerz, di Sacher-Masoch e di Mirbeau) è perché questo strano benché apparentemente semplice libro, che gli scrittori del XIX secolo hanno passato il loro tempo - senza quasi mai nominarlo - a esaltare, a mettere in pratica, a rifiutare, pone una domanda così fondamentale che non sono bastate le opere di un intero secolo a dare una risposta...*

Paulhan evidenzia quindi la realtà di un'influenza diretta dell'opera di de Sade su quella di Lautréamont, nonostante sia poi lui stesso a valutare l'uno e l'altro nei termini di scrittori "primitivi", nel duplice senso di "privi di antecedenti" e di primi esploratori di una "intera provincia del regno dell'uomo". Una condizione, del resto, quest'ultima, che Sade aveva ascritto a sé in piena coscienza, consapevole com'era che nessuno degli autori che avevano affrontato il suo stesso genere di tematiche si era mai spinto così lontano e così in profondità a scandagliare le regioni più oscure della natura umana.
E' d'altronde vero che non sono solo le opere dei due scrittori a presentare delle affinità, ma le loro stesse parabole letterarie, pur negli evidenti limiti imposti dalla grande differenza di durata delle rispettive esistenze e dalla conseguente gran diversità di numero di opere comprese nelle loro bibliografie: settantaquattro anni di vita e una produzione letteraria sterminata per Sade, ventiquattro anni e un paio di opere appena per Lautréamont.

Intenzionati entrambi a tendere fino agli estremi limiti del possibile gli angoli della rete dei loro pensieri, così da non lasciare nulla di taciuto di ciò che è dicibile, ma anche decisi ad assestare un colpo mortale a ogni pretesa di ordine e di limite, al livello dell'individuo come della società, hanno entrambi concluso la loro carriera di scrittura con un'opera di riparazione, seppur vistosamente ambigua, verso tutto quel che avevano messo per iscritto in precedenza.
Con la voce e la solennità dei grandi giorni, io ti richiamo ai miei deserti focolari, gloriosa speranza. Vieni a sederti accanto a me, avvolta nel manto delle illusioni, sul tripode ragionevole dell'acquietamento. Come un mobile di scarto, t'ho scacciata dalla mia dimora, con uno scudiscio dalle code di scorpioni. Se desideri ch'io sia persuaso che hai dimenticato, tornando da me, i dispiaceri che, sotto l'indizio dei pentimenti, t'ho causato un tempo, perbacco, riporta allora con te, sublime corteo, - sorreggetemi, svengo! - le virtù offese, e le loro imperiture riparazioni.

Questa è la voce di Isidore Ducasse, ex Conte di Lautréamont, in un passo di Poesie, opera tesa a correggere, nelle intenzioni palesate dal giovane scrittore, non solo alcuni punti della sua opera precedente (I Canti di Maldoror) ma anche i "gemiti poetici" del suo secolo, che altro non sono, nelle sue parole, che "orridi sofismi".
Quello che segue ora è invece il Marchese de Sade, nell'introduzione a La Marchesa di Gange, ultima sua opera pubblicata con lui in vita, nel 1813, cioè l'anno prima della morte:
E' troppo doloroso mostrare che un crimine rimane impunito, perché noi non correggessimo in qualche modo il destino, sicuri soprattutto di far piacere alle persone timorate e oneste. Esse ci saranno grate di non aver osato dire tutto, proprio per non far vacillare la speranza così consolante che coloro che insidiano la virtù finiscano a loro volta per essere infallibilmente puniti.

La correzione del destino a cui si riferisce in questo caso Sade è rappresentata da una variazione nel finale del fatto storico, reale, da lui rielaborato ne La marchesa di Gange. Mentre infatti, nella realtà storica, uno dei due attentatori alla virtù della marchesa, l'abate di Gange, muore tranquillamente di vecchiaia, e addirittura in odore di santità, lo scrittore lo fa morire sotto i colpi di un pugnale vendicatore.


Max Ernst, La tentation de Saint Antoine (1945) 


Ma se ho voluto accostare queste due citazioni è anche perché in entrambi trovano posto le parole "speranza" e virtù". E, almeno nel caso di quest'ultima, nel contesto di frasi di analogo significato.
Sade non era del resto neanche nuovo a simili esternazioni, come dimostra, per esempio, ciò che aveva scritto, oltre un decennio prima, a premessa de I criminali dell'amore:
Educare l'uomo e correggere i suoi costumi, questo è il solo scopo che ci siamo proposti con questi racconti. Che la loro lettura persuada della grandezza del pericolo che è sempre presente sotto i passi di coloro che credono di permettersi di tutto per soddisfare i loro desideri! Possano essi convincersi che la cultura, la ricchezza, le doti intellettuali e i doni di natura rischiano di portare fuori strada quando non siano sorretti e messi in valore dalla modestia, dalla buona condotta, dalla saggezza e dalla prudenza: queste le verità che vogliamo dimostrare. Ci perdoni il lettore i mostruosi dettagli degli spaventosi delitti di cui siamo costretti a parlare: d'altronde, come è possibile indurre a odiare simili traviamenti, se non si ha il coraggio di presentarli come sono?

Lo scusarsi della necessità di dover illustrare dettagli mostruosi per impartire lezioni di virtù era in realtà già da tempo un artificio usato da Sade, ma quella di questo esempio è, che io sappia, la prima volta in cui Sade premette alle scuse un'esplicita dichiarazione di voler correggere l'uomo e i suoi costumi. Ne La marchesa di Gange, però, il discorso si spinge ancora più avanti, e con l'eterno conflitto sadiano tra vizio e virtù ormai trasposto quasi interamente sul piano psicologico, è la necessità stessa dell'artificio della scusa a venir meno. La virtù continua sì ad essere sconfitta come prima, ma cambia la morale: dove una volta il vizio trionfava perché conforme alla verità naturale, adesso trionfa per puro arbitrio dell'uomo o della sorte. Ed è comunque ogni volta un trionfo parziale, poiché la virtù offesa, a differenza di prima, finisce vendicata sia ne I criminali dell'amore che ne La marchesa di Gange.
Identica tattica utilizzerà poi, mezzo secolo dopo, Lautréamont, nella corrispondenza da lui intrattenuta con l'editore parigino Auguste Poulet-Malassis (1825-1878) allo scopo di risolvere la situazione di stallo in cui versava la pubblicazione dei Chants de Maldoror. Lautréamont si era rifiutato di apporre al suo testo gli emendamenti richiesti dall'editore Albert Lacroix (1834-1903), cui il giovane scrittore aveva già versato un anticipo sulle spese di stampa), e Lacroix in risposta, temendone delle conseguenze legali, si rifiutava di mettere in vendita un'opera così estrema nei contenuti. Ecco allora cosa scrive, a sua giustificazione, Lautréamont a Poulet-Malassis, nell'ottobre del 1869:
Ho cantato il male come hanno fatto Mikiewicz, Byron, Milton, Southey, A. de Musset, Baudelaire, ecc. Naturalmente ho un po' esagerato il diapason per fare qualcosa di nuovo nel senso di quella letteratura sublime che canta la disperazione soltanto per opprimere il lettore e fargli desiderare il bene come rimedio.

E poi ancora, il febbraio successivo, con il perdurare dello stallo:**
Sapete, ho rinnegato il mio passato. Ormai non canto che la speranza; ma, per farlo, occorre innanzitutto attaccare il dubbio di questo secolo (melanconie, tristezze, dolori, disperazioni, nitriti lugubri, cattiverie artificiali, orgogli puerili, maledizioni risibili ecc., ecc.). In un'opera che porterò a Lacroix i primi giorni di marzo [le future Poésies] isolo le più belle poesie di Lamartine, Victor Hugo, Alfred de Musset, Byron e Baudelaire, e le correggo nel senso della speranza; indico come si sarebbe dovuto fare. Al tempo stesso correggo sei pezzi fra i peggiori del mio maledetto libro.

Max Ernst, L'habillement de l'épousée (1940)
Il "maledetto libro"è, naturalmente, I Canti di Maldoror. Personaggio di cui Lautréamont aveva descritto la malvagità e le scelleratezze esattamente come Sade aveva fatto con i suoi libertini filosofi.
Vi è in particolare un passo, nei Canti, in cui si accenna all'infanzia di Maldoror e alla sua successiva scoperta dei propri talenti in questi termini:
Stabilirò in poche righe che Maldoror fu buono durante i suoi primi anni, quando visse felice; ed è fatto. Egli s'avvide in seguito d'esser nato malvagio: straordinaria fatalità! Dissimulò il suo carattere finché poté, per un gran numero d'anni; ma alla fine, per via di questa concentrazione per lui non naturale, ogni giorno il sangue gli montava alla testa; sino al punto che, non essendo più in grado di sopportare una vita simile, si buttò volutamente nella mala carriera... dolce atmosfera!

Cioè in termini non troppo lontani da quelli di un passo de La nouvelle Justine in cui Sade così fa parlare il marchese de Bressac:
Credi forse che quand’ero bambino non avessi un cuore come il tuo? Ho lottato, ho elevato a princìpi i miei errori; e da quel momento ho conosciuto la felicità.

Bressac si rivolge in questo caso alla sua involontaria, e più che recalcitrante, allieva Justine, nel suo ennesimo quanto inutile tentativo di convincere la ragazza ad abbandonare le spine della virtù in favore delle rose del vizio. Sebbene infatti lo si possa considerare a tutti gli effetti la vera nemesi maschile della sventurata Justine (quella femminile è la Dubois), Bressac intrattiene al tempo stesso con la giovane donna un rapporto diverso da quello di tutti gli altri libertini che lei incontra sulla sua strada, fino a diventare una sorta di suo satanico angelo custode. Incapace di non provare, nel profondo del suo animo, una viva ammirazione nei suoi confronti, giunge anche a toglierla dagli impicci in almeno un paio di situazioni per lei ad altissimo rischio, mentre in una terza occasione arriva perfino a consigliarla sul modo di regolarsi con due libertini particolarmente pericolosi, Gernande e Verneuil, in questi termini:
...qualunque cosa capiti all'oggetto dei tuoi timori, bada di non parlarne a Gernande; il suo cuore di pietra è sordo agli slanci della sua generosità e potresti caderne vittima. E quando Verneuil arriverà, comportati bene con lui; sii gentile, premurosa, spiritosa; nascondi ogni stupido slancio del cuore. Gli parlerò bene di te; e l'averlo conosciuto potrebbe un giorno risultarti utile.

Fine della divagazione sui rapporti tra Justine e Bressac, che ci porterebbe troppo lontano approfondire oltre. Torniamo invece al nostro confronto letterario e, sempre indietreggiando, spingiamoci adesso fino ai rispettivi punti di partenza de I Canti di Maldoror e de Le centoventi giornate di Sodoma. Anche in questo caso è possibile intravedere delle analogie nel modo di porsi dei due scrittori, nei confronti stavolta del proprio pubblico ideale.
Cominciamo dall'avvertenza ai lettori inclusa da Sade nell'introduzione alle sue Giornate:
Amico lettore, è giunto il momento di predisporre il tuo cuore e il tuo spirito al racconto più impuro che mai sia stato narrato dall'inizio dei tempi, non esistendo un'opera simile a questa né tra gli antichi né tra i moderni. Immagina che ogni godimento onesto o prescritto da quella bestia di cui parli continuamente senza conoscerla e che chiami natura, che tali godimenti, ripeto, siano volontariamente esclusi da questo racconto, e se per caso ne troverai, questo accadrà unicamente perché saranno accompagnati da qualche delitto o qualche infamia. Senza dubbio molte delle deviazioni che vedrai descritte potranno rivoltarti, lo so, e però altre sapranno eccitarti fino a farti perdere sperma, ed è questo tutto ciò che ci serve. Se non avessimo detto tutto, analizzato tutto, come avremmo potuto intuire quel che ti conviene? Sta a te prenderlo, tralasciando il resto; un altro farà altrettanto; per cui, progressivamente, tutti potranno trovare ciò che a loro conviene.

Ed ecco adesso il corrispondente passo di Lautréamont, che altro non è che l'incipit del Canto Primo del Maldoror:
Voglia il cielo che il lettore, fattosi ardito e divenuto momentaneamente feroce al pari di ciò che legge, trovi, senza disorientarsi, la sua strada aspra e selvaggia, attraverso le paludi desolate di queste pagine oscure e pien di tosco; perché, a meno che non informi la sua lettura a una logica rigorosa e ad una tensione di spirito equivalente almeno alla sua diffidenza, i mortali effluvi di questo libro impregneranno la sua anima come l'acqua lo zucchero. Non è bene che tutti leggano le pagine qui seguenti; qualcuno soltanto gusterà senza pericolo quest'amaro frutto.

Lautréamont enfatizza com'è nel suo stile, mentre Sade lo fa solo in apparenza, quando in realtà enuncia un dato di fatto. In ogni caso usano entrambi, sebbene in modi opposti, uno stile parodistico: Lautréamont attraverso la pretesa di voler limitare la propria platea di lettori, Sade pretendendo di allargarla al mondo intero con la promessa che ciascuno nel suo libro troverà qualcosa che gli conviene. In quanto al resto... basta che lo tralasci. Come se con Le centoventi giornate di Sodoma questo fosse possibile!


Max Ernst, L'oeil du silence (1944)


Se poi infine, per chiudere in bellezza questo post, allungatosi ben più del previsto, volessi divertirmi a ricercare il miglior candidato ad antecedente diretto del personaggio Maldoror nelle pagine di Sade, allora rimarrei senz'altro nell'ambito delle Centoventi giornate, candidando il presidente de Curval, uno dei quattro reggitori della Scuola di libertinaggio presentata nel libro, e proponendo, a dimostrazione del perché della mia scelta, questo paio di estratti dalla lunga descrizione che Sade dà di lui:
Ormai prossimo ai sessant'anni, e straordinariamente consumato dalla dissolutezza, era pressoché ridotto a uno scheletro. Era alto, smunto, sottile, con due occhi incavati e spenti, una bocca livida e malsana, il mento prominente, un lungo naso. Villoso come un satiro, con la schiena piatta, le natiche molle e cadenti che parevano due luridi stracci abbandonati sulle cosce, aveva la pelle così indurita dalle frustate che si sarebbe potuto torcerla tra le dita senza che lui lo sentisse.
[...]
Curval era a tal punto immerso nel brago del vizio e del libertinaggio che gli era divenuto pressoché impossibile volgere ad altro il suo pensiero. Aveva sempre sulla bocca, come nell'animo, le espressioni più volgari, violentemente frammiste a bestemmie e imprecazioni dettate dalla più profonda ripugnanza che nutriva, a somiglianza dei confratelli, per tutto ciò che apparteneva alla sfera religiosa. Questo disordine mentale, accentuato dall'ebbrezza pressoché continua in cui amava rimanere, gli aveva conferito con gli anni un'aria di imbecillità e di ottundimento che a sentir lui era fonte delle più preziose delizie.

Certo Isidore Ducasse Conte di Lautréamont, non poteva sapere del grande romanzo incompiuto di Sade, il cui manoscritto, come ho scritto nel Terzo Capitolo di questa serie di post, era sparito dalla scena del mondo quasi un secolo prima. A meno che proprio lui, Lautréamont, non sia stato uno degli invisibili custodi che hanno traghettato l'opera creduta perduta dal XVIII al XX secolo. Ma naturalmente questo è solo materiale per uno di quei thriller ambientati nel mondo dei libri che vanno per la maggiore adesso...


* * *


* Traduzione dal francese: mia.

** Le Chants de Maldoror saranno messi in vendita solo nel 1874, come opera postuma.

- Tutte le citazioni da Lautréamont sono tratte da:
  • Lautréamont, I Canti di Maldoror - Poesie - lettere. A cura di Idolina Landolfi. Edizioni BUR, 1995.
Ad eccezione delle due lettere a Auguste Poulet-Malassis, che provengono da:
  • Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi. Adelphi, 2001.
- Le citazioni da de Sade sono tratte dai seguenti volumi:
  • François de Sade: La Marchesa di Gange (vol. I). Editoriale Corno; collana I jolly n.6, giugno 1966.
  • François de Sade: I criminali dell'amore. Editoriale Corno; collana I jolly n.9, luglio 1966.
  • Sade, La nuova Justine. GTE Newton Compton editori, 1992.
  • D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma. ES, 1991.


The Pleasure of Pain II: Madame de Sade di Yukio Mishima [Ariano Geta]

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Era probabilmente inevitabile che l'autore di Confessioni di una maschera - memoriale di un uomo non ancora trentenne che si eccita sessualmente solo immaginando di compiere atti di estrema violenza ai danni di ragazzi giovani, ma senza mai eseguire realmente tali fantasie – si interessasse a de Sade.
Yukio Mishima aveva mostrato sin da fanciullo un'inclinazione straordinaria alla creazione letteraria, benché suo padre avesse progettato per lui una carriera meno "frivola". Nato nel 1925 e avendo quindi trascorso la sua adolescenza nel Giappone militarista impegnato in un'impossibile guerra contro Stati Uniti e Inghilterra, aveva però dimostrato (come d'altronde molti altri letterati nipponici di quei decenni) un interesse vivo e profondo per la cultura europea. Sebbene in quegli anni si diffondesse sempre più la retorica nazionalista della "superiorità morale" dei giapponesi rispetto ai "corrotti" occidentali (tematica che peraltro troverà spazio nell'ultima fase della produzione letteraria di Mishima sul finire degli anni '60 in un Giappone che si stava americanizzando o degradando, a seconda dei punti di vista), l'allora adolescente Kimitake Hiraoka - era questo il suo vero nome all'anagrafe - seguiva invece l'esempio degli intellettuali della generazione precedente che studiavano con avidità e profondo rispetto le opere degli autori europei. Anche quelle con contenuti moralmente ambigui.
Diventato celebre ed economicamente indipendente a soli 24 anni grazie al successo commerciale del già citato "Confessioni di una maschera", Yukio Mishima aveva potuto continuare a studiare e accrescere la propria cultura personale imparando peraltro l'inglese e un po' di francese, opzione che gli permetteva di leggere alcuni autori occidentali in lingua originale.
Il testo teatrale Madame de Sade prese forma nel 1965, opera di un Mishima ormai maturo eppure inquieto che nel 1967 avrebbe creato un'associazione paramilitare nazionalista e nel 1970 avrebbe concluso la propria esistenza con un improbabile tentativo di golpe e un suicidio estremamente teatrale (ovvero: quando la vita si fonde con le proprie fantasie di letterato).
Nell'edizione italiana in mio possesso (Guanda, 2002) viene riportata la postfazione originale dell'autore. In essa dichiara che lo spunto di partenza che gli ispirò questo dramma fu la lettura della biografia di de Sade scritta dal suo connazionale Tatsuhiko Shibusawa. Un episodio in particolare colpì Mishima: "quello che maggiormente suscitò la mia curiosità di scrittore fu l'enigma della Marchesa de Sade. Perché una donna che era riuscita a mantenersi a tal punto fedele al marito [...] lo abbandonava proprio nel momento in cui, ormai vecchio, tornava finalmente libero?" [dalla detenzione nella Bastiglia prima e nel manicomio di Charenton poi, n.d.r.].




In effetti de Sade è il protagonista indiretto del testo teatrale. Non compare mai sul palco, dove invece si alternano sei personaggi femminili: sua moglie, sua cognata, sua suocera, oltre a tre personaggi immaginari (una cameriera, una nobildonna religiosa e un'altra nobildonna moralmente corrotta). Come dice ancora Mishima nella postfazione originale: "Si tratta, per così dire, di un 'Saggio su de Sade considerato dalle donne'".
Le perversioni del Marchese vengono quindi soltanto evocate, raccontate, giudicate. Uno dei tre personaggi non storicamente esistiti e creati in modo esclusivo dalla fantasia di Mishima, la Contessa di Saint-Fond (la nobildonna corrotta), è quella che prova a trovare un senso e quasi un motivo di approvazione nelle perversioni di de Sade. Dice nel primo atto: "Il miracolo del Marchese de Sade è un accumulo di fatti precisi, si manifesta solo quando l'uomo ha completamente esplorato tutto ciò che è conoscibile per mezzo dei sensi".
Per la moglie Renée è semplicemente l'uomo che lei ama, e come spesso capita a una donna innamorata riesce a giustificare qualunque suo comportamento, anche quelli più spregevoli. Lei lo giudica terribilmente solo, un uomo che "per quanti atti esecrabili accumulasse, quanto ricercava era irraggiungibile, qualunque fosse il numero delle donne e degli uomini che partecipavano ai suoi giochi, era lui solo a scontrarsi con l'impossibile" (secondo atto). In lei c'è anche lo stato succube del partner masochista che in un'occasione partecipa come oggetto di piacere (lo racconta con rabbia sua madre) alle follie del marito. Un marito che però, coi suoi eccessi che lo conducono allo scandalo e all'arresto, diventa ai suoi occhi un essere sovrumano: "Alphonse non è un furfante. È la soglia tra me e l'impossibile, forse tra me e Dio" (secondo atto). E nel terzo atto dice ancora più significativamente: "Quando in questo mondo ci si imbatte in ciò che meno si credeva di desiderare, esso è proprio quello che in realtà nell'inconscio si bramava maggiormente".
L'eccezionalità di Sade assume un carattere quasi sacrale agli occhi della moglie quando lo eleva a una sorta di santo rovesciato: colui che, potendo evadere dal carcere, è però rimasto imprigionato per poter scrivere liberamente, senza censure, le sue opere tentando "di costruire in questo mondo le norme stesse del vizio" cosicché "unicamente affascinato dal distruggere, ha finito col costruire".
Quest'uomo ormai quasi mitizzato a creatura celeste non può più mantenere la sua sacralità ora che, dopo tanti anni – come riferisce la cameriera Charlotte – il suo volto è diventato "pallido e gonfio [...] è tanto sconciamente ingrassato. I suoi occhi sono smarriti, la mascella gli trema leggermente".
De Sade, ancora vivente, nel finale del dramma di Mishima è già diventato ciò che sarà per i suoi posteri: una figura inspiegabile, inconcepibile, estrema; un simbolo e un argomento di discussione, una mostruosità e al tempo stesso un ideale di libertà assoluta che irride ogni legge morale.


* * *


Non posso non annotare, a margine del bell'intervento che avete appena letto a firma di Ariano Geta, un blogger, titolare del Blog di Ariano Geta, che da queste parti non credo abbia bisogno di molte presentazioni (e che aveva già presenziato alla prima parte di The Pleasure of Pain con questo articolo sul rapporto tra Religione e sofferenza), non posso non annotare, dicevo, come sia io che lui siamo stati oggetto, nel caso di questo post, di una sorta di gioco di reindirizzamenti. Mi spiego meglio: per quel che ho capito, Ariano ha fatto suoi il personaggio e l'opera di de Sade essenzialmente attraverso il filtro di questa opera teatrale di Yukio Mishima, scrittore di cui è appassionato, e io ho fatto mia questa particolare opera di Mishima attraverso il filtro di Ingmar Bergman, regista di cui sono appassionato. Di qui la mia scelta, visto che Ariano mi aveva inviato il solo testo, di accompagnare il suo articolo proprio con alcuni fotogrammi di Markisinnan de Sade (La marchesa de Sade), film di Bergman del 1992 che altro non è che una ripresa video per la TV di stato svedese di una sua regia teatrale andata in scena al Kungliga Dramatiska Teatern (Teatro Reale Drammatico) di Stoccolma.


E' in effetti solo grazie al regista svedese che io ho potuto conoscere e godermi in anticipo questa straordinaria opera di Mishima, del cui contenuto, in caso contrario, sarei rimasto sicuramente all'oscuro fino alla lettura di questo post di Ariano. E giacché siamo a parlare di Giappone e di cinema, quale miglior occasione di questa per passare da Sade a Sada e segnalarvi che si è appena conclusa, sul blog The Obsidian Mirror,  la pubblicazione di un inatteso spin-off a The Pleasure of Pain a firma Lucius EtruscusL'impero italiano dei sensi - un lungo articolo in tre parti, ma che si legge d'un fiato, sulla tormentata storia, tra divieti e censure, della distribuzione italiana del celeberrimo film di Nagisa Oshima.

Seguite i tre link e non ve ne pentirete:

L’impero italiano dei sensi (Pt.1)

L’impero italiano dei sensi (Pt.2)

L’impero italiano dei sensi (Pt.3)

[I.L.]

The Pleasure of Pain II: L'oratore provenzale [Marquis de Sade]

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Hyacinthe Rigaud, Louis XIV (1701)
Sotto il regno di Luigi XIV, arrivò in Francia un ambasciatore persiano. Re Luigi amava chiamare alla sua corte stranieri di ogni nazione, in modo che potessero ammirare la sua grandezza e riportare ai loro paesi qualche scintilla dei raggi di gloria con i quali copriva i due estremi della terra. L'ambasciatore venne accolto magnificamente a Marsiglia. I magistrati del tribunale di Aix, seconda tappa dell'ambasciatore, non vollero naturalmente essere da meno di una città che, con scarse ragioni, ritenevano inferiore alla loro. La loro prima preoccupazione fu quella di dare il benvenuto all'ambasciatore. Rivolgergli un discorso in provenzale sarebbe stato semplice, ma l'ambasciatore non avrebbe capito una parola. Sembrava una difficoltà insormontabile.

Il tribunale si adunò. In effetti basta poco per riunirlo: un processo di contadini, qualche schiamazzo a teatro o, soprattutto una faccenda di donnine allegre. Sono tutte questioni di grande importanza per quel branco di magistrati oziosi, da quando non è loro permesso, come ai tempi di Francesco I, mettere a ferro e fuoco la provincia, inondandola con il sangue degli infelici che la popolano.

Si aprì dunque la discussione: come riuscire a tradurre il discorso di benvenuto? Si discusse a lungo, senza trovare una via d'uscita. Era forse possibile che in quella congrega di mercanti di tonno, per puro caso rivestiti con le zimarre nere dei magistrati, che non sapevano neppure il francese, si potesse trovare chi parlasse il persiano? Il discorso era pronto: tre celebri avvocati ci avevano lavorato introno per sei settimane. Finalmente si scoprì, non so se in città o in provincia, un marinaio che era vissuto a lungo in Oriente e che parlava il persiano come il suo dialetto. Gli spiegarono il problema. Il marinaio accettò, imparò il discorso e lo tradusse facilmente. Venuto il gran giorno lo rivestirono con una vecchia casacca da primo presidente e gli prestarono la più grande parrucca dell'assemblea. Seguito dalla banda, avanzò verso l'ambasciatore. Si erano messi d'accordo sulle parti da sostenere e l'oratore aveva raccomandato a quelli che lo seguivano di non perderlo mai d'occhio e di imitare assolutamente tutto quello che gli avessero visto fare.


Tiziano, Francesco I / Solimano il Magnifico (c. 1530)


L'ambasciatore si fermò a metà del corso, dove doveva avvenire la cerimonia. Il marinaio fece un compito inchino, ma, poco abituato alla parrucca, la fece volare ai piedi di sua Eccellenza. I signori magistrati, che avevano promesso di imitarlo, fecero altrettanto e chinarono davanti al persiano le teste pelate e poco pulite. Il marinaio, senza perdersi d'animo, raccolse i suoi capelli e se li rimise in testa, cominciando il discorso. Si esprimeva tanto bene che l'ambasciatore lo credette del suo paese ed il pensiero lo fece infuriare.
- Sciagurato! - esclamò, portando la mano alla sciabola - Non parleresti così bene la mia lingua se non avessi rinnegato Maometto. Devo punirti della tua colpa tagliandoti subito la testa.

Lo sfortunato marinaio aveva un bel difendersi. L'ambasciatore non gli dava retta: gesticolava, bestemmiava, imitato in ogni suo gesto da quelli del suo seguito. Per cavarsi dai pasticci, il marinaio ricorse a una prova decisiva: si slacciò i pantaloni e dimostrò di non essere mai stato circonciso. I magistrati provenzali non furono da meno e, in un batter d'occhio, lo imitarono provando che nessuno di loro era meno cristiano di San Cristoforo. Le dame che seguivano la cerimonia dalle finestre scoppiarono a ridere per quella pantomima.
Finalmente convinto della buona fede dell'oratore e di trovarsi in una città di pantaloni, l'ambasciatore alzò le spalle e passò oltre, certo dicendo tra sé: «Non mi stupisce che questo popolo abbia sempre la forca pronta. Per cervello devono essere molto simili agli animali».
Un giovane artista fece della singolare cerimonia un quadro. Il tribunale bandì il pittore dalla provincia e condannò il quadro al rogo, senza pensare che condannava se stesso, in quanto il quadro ritraeva i suoi membri.

- Accettiamo di essere considerati degli imbecilli - dissero i severi magistrati - anche se non lo volessimo, da troppo tempo lo stiamo dimostrando a tutta la Francia, ma non desideriamo che un quadro lo faccia sapere anche ai nostri posteri.


* * *


Opera matura del Marchese de Sade che meno ti aspetti, e che probabilmente sono in pochi a conoscere, L'oratore provenzaleè uno dei ventisei racconti che formano la raccolta Histoirettes, Contes et Fabliaux, pubblicata nel 1926 a cura di Maurice Heine.* Di lunghezza tra loro molto variabile (da una ad alcune decine di pagine), e tutte composte da Sade nei suoi anni di reclusione alla Bastiglia, le storie della raccolta si situano, come generi e tematiche, a metà strada tra Boccaccio e La Fontaine, con addirittura alcune escursioni nel genere delle storie di fantasmi, quest'ultime con ogni probabilità orecchiate dal Marchese quando ancora percorreva, da uomo libero, i sentieri della sua Provenza. Mentre degli altri ventitré racconti da lui scritti durante la stessa prigionia, undici sono andati a comporre le Les crimes de l'amour, una delle sue opere pubblicate con Sade ancora in vita, e dodici sono andati perduti.

Ho scelto, di tutta la Histoirettes, questo racconto non solo perché è della lunghezza appropriata per un post, ma anche perché testimonia bene sia della vivace vena umoristica che percorre la maggior parte dei testi della raccolta sia della feroce critica di Sade nei confronti del potere politico e legislativo vigente nella Francia pre-rivoluzionaria, oltre che, dettaglio non secondario, della sua empatia di fondo con il popolo dei diseredati a cui lui stesso aveva finito per appartenere, almeno nella carne se non ancora nello spirito. Del resto, il Marchese aveva i suoi validi motivi per avercela con la corte di giustizia di Aix, cittadina dove fu eseguita in effige la sua impiccagione in conseguenza del cosiddetto "affaire di Marseille". 
Ma ho anche molto apprezzato il sapore fiabesco dell'insieme del racconto, contrastante con tutto quel a cui ho accennato sopra, e dell'incipit in particolare, con quel tono da "C'era una volta" nel suo rimandare al regno di Luigi XIV, il Re Sole, come a una sorta di già lontana età dell'oro. Forse, anche in questo caso, è tutta ironia, ma la suggestione trasmessa da quei raggi di gloria che coprono i due estremi della terra non si cancella comunque.

[I. L.]


* * *


Dei ventisei racconti, venticinque erano inediti e uno già apparso nel 1881 a cura di Anatole France. Gilbert Lely, in Vie du Marquis de Sade (1952), dà Les dangers de la bienfaisance come titolo del racconto già edito. Gianni Nicoletti dà invece, nella nota bibliografica per Newton Compton (1992), il titolo Dorci ou la Bizzarrerie du sort. Non ho trovato in rete alcuna traccia dell'esistenza di un racconto di Sade con il primo dei due titoli indicati.
La versione de L'oratore provenzale qui presentata è tratta da: Donatien Alphonse Françoise de Sade, Histoirettes. Collana I jolly n. 14; Editoriale Corno, 1966. Cura e trad. di Gianni Frati.

The Pleasure of Pain II - Sul sadismo inconscio delle masse: una riflessione [Alessia H. V.]

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Alessia H. V., Shattered, ink on paper, 2018
Eye on the TV
‘Cause tragedy thrills me
Whatever flavour It happens to be like¹

***
La folla, quando il corpo cessò di dibattersi, andò via.²

***

Ogni giorno ingurgitiamo una quantità immane di informazioni.
Notizie di cronaca, sportive, gossip di vario genere ottenebrano le nostre capacità mentali ed intellettive sostituendosi a momenti di silenzio e a vuoti necessari alla riflessione e alla costruzione personale.
La massiccia presenza dei media nelle nostre vite non è più una novità dagli anni ‘50 circa e neanche la dipendenza da essi riguardo le questioni impalpabili che regolano e interessano il mondo al di fuori di casa nostra; ne ha parlato e denunciato Orwell in 1984, profetizzando quella manipolazione dell’informazione cui oggi, suppongo personalissimamente, siamo perennemente abituati: alleanze, accordi sul nucleare, emergenze umanitarie costituiscono fra le basi più consistenti di quella che viene definita sicurezza mondiale, ma che in realtà risulta un concetto molto più astratto e virtuale di quello che crediamo. Non lo possediamo, non lo viviamo nel nostro quotidiano e semplicemente ci fidiamo di quello che ci viene detto e testimoniato attraverso reportage e interviste di cui non discutiamo la natura veritiera.
Fra le informazioni di cui veniamo nutriti, in particolar modo attraggono la nostra attenzione quelle in cui la vita di terzi è messa a repentaglio. Sentiamo la tensione dell’essere appesi ad un filo, seguiamo come ‘grandi fratelli’ ciò che accadrà al tizio o al caio che, dall’altra parte del mondo, sta lottando per la sopravvivenza ed il tutto comodamente seduti sul nostro divano, pronti a cambiare canale quando il livello di attenzione si satura. Questa fagocitazione continua alimenta un sentimento di tipo nevrotico, ci rende sensibili all’argomento trattato e partecipi agli eventi, ma uno spettro si annida dietro questo slancio di ritrovata filantropia, un fantasma che porta le sembianze del suo totale opposto, ovvero una forma sottile ed inconscia di sadismo, un atteggiamento sociale che, se ci si riflette attentamente, si nota come non sia cosa nuova.
That’s my kind of story // It’s no fun ‘til someone dies.³

Pensiamo, ad esempio, agli spettatori dei giochi del Colosseo, a quella brama di sangue, di scontro, quella voglia viscerale di veder qualcuno morire davanti ai propri occhi o, ancor peggio, di assaporare con gusto malsano l’idea che la vita di quello stesso individuo possa dipendere dalla volontà di un altro più potente e fortunato, o alle persecuzioni dei martiri con annesse torture cui sarà diretta discendente la caccia alle streghe, l’esecuzione di povere donne il più delle volte ignare ed innocenti delle accuse a loro mosse; accadimenti che lo stesso Nietzsche, durante il suo discorrere nell’ampio trattato ‘Al di là del bene e del male’, osserva dicendo che:
Ciò che il romano si gode nell’arena, il cristiano nell’estasi della croce, lo spagnolo al cospetto di auto-da-fé e corride, il giapponese di oggi nel mentre s’accalca per assistere alla tragedia, l’operaio dei sobborghi parigini mentre sente nostalgia delle rivoluzioni sanguinarie, la wagneriana che sospende la sua volontà per lasciare che Tristano e Isotta si ‘perdano’ dentro di lei , - quello in cui tutti costoro godono, e che con ardore minuziosamente dissimulato cercano di suggere fin nelle viscere, sono i filtri speziati della gran Circe: la crudeltà.⁴


Alessia H. V., Death is in the eye of the beholder, digital painting, 2018


Il gusto del sangue, della violenza osservata indirettamente da puri spettatori appare quindi connaturata all’essere umano, soprattutto se osservato come fenomeno di massa, cioè riguardante effettivamente le moltitudini dei popoli. Ma cosa è che potrebbe spingere gli individui a sfamare questo desiderio? Cosa alimenta questa innata crudeltà? Sarà forse causa di istinti repressi che creano una forma di aggressività che, non potendo trovare sfogo sul piano pratico, si appoggia su altri canali e, così facendo, illusoriamente si libera?
Seguendo un’analisi che Georges Bataille conduce sulla figura e letteratura di Sade è possibile giungere ad alcune riflessioni che riguardano principalmente il concetto di uno scatenamento di impulsi (o volontà insoddisfatta di questo scatenamento) posto in contrapposizione ad una chiara coscienza che ne costituisce e pone il limite:
Lo spirito umano non ha mai cessato di obbedire all’esigenza che porta al sadismo: ma ciò avveniva furtivamente, nella tenebra che nasce dall’incompatibilità fra la violenza, che è cieca, e la lucidità della coscienza. La frenesia allontanava la coscienza. Da parte sua la coscienza, nella condanna angosciosa, negava e ignorava il senso della frenesia.⁵

Alessia H. V.
Demons: the Devoured, digital painting, 2018
Da questa contraddizione, questa continua lotta, si sviluppa un’attrazione sensuale, un desiderio di tipo sessuale che cerca la propria soddisfazione nella tragedia, nella violenza e nella morte, e mentre nel sadismo propriamente detto il tutto si attua nell’esecuzione di questa pulsione, il compimento pratico del desiderio, nella società contemporanea e nella società di sempre in senso esteso, governata non solo da una coscienza individuale ma anche da una coscienza collettiva, ci si è concessi di sublimare l’impossibilità dello scatenamento diretto nella forma indiretta dell’osservazione, mascherandola da partecipazione morale.

‘Cause I need to watch things die,
- From a distance -
Vicariously I live while the whole world dies
Much better you than I.

E forse proprio i Tool in uno dei loro pezzi più celebri (il quale ha accompagnato tutta la trattazione), Vicarious, riassumono il punto dichiarando che ‘We all feed on tragedy. It’s like a blood to a vampire’ e non importa di quale natura sia la tragedia di cui ci stiamo nutrendo: abbiamo bisogno di arrabbiarci con qualcosa, di inorridire per qualcosa, di bere sangue sempre nuovo, di essere attratti dal male, quel male che ormai risiede ovunque e che viene alimentato costantemente e vive di vita propria ogni qual volta si assiste allo sbandieramento ossessivo di un fatto.
Per concludere, quindi, cosa c’entra allora l’informazione tutta, la sua manipolazione e la sua onnipresenza nella nostra quotidianità? C’entra perché si può far leva sulle pulsioni e lo scatenamento simile ad un coito interrotto degli individui, perché si può giocare su di una debolezza inconscia, un’insicurezza alla quale dare una forma, una struttura esterna, che paia solida e consistente allo scopo di creare un’opinione pubblica molto più fittizia di quello che si crede.

***

¹٬³ Tool, Vicarious (10,000 Days, 2006).
² Italo Calvino, Il barone rampante, cap. XII, pag. 109, Mondadori.
 Friedrich W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cap. VII, pag. 178, Rusconi.
 Georges Bataille, La letteratura e il male, cap. V, pp. 97-115, SE.


* * *


Con questa bellissima riflessione che avete appena letto, e con cui Alessia dimostra ancora una volta la capacità di trovarsi a proprio agio tanto nella parola scritta quanto nella rappresentazione grafica e pittorica (che è il suo principale campo di attività creativa), si conclude la prima metà del progetto The Pleasure of Pain II. Otto post per venti giorni: è questa la formula che si è alla fine imposta per il mese di ottobre e che si replicherà in modo speculare nel mese di novembre. Fin da lunedì 5, giorno in cui, salvo imprevisti, apparirà il seguito del mio post di inizio dello Speciale: Dal sadismo a Sade.

Su altre due cose mi preme inoltre porre l'accento in questa postfazione. La prima è che delle tre immagini del post, quella con il teschio verde che risalta al centro è stata da lei appositamente realizzata per questo Speciale, cosa di cui posso solo sentirmi onorato. Le altre due immagini sono state invece da lei scelte tra quelle già apparse sul suo blog, Alessia H.V., che vi invito senz'altro a visitare, così come vi invito a leggere, se non lo avete ancora fatto, il suo intervento nella prima parte di The Pleasure of Pain sul sacrificio umano e l’autosacrificio nella cultura azteca: Una storia mesoamericana. La seconda cosa che mi piace sottolineare è invece la coincidenza della presenza, qui come nel mio post di apertura di questo Speciale, di una citazione da uno stesso libro: La letteratura e il male di Georges Bataille, autore che può essere considerato uno dei più diretti discendenti letterari del Marchese de Sade, oltre che uno dei maggiori interpreti del suo pensiero. L'estratto scelto da Alessia mostra tra l'altro bene come Bataille abbia fatto suo il concetto del dualismo apollineo/dionisiaco elaborato da Nietzsche (non a caso, un altro autore debitore di Sade che appare citato in questo post), con il contrapporre tra loro la chiara coscienza e la frenesia. Ma vale anche la pena chiarire a questo punto, a proposito del titolo del libro, che la nozione di Male in Bataille non corrisponde che in modo approssimativo a quella intesa in genere nel linguaggio comune. Nel termine "Male" Bataille racchiude in realtà tutto ciò che è esuberante e trasgressivo rispetto a quell'insieme di valori "costruttivi" che la società racchiude sotto l'ombrello del "Bene" e a cui conferisce un valore normativo. Esempi di Male sono così il superfluo del gioco contrapposto all'utilità del lavoro; la dispersione di sé nell'eterno presente in opposizione al senso di scopo e alla progettualità proiettata nel futuro; lo scatenamento e la fusione dell'estasi opposti alla delimitazione dei confini dell'io sociale. Sono queste tutte "norme" dell'età dell'infanzia che diventano possibili armi della trasgressione una volta che, nell'età adulta, sono sottoposte al vaglio della coscienza riflessiva. L'interdizione è il modo in cui la società ne limita l'influenza e se ne difende garantendosi la propria sopravvivenza. In quanto alla letteratura, ogni volta che parla con la propria voce essenziale (e "la letteratura è essenzialità o non è niente"), essa rappresenta per Bataille "il sospirato ritrovamento dell'infanzia". E poiché è una forma acuta del Male ciò che vi si esprime, La letteratura non può infine che dichiararsi "colpevole".

The Pleasure of Pain II - Dal sadismo a Sade /2: La Scuola del libertinaggio

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Nel capitolo dedicato a Sade del suo saggio La letteratura e il male, Georges Bataille scrive che opere come Psychopathia sexualis "hanno significato sul piano di una coscienza obiettiva di comportamenti umani, ma situata al di fuori dell'esperienza della verità profonda rivelata da questi comportamenti"*. Chissà se con queste stesse parole Bataille non abbia anche voluto ribattere a Maurice Heine, studioso a cui si deve la prima trascrizione e pubblicazione postuma di molti dei manoscritti inediti del Marchese, quando scrive, a proposito de Le centoventi giornate di Sodoma, che è...
...un documento di singolare valore, e contemporaneamente il primo saggio positivo (a parte quello dei confessori) in vista della classificazione delle anomalie sessuali. L'uomo cui spetta il merito di aver cominciato a osservarle metodicamente e a descriverle sistematicamente, un secolo prima di Krafft-Ebing e di Freud, si è meritato l'onore che il mondo della scienza gli ha fatto assegnando il suo nome alla più grave delle psicopatie.

Personalmente non sono altrettanto positivo di Heine, sul fatto che il Marchese de Sade avrebbe davvero considerato un onore un simile riconoscimento, e probabilmente non lo era neanche Bataille. Di certo la "verità profonda" a cui lui accenna, a proposito delle devianze sessuali va ricercata, in sintonia con il suo pensiero, sul piano erotico e in particolare con la decomposizione che il "disordine sessuale" opera nei confronti delle "figure coerenti che ci costituiscono, per noi stessi e per gli altri, in quanto esseri definiti (cioè le spinge già in quell'infinito che è la morte)"** E le Centoventi giornate sono senza dubbio esemplari da questo punto di vista. Bisogna tuttavia anche riconoscere, a favore di Heine, che la loro particolare struttura si presta altrettanto bene a essere vista come una applicazione diretta dello spirito positivo ed enciclopedista caratteristico dell'epoca.


Le quattro insegnanti e i quattro organizzatori della Scuola del libertinaggio
in Salò o Le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975)


Scritto da Sade, come già detto in precedenza, durante la sua prigionia alla Bastiglia, e da lui creduto definitivamente smarrito, il testo de Le centoventi giornate di Sodomaè in realtà scritto in una forma molto vicina alla definitiva solo per un quarto del totale, corrispondente al racconto dei primi trenta giorni. Degli altri tre quarti dell'opera, lo scrittore ha lasciato solo lo schema generale, con qua e là delle occasionali descrizioni più approfondite. In quanto alla struttura, essa ruota in gran parte attorno al numero 4. Quattro, da inizio novembre a fine febbraio, sono i mesi lungo cui si snoda la parte principale della vicenda; quattro, una per mese, sono i diversi tipi di passioni trattate: 1) semplici (che occupando il primo mese sono le uniche trattate per esteso); 2) composte; 3) criminali; 4) omicide. In numero di quattro o di suoi multipli sono infine organizzati i principali gruppi di protagonisti del romanzo. Violano la "regola" due gruppi di persone di importanza secondaria: le cuoche e le sguattere, che sono in numero di tre e tre, e il numero delle passioni descritte, che è di cinque giornaliere, per un totale di centocinquanta al mese e seicento complessive. Proprio questa trattazione così sistematica delle passioni costituisce il lato "enciclopedico" dell'opera e rende inoltre conto del suo titolo completo: Le centoventi giornate di Sodoma o la Scuola del libertinaggio.
Le grandi guerre che Luigi XIV ebbe a sostenere durante il suo regno, se da un lato sfinirono le finanze dello Stato e le risorse del popolo, svelarono dall'altro il segreto di arricchirsi a un'immensa moltitudine di quelle sanguisughe sempre in agguato di pubbliche calamità che suscitano in luogo di sedare, per essere in grado di approfittarne nel modo più vantaggioso. La fine di questo regno, altrimenti così sublime, è forse una delle epoche in cui maggiormente si videro quelle oscure fortune che brillano unicamente per il lusso e le dissolutezze, sordide quanto quelle. Fu sul finire di questo regno e poco prima che il Reggente tentasse, attraverso quel famoso tribunale conosciuto come Chambre de justice, di far restituire il maltolto a quella moltitudine di malfattori, che quattro di loro concepirono l'orgia singolare che ci accingiamo a narrare.

E' questo l'incipit del più grande romanzo sadiano, dove lo scrittore mostra di mettere subito le mani avanti, nel caso il lettore più smaliziato si interroghi sul perché della riuscita di un piano criminale elaborato e rischioso quale quello messo su dai quattro malfattori protagonisti principali del racconto, i quattro libertini ormai incancreniti nel vizio che corrispondono alle persone del Duca di Blangis, del Vescovo di..., fratello del Duca, del finanziere Durcet e del Presidente della corte d'appello Curval. Anche figure esemplari, quindi, delle struttura quadripartita del potere sociale dell'epoca (e in parte del nostro attuale): l'aristocrazia, il clero, l'apparato economico e l'apparato legislativo. E' infatti nel momento in cui un'epoca e una società raggiungono il punto di massimo squilibrio, che il libertinaggio - che altro non è che l'espressione più anarchica del potere, la stessa che quasi due secoli dopo Pier Paolo Pasolini avrebbe mostrato all'opera nell'esperimento della Repubblica sociale di Salò - trova la sua età dell'oro, in un'epoca in cui, come spiega ancora Sade, "ci si guardava bene dal perseguire e punire crimini di tal fatta, come invece sarebbe accaduto in seguito".


I quattro libertini di de Sade in Salò o Le 120 giornate di Sodoma.
Da sinistra a destra: Il Vescovo (Giorgio Cataldi); Il Presidente della corte d'appello Curval (Uberto Paolo
Quintavalle); Il Duca de Blangis (Paolo Bonacelli); il Presidente Durcet (Aldo Valletti).


In quel tempo, nel corso di lunghi mesi di preparativi, e grazie all'immenso patrimonio da loro accumulato negli anni, i quattro libertini hanno riempito la sede fisica della loro Scuola, il castello di Silling, proprietà di Durcet situata nel cuore della Svizzera, di tutto il necessario a mantenere nell'agiatezza loro stessi e tutte le altre persone coinvolte nella "singolare orgia" per l'intera sua durata. E si tratterà a tutti gli effetti di un mondo altro, poiché il piccolo castello, nascosto in una stretta valle inabissata tra le rocce e situata al di là di montagne a stento accessibili, è reso ancor più isolato, oltre che dalle intemperie dei mesi invernali scelti all'uopo, anche da una serie di accorgimenti presi dai quattro libertini.
Oltre a loro, e tolte le sei donne addette alla cucina e al servizio, l'azione principale del romanzo prevede altri 36 personaggi, quanti ne può ospitare il piccolo castello, ripartiti in gruppi di quattro o otto persone: 4 mogli/figlie dei quattro libertini, che si sono imparentati tra loro sposando gli uni le figlie o nipoti degli altri; 4 narratrici/attrici addette a illustrare con esempi i quattro diversi tipi di passione oggetto di insegnamento; 4 vecchie fantesche degradate dal vizio e addette alla vigilanza dei due gruppi di ragazzi e ragazze; 4 "fottitori" maggiori (superdotati e utilizzati per soddisfare, ogni notte a turno, le passioni sodomitiche dei quattro libertini; sono nominati e descritti nel dettaglio da Sade) e 4 minori (meno dotati fisicamente dei precedenti, non sono né nominati né descritti nei particolari); più due "serragli", formati l'uno di 8 femmine e l'altro di 8 maschi, tutti e tutte di età compresa tra i dodici e i quindici anni, prima sottratti a famiglie del più elevato lignaggio possibile e poi scelti in base alla loro assenza di imperfezioni fisiche al termine di una lunga catena di severe selezioni che li ha ridotti di volta in volta di numero. L'idea originale dei quattro libertini prevedeva di scegliere i 16 tra 144 soggetti di un sesso e 144 dell'altro, ma poi, a causa delle circostanze pratiche delle ricerche dei soggetti da rapire a cui vanno incontro le ruffiane e i loro aiutanti, il numero che viene loro presentato è alla fine di centotrenta ragazze (più controllate e quindi più difficili da rapire) e centocinquanta ragazzi. Da notare come Sade sembri tenerci a insistere su una numerologia di tipo biblico: il 4 è il numero del nome divino (tetragramma) mentre il numero 144 non può non far pensare al libro dell'Apocalisse.
Le ruffiane - scrive Sade a proposito del serraglio femminile - dovevano cercare soprattutto nelle case oneste, e non si sarebbero tollerate ragazze per le quali non fosse stato possibile dimostrare ch'erano state rapite o da un convento molto rinomato che le ospitava o dal seno stesso della famiglia, purché fosse una famiglia di alto lignaggio. Chi non appartenesse a una classe superiore alla borghesia e chi, pur appartenendo a questo ceto superiore, non fosse virtuosa, vergine e bellissima, veniva rifiutata senza pietà.

Da notare anche il tono beffardo che assume, nel finale del paragrafo, quel "senza pietà", dove il tipico gioco del rovesciamento di prospettive di Sade capovolge in senso grottesco la verità della situazione: saranno in realtà proprio le prescelte, le ragazze destinate a essere trattate a tutti gli effetti senza pietà.


La selezione delle ragazze destinate a comporre il serraglio femminile in Salò o Le 120 giornate di Sodoma.
Nel romanzo di de Sade è un dente sproporzionato rispetto agli altri a determinare l'esclusione di una ragazza.


Venendo invece a quelle che si potrebbero definire, con una metafora scacchistica, le regine nere del gioco, o le corrispettive femminili dei quattro libertini, cioè le attrici addette alla narrazione, si tratta in questo caso di quattro donne rinomate come campioni di dissolutezza morale ma ormai instradate sul viale del tramonto. "Necessariamente," precisa Sade, "essendo l'esperienza la condizione essenziale in casi simili". Altra condizione necessaria: che fossero "dotate di una certa eloquenza". Delle quattro, Madame Duclos è addetta alla narrazione con esempi delle 150 passioni di tipo semplice, Madame Champville delle 150 di tipo composito, la La Martaine delle 150 di tipo criminale e la Desgranges, infine, delle 150 di tipo omicida. "Questo perché," precisa ancora Sade, "è assodato che tra i veri libertini le sensazioni auditive sono quelle che lusingano maggiormente e che suscitano le impressioni più vive", certo in conseguenza del fatto che, di tutte le impressioni dei sensi, le auditive sono quelle che lasciano maggiore spazio all'immaginazione, che è il primo motore dell'erotismo.

Poi, una volta che tutti i personaggi, maggiori e minori, sono stati disposti sulla scena del romanzo come pezzi su una scacchiera, lo scrittore dà finalmente inizio a quella che Roland Barthes ha da qualche parte definito un'orgia di parole gestita da Sade con una sapienza compositiva straordinaria. Un esperimento letterario, tanto mostruoso quanto magistrale, tutto teso a verificare gli esiti della tensione ai limiti del possibile di un pensiero che apra la vita individuale unicamente all'orizzonte del nulla, e di cui lo stesso scrittore e i suoi incauti lettori sono le cavie da laboratorio. Sade, scrive Bataille millantò soltanto.
Ma la sua millanteria fu necessaria all'elaborazione di un pensiero scevro da debolezze. Sade, nella sua vita, tenne conto degli altri, ma l'immagine che ebbe del soddisfacimento e che riprese nella solitudine della prigione esigeva che gli altri cessassero di contare. Il deserto che fu per lui la Bastiglia, la letteratura divenuta l'unico sfogo della passione, allontanarono i limiti del possibile al di là dei più insensati sogni che l'uomo avesse mai formulato. In virtù di una letteratura condensata nella prigione, ci è stata data un'immagine fedele dell'uomo al cui cospetto gli altri non contano più nulla.***

In più, ad aumentare l'effetto di questa negazione, molte delle vittime racchiuse tra le mura del castello, ed entrano ed escono a rotazione dalla scena di una narrazione che procede implacabile senza che la tensione si allenti mai per un istante, sono caratterizzate nella pienezza della loro umanità, in perfetta antitesi al ruolo di meri oggetti di piacere loro assegnato dai padroni del gioco. E se anche, a prima vista, può sembrare che Sade ce la metta tutta per farci odiare i suoi carnefici e simpatizzare con le loro vittime, il suo atteggiamento è piuttosto quello neutrale del giocatore di scacchi che, immerso in una glaciale solitudine, sposta i pezzi su una scacchiera da lui stesso ordita e dove il bianco e il nero sono rappresentati dai due veri agenti in gioco al di là di ogni apparenza, emblemi del dualismo irriducibile del mondo sadiano, al cui interno la natura parla con due soli voci: le due forze che Sade rende manifeste nella sua letteratura attraverso l'opposizione di virtù e vizio. Ma la corrispondenza con il gioco degli scacchi è ancora più calzante se si considera che la storia include anche un intero regolamento messo su carta dai quattro libertini in apertura del libro, un regolamento che non solo scandisce con metodica precisione lo svolgersi delle giornate al castello, ma anche prevede dei regimi di disciplina variabili a seconda del gruppo di persone a cui sono rivolti: dal più ferreo e spietato riservato ai giovani membri dei due serragli al più lieve, e più soggetto a trasgressioni, che i libertini riservano a loro stessi, così da regolare i loro comportamenti sulla base di un incremento a tappe delle dosi di violenza dei loro atti trasgressivi, in parallelo con il crescendo evocato dalle impressioni auditive trasmesse loro dalla successione dei racconti dei quattro diversi tipi di passioni.


* * *


Note al testo

* Georges Bataille, La letteratura e il male, pag.114. SE, 1987. Trad. di Andrea Zanzotto.

** Ibid., pag. 111.

*** Georges Bataille, L'erotismo, pag. 159-60. ES, 1997. Trad. di Adriana Dell'Orto.

Tutte le citazioni da Le centoventi giornate di Sodoma sono tratte da: D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma. ES, 1991. Traduzione di Giuseppe De Col.

L'immagine iniziale del post è un ritaglio da un poster tedesco del film Salò o Le centoventi giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975).

The Pleasure of Pain II - Breaking the Butterfly: L’educazione sadico-sentimentale [Lucius Etruscus]

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Butterfly Kiss

Eunice (Samantha Morton)
Eunice è una donna cattiva. Questo termine nella lingua italiana ha perso molto del suo smalto, è più facile sentirlo usare per rimproverare un bambino o un cane, ma “cattivo” è l’unico aggettivo che si possa utilizzare per Eunice, a meno di non andare su una descrizione più minuziosa come “assassina seriale psicopatica”. No, non è la stessa cosa, non rende affatto, perché se The Addiction di Abel Ferrara ci ha insegnato qualcosa è che non siamo cattivi perché compiamo il male, ma compiamo il male perché siamo cattivi.
Eunice è cattiva e compie il male. Ma non è sadica, non prova alcun piacere nell’uccidere e anzi lo fa nel più rapido modo possibile: non cerca il dolore all’esterno, perché le basta quello al suo interno. Le basta quello del suo corpo martoriato da catene e piercing, che le torturano le carni. Questo però non fa di Eunice una masochista: lei cerca la punizione, e quando non può punire gli altri punisce se stessa.
Nella sua attività di frequentazione dei benzinai in cerca di vittime, un giorno incontra Miriam, che è buona. Una parola che ha subìto lo stesso trattamento della sua controparte e nell’italiano colloquiale raramente la si sente non riferita ad una bambina che si è comportata bene o, nella sua storpiatura, riferita ad una donna attraente. Miriam non è nulla di tutto questo, è una donna buona. È un angelo, ma non nel senso cattolico del termine.
Miriam afferma di non sapere nulla, non ha vita sociale e vive con la nonna paralizzata che chiama mamma; non ha amiche, non ha amanti, ha solo una parente dimentica di sé con cui non ha alcun rapporto. Miriam è acqua limpida, che basta una goccia di male per intorbidire completamente.
L’incontro di Eunice e Miriam è fatale per entrambi, perché è il male che incontra il bene ed entrambi rimangono affascinanti l’uno dell’altro, ed entrambi si sgretolano. Entrambi si trasformano avvicinandosi.


Miriam si innamora di una donna folle che gira la città cercando una fantomatica Judith, sua precedente amante a cui scrive lettere e che probabilmente è solo il frutto della sua mente deviata. Non così deviata, però, da non avere ben chiaro il proprio comportamento:

Eunice: «Lo so che sono una persona cattiva.»
Miriam: «Che stupidaggine, non esistono le persone cattive.»

Dopo questo scambio di parole, Eunice dovrà dimostrare a Miriam che invece esistono, le persone cattive, e non parla solo di lei stessa: esistono persone cattive anche fra le sue vittime. E per spiegarglielo, la cattiva dovrà far diventare cattiva anche la buona:

«Credi di farmi diventare buona? Ti farò diventare cattiva prima che mi fai diventare buona.»

Inizia il gioco sadico, in cui Eunice comincia a dare ordini sempre più crudeli e psicologicamente provanti alla donna buona, che esegue tutto alla lettera per il più folle dei motivi: l’amore. C’è da seppellire un corpo? C’è da giocare al gatto e al topo con una vittima? C’è da soddisfare le voglie di un camionista? La risposta è sempre la stessa: la cattiva ordina alla buona di eseguire quei compiti, perché capisca che esiste il male nel mondo e la smetta di essere buona. Per farle capire che non esistono gli angeli ma solo i diavoli.
Miriam esegue tutto, scende all’inferno con Eunice ma lo fa da angelo: ad un certo punto le dà un piccolo bacio, e lo chiama “il bacio dell’angelo”, anche se viene subito corretta: si chiama “il bacio della farfalla”. È il segno che l’amore della buona per la cattiva, dell’angelo per il demone non si è trasformato. Miriam non può più definirsi buona, dopo il male che ha compiuto, ma ha fatto tutto per amore... e questo non la rende cattiva. Anzi, questo ha spezzato il piacere sadico con cui Eunice ha cercato in ogni modo di corromperla.
Come ha sempre fatto, la cattiva non potendo punire l’altra – il cui amore rende inutile ogni punizione – punisce se stessa, e dà l’ultimo ordine a Miriam, il gesto cattivo per eccellenza, il sadismo più sopraffino ma allo stesso tempo il gesto d’amore massimo che si possa chiedere ad un amante: uccidere ciò che si ama.


Destinato a diventare famoso con il successivo Go Now, e a non veder quasi mai questo titolo citato negli articoli che lo riguardano, Michael Winterbottom è ancora un regista ignoto quando presenta un film tanto volutamente ruvido e rozzo quanto di una potenza bruciante. Avendo esordito con un documentario su Ingmar Bergman tradisce una passione forse latente: quella per avere in video delle protagoniste femminili che si distruggono senza pietà. Una mia personale fantasia è che Butterfly Kiss sia una versione “riveduta ed aggiornata” di Persona (1966) di Bergman: il “vampirismo” per cui due donne profondamente diverse finisco per contagiarsi fino ad una fusione aberrante e fino a cambiare radicalmente la propria vita è tutta lì. Però, ripeto, è solo una mia personale fantasia.
La newyorkese Amanda Plummer (figlia del celebre Christopher) e la londinese Saskia Reeves danno il massimo che si possa chiedere ad un’attrice: tutta se stessa e un po’ di più. Niente trucco, niente vestiti “cinematografici”, niente abbellimenti: due donne “nude” davanti all’obiettivo che soffrono e sanguinano per lo spettatore. Amanda mostra senza veli il suo fisico “incatenato” e Saskia è una perfetta donna normalissima, della porta accanto, che si ritrova a seguire un’assassina psicopatica mostrandosi sinceramente innamorata. La sceneggiatura di Frank Cottrell Boyce (fedele collaboratore del regista) sembra scritta addosso ai loro corpi e ai loro volti, sposandosi alla perfezione, così tanto che non potrete più vedere Amanda Plummer in un qualsiasi altro ruolo. (E in effetti non è che la sua produzione filmica sia così prolifica.)
Avevo 21 anni quando vidi questo film al cinema, innamorandomene perdutamente. Aspettai i titoli di coda per memorizzare il nome di quella cantante dalla voce d’angelo che aveva accompagnato tutta la storia, perché dovevoassolutamente ritrovare quelle canzoni che mi avevano dilaniato il cuore, soprattutto nel finale. Segnai i nomi ricorrenti e il giorno dopo volai al negozio di musica del mio quartiere e chiesi al gestore se per caso avesse mai sentito quei nomi. Lui mi guardò come se io fossi appena sceso da un’astronave, e solo per educazione non mi ha risposto in faccia qualcosa come «Ma dove hai vissuto finora?». Allungò una mano sullo scaffale delle novità e mi passò il CD dove ritrovai le canzoni del film. Il titolo era No Need to Argue, il gruppo era The Cranberries e la cantante era una certa Dolores O’Riordan, la voce di un angelo per accompagnare l’ultimo viaggio di un diavolo.


* * *

Le onde del destino

Jan e Bess (Stellan Skarsgård e Emily Watson)
Passa un anno e la stessa Lucky Red si occupa di distribuire una storia diversa ma identica, ambientata anche stavolta in Gran Bretagna ma in una zona ancora più rude e ruvida: quel Mare del Nord dove il gelo si annida nell’anima molto più che nell’acqua.
Stavolta la coppia è “tradizionale”, e assistiamo al matrimonio di Bess con Jan, uomo e donna: non basta però, per il rigido culto locale. Jan è uno straniero, non fa parte della comunità chiusa e intransigente del posto e già questo fa partire male la famiglia appena nata.
Bess deve sopportare ciò che tutte le donne del luogo sopportano: i lunghi mesi di solitudine mentre i mariti sono sulle piattaforme di trivellazione, ma Bess in realtà non è mai sola, sebbene soffra moltissimo: lei parla con Dio... facendo anche la Sua voce. Ed è Lui che interroga sul da farsi quando Jan torna gravemente ferito da un incidente di lavoro: sopravvive... ma rimane paralizzato. Il danno fisico non è il vero problema, perché come Jan stesso scrive su un foglio di carta:

« La mia mente è cattiva» (I’m evil in head)

Quello che è tornato non è più lo stesso uomo che Bess ha sposato, perché quella trivella sembra aver forato qualcosa che era dentro di lui: ce l’ha insegnato Eunice nel precedente film, il male è sempre dentro di noi. Ora dunque Jan è cattivo, perché si sente vicino alla morte e in quel momento – ci viene detto – si diventa cattivi. Bess però parla con Dio e sa che se eseguirà gli ordini del marito lui si salverà e guarirà: inizia un perverso gioco al massacro mosso dal più sadico dei sentimenti, l’amore.


Jan ormai è impotente e vuole che Bess faccia sesso con altri uomini, assegnandole compiti sempre più difficili e scabrosi, trasformandola in pratica in una prostituta, lei che è nata e cresciuta in una comunità di bacchettoni integralisti. La donna soffre sempre di più ma non mette in discussione questo suo ingrato compito, perché i fatti le danno ragione: più lei sottostà al gioco sadico, più si perde, più è dannata... più Jan guarisce. Il patto con Dio funziona, e come nel precedente film c’è solo un atto definitivo di fusione che si possa compiere, fra il bene e il male: quando uno si annulla per l’altro.
Quando il dottore che ha seguito il caso, che è stato testimone muto ed immobile degli eventi – proprio come Dio, ci insegna Bergman – deve redigere il suo rapporto e gli viene chiesto espressamente di descrivere Bess, la scelta di parole è essenziale:

«Se lei volesse chiedermi di riscrivere la conclusione, allora invece di “nevrotica” o “psicotica”, be’... mi limiterei ad usare una parola come “buona”.»

Miriam e Bess sono donne buone, ma nel senso che Lars Von Trier ha dato alla parola: sono donne troppo angeliche per un mondo così lordo, sono delle idiote dostoevskijane, sono cioè pure che agli occhi dei corrotti sembrano stupide. Non sono fatte per questa terra, quindi sono angeli caduti: così per un certo periodo Lars Von Trier ha voluto intendere alcuni suoi personaggi.
Miriam e Bess credono nell’amore e sono disposte a tutto pur di assecondarlo, ed essendosi innamorate di persone cattive non possono fare altro che perseguire il male, assecondare il sadismo che il loro amore genera perché sanno bene che il dolore che provano contribuirà a sgretolare la cattiveria dei loro rispettivi amanti crudeli.
Può esistere una donna buona che sia amata da un uomo buono? È quello che si augurano tutti, perché l’impressione è che invece abbia ragione Von Trier e le donne buone siano angeli con una missione: essere sacrificati ad amanti sadici per annullarne la cattiveria.

* * *

Filmografia

Butterfly Kiss(id.): a parte un paio di apparizioni sui quotidiani dell’epoca, il sottotitolo italiano “Il bacio della farfalla” non viene mai usato. Presentato in anteprima al Festival di Berlino il 15 febbraio 1995 e poi al nostrano Taormina Film Festival nel luglio successivo, esce in patria il 18 agosto 1995 e arriva subito nelle sale italiane dal 25 agosto successivo per Lucky Red: la stessa casa lo porta in VHS. In data ignota la Koch Media lo presenta in un’edizione DVD apparsa e scomparsa in un lampo, ed oggi materiale per collezionisti.
Regia di Michael Winterbottom. Sceneggiatura di Frank Cottrell Boyce. Con Amanda Plummer e Saskia Reeves.


Le onde del destino (Breaking the Waves). Presentato in anteprima il 13 maggio 1996 al Festival del Cinema di Cannes, gira per i festival di tutto il mondo prima di arrivare nelle sale italiane l’11 ottobre 1996 per Lucky Red: la stessa casa lo porta in VHS nel 1997. La DNC ristampa il film in VHS dal 15 dicembre 1999 e la Medusa Video lo ristampa in VHS e DVD dall’8 ottobre 2003, e poi ancora nel 2008. La Cecchi Gori lo ripresenta in DVD dal 23 luglio 2013.
Regia di Lars Von Trier. Sceneggiatura di Lars Von Trier e Peter Asmussen. Con Emily Watson e Stellan Skarsgård.

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Non solo blogger ma anche scrittore
pubblicato da Zenzero Editore.
Chi segue Lucius Etruscus attraverso l'uno o l'altro dei suoi numerosi blog non avrà certo mancato di riconoscere, in ciò che ha appena letto, il suo marchio di fabbrica, che è la produzione di articoli documentati e corposi. Autore sempre generoso e prolifico, questo è il primo di ben due guest-post con cui si è offerto di partecipare a questa edizione autunnale di The Pleasure of Pain, dopo aver fatto altrettanto con l'edizione primaverile. In quell'occasione, su The Obsidian Mirror, erano apparsi di suo un lungo speciale in tre parti sulla figura di Leopold von Sacher-Masoch, involontario ispiratore del termine "masochismo", intitolato Il dolore di essere Masoch, più un megapost sulla saga cinematografica di Hellraiser dall'emblematico titolo Lasciate ogni speranza... per un totale di quattro post che è inutile dire che meritano il recupero oltre ogni dire.
In questa sede, Lucius ha invece deciso di occuparsi di cinema in entrambi i suoi articoli e per questo l'ho citato tra i partecipanti allo Speciale in qualità di rappresentate del suo blog di cinema Z ma non solo Il Zinefilo. Non anticipo nulla qui sul contenuto dell'altro suo post, che sarà online la prossima settimana, salvo la notizia che nel caso due film vi siano sembrati già un buon numero sappiate allora che in quell'occasione il conto salirà addirittura a tre. Nel frattempo, però, non sarà certo l'ozio a farla da protagonista, poiché già questo venerdì ci attende ancora un viaggio nel cinema sadico (per distinguerlo da quello sadiano o sadista, ispirato direttamente alla figura o alle opere di de Sade), a cura di un'autrice assai meno visibile di Lucius ma che non mancherà comunque di deliziarci a sua volta con un excursus in un'altra accoppiata di film. Preparatevi soltanto, per l'occasione, a un  balzo ancora più indietro nel tempo: dagli anni '90 ai trasgressivi, cinematograficamente parlando, anni '70.

[I. L.]

The Pleasure of Pain II - La meccanica della violenza: Burgess, Kubrick, Warhol [Simona B]

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Se c’è qualcosa che caratterizza la società umana fin dai suoi albori, quella è la violenza. Diverso è il concetto di sadismo, perché presuppone alla base una pulsione/tensione erotica, sessuale; in parole povere, il sadico è sempre un violento, ma non sempre il violento è anche un sadico. Tuttavia, si tende spesso a confondere le due cose, e per questo ritengo un classico moderno come Arancia meccanica il punto di partenza ideale per riallacciarsi al tema cardine di questo speciale. Anthony Burgess pubblicò il suo romanzo distopico (o meramente sociologico, se preferite) nel 1962, anche se a onor del vero la prima edizione italiana, di sette anni successiva, portava il titolo di Un’arancia a orologeria. Solo in fase di ristampa il titolo venne modificato in Arancia meccanica, per sfruttare al meglio, dal punto di vista commerciale, l’eco del film di Stanley Kubrick che nel frattempo (nel 1971) aveva ottenuto un successo planetario. Mai prima di allora (o forse mai in assoluto, perlomeno non con questa potenza) due opere artistiche dal diverso linguaggio, come quello letterario e quello cinematografico, erano divenute tanto complementari da costituire quasi un unicum. La storia parla di violenza a più livelli, non solo fisica e mentale, ma anche sociale e politica e anche se conoscete tutti la trama, immagino, vale la pena tratteggiarla ugualmente, perlomeno nelle sue linee generali.

Il protagonista, Alex (con il volto dell’immenso Malcom McDowell), è un giovanissimo teppista a capo di una gang dedita al furto, ai pestaggi e agli stupri. Un bel giorno viene arrestato dopo essersi introdotto nell’abitazione di una vecchia gattara, che in seguito all’aggressione muore. Alex viene condannato a una lunga pena, ma finirà per uscire dal carcere dopo appena un paio d’anni grazie alla nuova, sperimentale, cura Ludovico.

La cura Ludovico è una forma di condizionamento mentale con cui lo Stato intende eliminare nei delinquenti la propensione al crimine. Il lavaggio del cervello viene completato in quindici giorni durante i quali Alex subisce l’iniezione di un farmaco che provoca un’intensa nausea e poi, legato alla sedia e con le palpebre tenute aperte a forza, viene costretto a una totale immersione nella violenza. La violenza viene “somministrata” tramite dei film incentrati su stupri, omicidi e altre amenità che lui è costretto a visionare, uno dopo l’altro, per ore, il che crea un curioso cortocircuito nel lettore e, nello spettatore del film di Kubrick, anche una riflessione metacinematografica (poiché il suo Arancia meccanicaè un prodotto del linguaggio cinematografico stesso).


In seguito, ogni volta che Alex sarà sul punto di esercitare violenza fisica o verbale, o anche solo immaginerà di farlo, si ritroverà di riflesso in preda a un malessere così intenso che dovrà abbandonare i suoi propositi. Non si può dire quindi che il suo istinto criminale sia stato soppresso, ma gli è ora impossibile metterlo in pratica. La cura però ha anche un effetto collaterale, perché provoca in lui una profonda idiosincrasia per tutto ciò che la sua mente ricollega anche vagamente ai film; innanzitutto il sesso, che nei film era ovviamente esercitato sempre in modo coercitivo, e poi la musica, dato che le immagini ultraviolente erano spesso accompagnate da un sottofondo musicale. In particolare, Alex non riesce più ad ascoltare la Nona di Beethoven, il suo compositore preferito, che ironicamente porta anche il nome della cura che ha subito (in originale si parla proprio di cura Ludwig).

Il trattamento ha reso Alex un’arancia meccanica¹, una sorta di automa fatto di carne e sangue, incapace di esprimere qualunque pensiero o comportamento socialmente inaccettabile; in questo modo, però, lui ha anche perso la propria umanità, intesa come volontà e capacità di scelta. Condizionare la sua mente significa privarlo della possibilità di cambiare, privarlo insomma del suo stesso futuro. Secondo Kubrick, questo sarebbe una metafora del processo di civilizzazione volto a trasformare l’uomo “naturale” in un nevrotico rappresentante della comunità, un processo inevitabile ma da tenere sotto controllo².

Uscito di prigione, Alex si ritrova in balia di alcune delle sue precedenti vittime. A nulla valgono le proteste che ha già pagato il suo debito con la legge e che ora, così avulso dalla violenza, non è neppure più in grado di difendersi: la società non sembra pronta a dimenticare i suoi peccati. Ma Alex diviene anche la vittima di un gruppo di attivisti politici contrari alla cura Ludovico e decisi a sfruttare la sua esperienza per rovesciare un governo in odore di totalitarismo…

Per riallacciarci un momento all’incipit del post, sono sadici i teppisti protagonisti di Arancia meccanica? Forse sì e forse no: una volta esaurito lo stimolo sessuale il sadico perde interesse per la violenza, mentre per questi personaggi questa sembra essere più che altro uno stile di vita. Ciò che accomuna il sadico e il violento, comunque, è la mancanza di empatia per il prossimo; la stessa empatia che il nostro Alex chiede però al lettore quando, nella terza parte del libro, gli narra le sue tribolazioni. Benché provenga da un quartiere popolare, Alex ha due genitori normali e dimostra perfino una minima cultura e un certo gusto (la musica classica); dobbiamo quindi supporre che sia malvagio perché ha scelto di esserlo e non per via di qualche tara mentale o induzione del suo ambiente natale/della sua educazione, il che vuole smentire un certo darwinismo, o lombrosismo, che dir si voglia.

È dunque preferibile il male al bene quando quest’ultimo viene imposto e non è il frutto di una libera scelta?
Che cos’è che Dio vuole? Dio vuole il bene o la scelta del bene? Un uomo che sceglie il male è forse in qualche modo migliore di un uomo cui è stato imposto il bene? si chiede il cappellano della prigione, ma è una domanda di cui nessuno conosce la risposta. Qualcuno, non ricordo più chi, una volta disse che il mondo senza il male sarebbe un luogo orribile; ecco, ci ho pensato a lungo, ma mi riesce difficile coltivare dentro di me simili certezze.


Spesso il male è anche una conseguenza diretta del voler far del bene a tutti i costi (vi dice niente l’espressione “bugia a fin di bene”?). Ma naturalmente, oltre a questi sono ben altri i significati che qui si intende trasmettere. La prima riflessione da fare riguarda il ruolo dell’Autorità, quella sì, davvero sadica, se per perseguire il bene ritiene lecito istituire un clima repressivo e lesivo della libertà personale, che tollera la violenza quando proviene da se stessa (tanto è vero che uno degli ex accoliti di Alex finirà con l’arruolarsi in polizia). Si apre poi una riflessione sull’effettiva pratica del perdono, anche e soprattutto in quelle società permeate, o così sembra in superficie, dal sentimento religioso. In passato, fu dall’assunto secondo cui il fine giustifica i mezzi che nacque la persecuzione su “eretici” e “streghe/stregoni”; e non dimentichiamo che in Inghilterra e negli Stati Uniti la fustigazione, anche privata, fu legale perlomeno fino agli anni ’30 del Novecento, il che significa che bastava trovare una finalità alla violenza per renderla moralmente accettabile. Qual è dunque, se esiste, il confine tra punizione e tortura? Chiamatela come volete, ma la cura Ludovico è una vera e propria tortura di stato: che le sofferenze inflitte siano fisiche o morali, comportano comunque dolore e disperazione. Da qui al tema della pena capitale il passo è breve, ma non è questa la sede adatta per parlarne.

Ci sarebbe poi da affrontare la misteriosa questione dell’ultimo capitolo, presente nella versione inglese e italiana del romanzo ma assente in quella americana. Un capitolo che lascia intuire i germi del cambiamento o “redenzione” di Alex, non si sa bene se inserito da Burgess di sua volontà o, chissà, a seguito di pressioni del suo editore. Sorvoliamo, invece, e passiamo alla realizzazione filmica della storia…

Chi mi conosce bene sa che non amo molto Kubrick. È fin troppo cerebrale per i miei gusti, e raramente mi emoziona, ma devo ammettere che Arancia meccanicaè un capolavoro nel suo genere, un film visivamente magnifico che riesce a rendere perfettamente in immagini quell’ironia e leggerezza disseminate nel romanzo. Vedendolo per la prima volta, ben prima di leggere l’opera di Burgess, ero convinta che stemperare la violenza della storia fosse stato per Kubrick un atto deliberato: si pensi per esempio alla scena della battaglia fra le due bande rivali, coreografata dal regista come se fosse un balletto; alla successiva scena sul lungofiume, girata in ralenti, in cui Alex aggredisce due dei suoi per ristabilire la gerarchia; oppure alla scena di sesso tra Alex e le due ragazze, i cui invece fotogrammi scorrono sullo schermo accelerati in modo da alterare nello spettatore la percezione del tempo filmico e creare una sensazione di straniamento che accentui il lato farsesco della situazione (non per niente la visione extra diegetica è un espediente utilizzato spesso negli sketch comici); all’aggressione alla “signora dei gatti”, girata con la camera a mano e con l’apice della violenza che resta fuori campo; e così via.


Trattare argomenti così delicati in questo modo mi sembrava, come dire, poco appropriato. Irriverente, quasi (alla faccia di chi, invece, alla sua uscita giudicò il film troppo violento, e in quella violenza vide persino del compiacimento). Ma la verità è un tantino diversa da come me la figuravo, perché anche il libro è costruito nello stesso modo: il punto di vista offerto al lettore è sempre e solo quello di Alex, il narratore, e anche il suo particolare slang contribuisce ad “alleggerire” situazioni che altrimenti sarebbero insostenibili (a proposito, un plauso alla traduttrice Floriana Bossi, che ha avuto il non semplice compito di inventarsi un analogo gergo in italiano e lo ha svolto in modo, secondo me, egregio). Immaginate l’impatto della seguente scena di stupro scritta in italiano corrente. Molto peggiore, vero?
Questa volta, fratelli, apparve immediatamente una giovane mammola a cui facevano il vecchio vaevieni, prima un malcico poi un altro poi un altro poi un altro, e lei scricciava a più non posso molto altisuono attraverso gli stereo insieme a una musica molto patetica e tragica. […] E quando si arrivò al sesto o settimo malcico ghignante e gufante che ci dava dentro e la quaglia che scricciava nella colonna sonora come scardinata, io cominciai a sentirmi male.

La grandezza di Kubrick sta nell’essere riuscito a ottenere un effetto simile con un mezzo diverso, qual è quello del cinema, tramite un’oculata scelta dei movimenti di macchina, il montaggio e l’uso del suono. A parte questo, in qualche caso Kubrick modificò anche l’età dei personaggi (all’inizio del romanzo Alex ha quindici anni e le due ragazzine protagoniste della scena a tre descritta sopra circa dieci, un dettaglio irrappresentabile al cinema perfino dopo il precedente di Lolita).

In questo come in altri film di Kubrick la purezza formale si esprime prima di tutto con la simmetria, e questo è evidente fin dalla prima scena nel bar, con quella lunga carrellata all’indietro che svela il barocco ambiente del bar di cui Alex e i suoi gregari sono degli habitués, e in generale in tutte le scene negli interni e in moltissime altre, come ad esempio quella del pestaggio del senzatetto. Questa costruzione dell’immagine sembra fare da contraltare alle simmetrie seminascoste del romanzo (esemplificate da Alex, il narratore, e F. Alexander, l’autore del romanzo nel romanzo Arancia meccanica³, sua vittima e doppio speculare), mentre luci e ombre esprimono la dualità dell’animo umano presente in qualche misura in tutti i personaggi.

Tra Burgess e Kubrick c’è però un terzo incomodo che si tende spesso a dimenticare o a sottostimare: Andy Warhol. Non tutti forse sanno che il padre della Pop Art propose il suo personale adattamento del romanzo, Vinyl, già nel 1965, in linea con la maturazione della cifra stilistica del suo cinema.

Warhol viene tuttora considerato uno dei più importanti registi underground americani del dopoguerra, e probabilmente di tutti i tempi, anche se lo sperimentalismo alla base della sua business art, che non nacque né si esaurì col cinema, impedisce di considerarlo “solo” un regista, ma un visual artist a tutto tondo.
Com’è noto i suoi primi film, quelli del periodo muto, avevano una natura formalmente e filosoficamente “fresca” e anarchica: in barba alle regole correnti del fare cinema, il regista piazzava la macchina da presa e lasciava liberi gli attori di improvvisare, al più offrendogli uno spunto o un canovaccio da cui partire. Quello che gli interessava era soddisfare il suo voyeurismo, e forse quello del suo stesso pubblico, mostrando dei personaggi a lui cari (in genere membri della Factory) intenti a compiere atti comuni e banali come dormire, mangiare o fumare. E naturalmente fare sesso, pur fermandosi sempre alle soglie del realmente esplicito.

I suoi film erano quindi costituiti da un unico piano sequenza, senza alcuno stacco o movimento di macchina: in quelli più lunghi si continuava finché la pellicola non finiva, e con essa terminava anche il film. Talora Warhol si divertiva anche a sperimentare con la velocità di proiezione delle pellicole: proiettando a 16 fotogrammi al secondo anziché a 24 dilatava in modo artificiale la durata di film che, spesso, erano già in origine molto lunghi. Una percezione che, avendo un effetto straniante, era vista come provocatoria.

Semplificando, si può dire che, almeno nella prima parte della sua carriera cinematografica, Warhol concepisse i suoi film come dei quadri o delle fotografie, dove a contare era solo quanto rappresentato e nessun peso avevano la preparazione, la trama o un suo possibile sviluppo. Potremmo quindi definire il suo cinema contemplativo, nel senso sia di uno svolgimento dall’andamento lento (un’altra definizione di questo tipo di cinema infatti è slow cinema) che di una rappresentazione volta a mostrare la realtà, o comunque con la realtà che tende a prendere il sopravvento sulla finzione anche laddove il film segua una sceneggiatura. La contemplazione non è che una forma di meditazione, anche se dubito che la maggior parte della gente consideri la cosa in questi termini; forse neppure lo stesso Warhol, che si limitava a dire che, dato che il pubblico amava osservare le star, nei suoi film poteva osservarle e “saziarsene” a lungo. Resta il fatto che la prolungata osservazione di un soggetto finiva da un lato per portare alla luce la sua vera natura, dall’altro a trascenderla, rendendolo quasi astratto, o come minimo surreale. Così nacquero i miti della Factory, svelatisi prima di tutto a se stessi.

Vinyl presenta qualche differenza, perché appartiene al suo secondo periodo di cineasta, quello in cui il regista cominciava a sperimentare col sonoro e in cui gli attori avevano delle battute, è insomma un prodotto che comincia a somigliare all’idea di cinema classico a cui siamo abituati. In questo caso, a dire il vero, anziché recitare gli attori leggono le battute su dei cartelli posti al di fuori dell’inquadratura, di cui ci si accorge perché raramente guardano in camera, ma direttamente verso di essi. In altre parole, come spesso avveniva nei film di Warhol, anche qui non si fa nulla per celare l’artificio né per creare un effetto verità che, pure, si finisce per ottenere ugualmente. Ma andiamo per gradi.

Da sinistra a destra: Henry Geldzahler, Edie Sedgwick, Foo Foo Smith
Andy Warhol, Gerard Malanga, photographed by Steve Schapiro in New York City, 1965.

Il girato consiste in una serie di brevi scene riprese a camera fissa in un unico piano sequenza, che traspongono solo alcune situazioni (poche) del romanzo, o almeno questa è la mia impressione (è difficile quantificarle perché l’azione si svolge in contemporanea sia in primo piano che nella profondità di campo, dove quel che avviene è a tratti celato o semicelato e più che vedersi s’intuisce). Il protagonista, qui ribattezzato Victor, è interpretato da uno degli attori-feticcio di Warhol, il poeta Gerard Malanga, assieme ad altri volti noti come la bella Edie Sedgwick (qui alla sua prima apparizione in un film di Warhol in un ruolo che non ho ben capito, ma forse nulla più che una muta testimone degli eventi, anche se a dire il vero una sua minima interazione con gli altri attori c’è).

Le frasi dei protagonisti sono molto più crude ed esplicite di quelle presenti nel romanzo di Burgess. Sul set si dicono parolacce, si beve, si fuma, si balla. Il bianco e nero è gradevole ed efficace, ma le figure sullo sfondo risultano tagliate e talvolta poco definite; colpisce, tra le altre cose, la staticità degli attori nell’inquadratura, che d’altra parte è stretta; perfino Victor, nell’ultima parte, tende a scivolarne fuori.

Però le torture, per quanto molto blande a confronto con quelle del romanzo (spinte e schiaffi, frustate, bruciature di sigaretta, colate di cera bollente), non sono affatto simulate. Maltrattamenti, torture e lamenti degli attori sono veri… Quando poi viene messa in scena la cura Ludovico, il nostro Victor viene incappucciato e torturato, anche fisicamente, ma ora della fine lo ritroveremo avvinghiato al suo aguzzino in una sorta di balletto vagamente lascivo. Il tutto assume i contorni del sogno, o forse del delirio lisergico. Prima dicevo che nei film di Warhol la realtà tende a prendere il sopravvento sulla finzione e anche Vinyl non sfugge a questa regola (non solo per questo, ma anche a causa del fatto che sigarette, spinelli e polverine varie rendono gli attori euforici in un modo un po’ troppo realistico per essere una simulazione).


Insomma, laddove Kubrick cerca di smorzare la violenza, Warhol in un certo senso la accentua, ma per farlo abbandona la fedeltà alla storia per concentrarsi sulla messa in scena della trasgressione. Inutile negare che in Vinyl si finisce per perdere un po’ di vista il risvolto politico, distratti come siamo da quell’armamentario (fruste, borchie, cuoio…) in bella mostra: più facile è pensare all’immaginario sadomasochistico, eterosessuale o omosessuale, allo sguardo aperto o nell’atto di spiare, alla dimensione pruriginosa di quel particolare contesto. Al netto dei suoi difetti, comunque, e nell’accomunare lo spettatore agli attori ai margini della scena, il film possiede un suo strano fascino.

In seguito all’uscita del film di Kubrick, Warhol affermò che il regista newyorkese si era ispirato al suo lavoro e non è detto che avesse tutti i torti, ma va detto che tra Vinyl e Arancia meccanica c’è un abisso, non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello contenutistico. Eppure il suo film, tanto quanto quello di Kubrick, è un’esperienza che chiunque si definisca un cinefilo dovrebbe avere il coraggio di affrontare.


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Note al testo


¹٬³ Burgess spiegò che l’espressione “clockwork orange” faceva parte del dialetto londinese e che aveva cercato a lungo la maniera di usarla, finché infine non trovò la soluzione migliore: nel sceglierla come titolo del suo romanzo e del romanzo fittizio del personaggio F. Alexander, le donò una nuova dimensione e profondità. Per una spiegazione più approfondita vi rimando al saggio A Clockwork Orange Resucked dello stesso Burgess e/o a wikipedia.

² In qualche modo, il criminale “moderno” sembra dedicarsi alla violenza per via di una spinta “meccanicistica” interiore tanto più forte quanto più l’umanità si allontana dalla natura. Non a caso, oggi le forme più diffuse di violenza sono quelle a carico degli animali, e il bello è che sono quasi sempre legali e trovano una giustificazione nei benefici che apportano (o apporterebbero) al genere umano. La bontà e la generosità dell’umanità sono illusorie, una pietosa bugia che le persone si raccontano per continuare a fingere di non vedere le brutture del mondo.

⁴ Eticamente non c’è molta differenza fra partecipare alla violenza oppure assistervi senza intervenire. Come disse Martin Luther King, fa più paura l’indifferenza dei giusti che la cattiveria dei malvagi.


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Questo che avete appena letto è il secondo, e ultimo, dei guest-post di questo Speciale scritti da autori non titolari di un blog. Il primo era stato opera di Max, che aveva aperto la danza degli ospiti con un articolo sul libro La filosofia nel boudoir, mentre stavolta è toccato a Simona di farci vorticare, con un altro libro, Arancia meccanica (A clockwork orange) e i due film, così diversi tra loro, tratti dalle pagine dello stesso.
Il film di Kubrick ovviamente lo conoscevo, avendolo visto e rivisto, mentre Vinyl di Andy Warhol era per me un perfetto sconosciuto fino a un paio di mesi fa, quando ho letto in anteprima questo articolo. E' l'unica scusante che ho per non aver neanche saputo trattenere nella memoria l'informazione che il film era dei '60 anziché dei '70 come ho scritto in chiusura del post a firma Lucius Etruscus di due giorni fa, nell'invitarvi a tenervi pronti a un salto indietro nel tempo in questo secondo decennio.
Comunque sia, ignorantia mea a parte, ho trovato estremamente affascinante il percorso proposto in questo post da Simona, che per la verità, a dirla tutta, qualcosina a che fare con un blog ce l'ha, e con un blog che per di più considero tra i migliori in assoluto della blogosfera. So che molti di voi già sanno, mentre rinvio chi ancora non sapesse a questo post di un po' di tempo fa, di cui sono stato causa diretta, dove potrete confrontarvi con l'arcano e ottenere una risposta. Un po' come succedeva al mago elisabettiano John Dee (1527 – 1608, ritratto nell'immagine qui sopra), quando si poneva davanti al suo specchio di ossidiana. Avete presente, no?
[I. L.]

The Pleasure of Pain II - Towers of Sade: Il produttore di serie B che portò tre volte il Divin marchese al cinema [Lucius Etruscus]

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Harry Alan Towers


Forse il nome di Harry Alan Towers per il pubblico italiano oggi non ha più il peso che ha avuto per il pubblico internazionale di alcuni decenni fa, ma rimane uno dei più prolifici moviemaker della seconda metà del Novecento oltre che fra i signori della serie B. Fra le particolarità forse meno note di Towers è l’aver portato per tre volte l’opera di D.A.F. de Sade al cinema, in tre decenni diversi, e in due di queste occasioni regalato agli spettatori due interpreti molto particolari del Divin marchese in persona.
Quella che segue è una magica storia di puro cinema che si può raccontare grazie ad una lunga intervista con Towers che Christopher Koetting ha pubblicato nel 1996 sulla rivista specialistica “Fangoria”: dove non meglio specificato, quindi, le informazioni esposte di seguito provengono dallo stesso protagonista delle vicende.

Entrato nel mondo della radio con la Seconda guerra mondiale, fino agli anni Cinquanta Towers si ritrova a lavorare con tutti i grandi di quel settore. Poi passa alla televisione e primeggia anche lì, ma diventa sempre più difficile per un produttore indipendente resistere ai potenti mezzi delle major e dei network, così nel 1963 cambia una volta ancora lavoro: con il film Tamburi sul grande fiume, tratto da un romanzo dell’autore esplosivo del momento Edgar Wallace, la Towers of London diventa la casa pronta a conquistare il cinema indipendente.
Il primo successo nasce dall’aver acquistato i diritti dei personaggi di Sax Rohmer e aver ingaggiato la star Christopher Lee per interpretare Fu Manchu in una serie di fortunati titoli. Towers comincia a sfornare film su film e fa amicizia con altri indipendenti, che è il suo modo di stringere accordi: fa amicizia con Sam Arkoff della AIP, noto autore di film a basso costo, e comincia a lavorare con lui, idem per Run Run Shaw che gli apre il mercato di Hong Kong. (All’epoca magari non si sa ancora, ma Shaw della Shaw Bros è il signore assoluto del cinema nel suo Paese.) Sul finire degli anni Sessanta è proprio Arkoff a presentare a Towers un giovane autore molto controverso: un certo Jésus “Jess” Franco.


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Marquis de Sade: Justine


Towers accetta di lavorare con lui ma bisogna chiarire cosa voglia dire fare cinema secondo l’ottica di questi due personaggi. Per esempio, siamo sul set di 99 donne (1969) ma a riprese iniziate e con il cast femminile fermo sull’isola-prigione... di Franco non c’è traccia. È ancora a Rio de Janeiro a girare The Girl from Rio (in Italia, Sumuru regina di Femina), scritto e prodotto dallo stesso Towers. Cosa fa quest’ultimo? In un fine settimana riscrive al volo una sceneggiatura, basandosi su un vecchio copione che Harold Goldman gli aveva mandato tempo prima, e nei successivi sei giorni gira trenta minuti di film: la fuga delle donne dalla prigione. Porta il girato alla Commonwealth United, il cui presidente è proprio Goldman, il prodotto piace e riceve dalla casa finanziamenti per ingaggiare attori più noti e completare le riprese. Non stupisce che il risultato sia un indigesto film-puzzle palesemente raffazzonato che, inoltre, ha subìto vari montaggi alternativi con inserimenti posticci di scene pornografiche del tutto ingiustificate. Towers e Franco non fanno arte, fanno “roba” come capita e ne fanno tanta, così che qualcosa piaccia. 99 donne, costato una cifra irrisoria anche per l’epoca, è un grande successo in America e lì guadagna tantissimo.
Completati questi due film problematici, Towers e Franco vogliono fare un salto di livello. Il produttore scopre che l’amico Sam Arkoff con la sua AIP sta producendo un grande affresco storico dal titolo De Sade, con la regia ufficiale di Cy Endfield e con l’aiuto ufficioso di “giovani talenti” come Roger Corman e Gordon Hessler. Il film è una fucina di talenti, c’è Richard Matheson alla sceneggiatura e Senta Berger come protagonista: perché non unire le forze? Già che si trova producendo un film sul marchese de Sade, perché la AIP non dà qualche soldo a Towers per fare un film tratto da una delle opere del Divin marchese? Arkoff accetta e con il suo contributo Towers può andare a chiamare attori noti come Jack Palance, anche se giusto per una comparsata.

Justine o le disavventure della virtù: Jack Palance e Romina Power nei ruoli di Padre Severino e Justine.

Ispirato al romanzo omonimo del 1791 di de Sade e scritto dal produttore Towers sotto il suo consueto pseudonimo Peter Welbeck, Justine o le disavventure della virtùè un’avventura in costume che racconta con sguardo lieve le avventure “a tema” di due sorelle, Justine e Juliette, di buona famiglia ma rimaste orfane e costrette a fare una fondamentale scelta di vita: Justine sceglie la via della virtù e subirà mille angherie per mantener fede ai propri valori, mentre Juliette si lascia tentare dal vizio e, passando di letto in letto, avrà fortuna e ricchezza ma un cuore svuotato. Quando finalmente le due sorelle si rincontreranno, sarà un momento per confrontare le proprie scelte e i profondi cambiamenti che queste hanno lasciato nella propria anima.
Per il ruolo di Juliette il produttore utilizza la sua musa, l’attrice austriaca di molti dei suoi film sin da quando l’ha scoperta 18enne in un provino: sua moglie Helga Grohmann dal nome d’arte di Maria Rohm. Per il ruolo della protagonista Justine pare che originariamente fosse stata scelta Rosemary Dexter, slittata poi nel ruolo di Claudine per far posto – a quanto pare su pressione di Towers – alla giovanissima Romina Power.

Justine o le disavventure della virtù: Rosemary Dexter, la "vera" Justine di Jésus Franco, nel ruolo di Claudine.

Subito massacrato dalla critica italiana e sbeffeggiato per decenni da quella estera, questa via di mezzo fra drammone in costume e commediola erotica viene in seguito definito da Towers «troppo avanti per quei tempi», e all’epoca Sam Arkoff non ha il coraggio di distribuirlo in modo appropriato, decretandone l’insuccesso. (In seguito diverrà film di culto grazie alle riscoperte dei fan e addirittura nel dicembre 2015 ne uscirà una edizione rimasterizzata in Blu-ray con inserti speciali.) L’unico Paese dove invece ha avuto un’ottima distribuzione e un buon successo è la Germania, per il semplice motivo che il marchese de Sade è interpretato da Klaus Kinski... che si è mangiato furioso le mani.
Quando Towers chiamò Kinski per il ruolo di de Sade, gli disse che la produzione era quello che era e non poteva pagargli più di 5 mila dollari in totale. Kinski rispose ridendogli in faccia: lui non lavorava mai per meno di 10 mila dollari al giorno. Towers non si scompose ed ebbe un colpo di genio: «Bene, ti pagheremo per mezza giornata di lavoro». E così fecero: presero l’attore a Barcellona la mattina, lo portarono al castello dov’era allestito il set e tutto ciò che doveva fare era guardare nel vuoto e fingere di scrivere con una penna d’oca. Nient’altro. E intanto Franco faceva i suoi zoom avanti indietro, come gli piaceva tanto.

Justine o le disavventure della virtù: Klaus Kinski nel ruolo del Divin marchese.

Il marchese de Sade è solo una comparsata muta di Kinski – doppiata in seguito da un attore che ne imitava la voce – poche scene girate in una mezza giornata ma che hanno permesso al film di uscire in tutta la Germania strombazzando Kinski protagonista: Towers aveva una star in locandina e l’aveva pagata solo 5 mila dollari, con grande disappunto dell’attore, che lavorò ancora con il produttore ma, stando a quanto afferma quest’ultimo, non gli perdonò mai quella “furbata”.


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La collaborazione fra Towers e Franco continua e i due sembrano essere molto affiatati. Nel 2015 la vedova Rohm racconterà alla rivista “Delirium” che quando Towers ingaggiava un regista non si metteva a discutere o a interferire con lui: una volta deciso a dargli fiducia, lo accettava così come veniva. Non stava sul set a fare questioni, per quello... incaricava la moglie! L’energia creativa fra i due comunque sembra finire con gli anni Sessanta e i loro ultimi lavori escono nel 1970. Come “canto del cigno”, Towers vuole tornare a raccontare una storia desadiana.


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De Sade 70


Conosciuto come De Sade 70 e nei Paesi anglofoni come Eugenie... the Story of Her Journey Into Perversion, il film non risulta aver avuto alcuna distribuzione italiana, al contrario del suo ideale seguito De Sade 2000 (Eugénie, 1973), scritto e diretto da Franco senza Towers.
Abbandonata ogni velleità “in costume” si torna ad un puro film “alla Franco”, con la storia di Madame de Saint-Ange (di nuovo Maria Rohm) che accetta la corte di un uomo (Paul Muller) solo a patto che questi sia disposto ad esaudire un desiderio della donna: avere nella propria isola ospite la di lui figlia Eugénie (l’appena 19enne svedese Marie Liljedahl). L’innamorato accetta ed inizia un lungo finesettimana in cui la donna e il fratello Mirvel (Jack Taylor) rendono la ragazza protagonista di mille avventure erotiche, il tutto con l’apparizione saltuaria di un coro molto speciale: uno svogliatissimo Christopher Lee, chiamato all’ultimo secondo per sostituire l’attore George Sanders, troppo malato per lavorare. L’attore si è dimostrato molto collaborativo ma in seguito, racconterà Towers, appena scoperto che si trattava in pratica di un film erotico chiese subito di far togliere il proprio nome dai crediti: cosa ovviamente impossibile, dato il grande richiamo.

De Sade 70 (Eugenie... the Story of Her Journey Into Perversion): Marie Liljedahl (dentro la vasca) e Maria Rohm.

«Quel film era basato su La filosofia del boudoir», racconta nel 1996 Towers, «non era male, sebbene parte del film fosse fuori fuoco. Vendette bene ma decisi che avevo chiuso con de Sade: in fondo aveva una filosofia a senso unico.»
Chiuso con de Sade, almeno per il momento, Towers chiude anche con Franco, lasciando trapelare dalle sue parole che ormai il carattere dei due non era più in sintonia come all’inizio della loro collaborazione.


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Il produttore attraversa tutti gli anni Settanta lavorando in modo alacre, finché con gli Ottanta viene inevitabilmente a contatto con i prodigi inarrestabili del cinema a basso costo: i due celebri cugini Menahem Golan e Yoran Globus, che con la loro Cannon stanno conquistando il mercato della serie B. Towers sin dall’inizio si prende alla perfezione con i due e inizia una stagione di grande produttività, sfruttando gli sgravi fiscali offerti dal Sud Africa per le proprie location. Tra un ninja e un lupo mannaro, nel 1989 c’è tempo anche per ripassare i classici, da Il mistero di casa Usher con Oliver Reed al Dr. Jekyll e Mr. Hyde: sull’orlo della follia con Anthony Perkins, dai Dieci piccoli indiani con Donald Pleasance a Il fantasma dell’Opera con Robert Englund: lavorando a questi due ultimi film Towers deve essere entrato in contatto con Gerry O’Hara.


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Night Terrors


Impegnato da decenni in ogni aspetto dell’industria cinematografica, le sceneggiature di O’Hara sono servite da base per molti film prodotti da Towers per case a basso costo, dalla Cannon alla Global Pictures alla Pathe, che poi sono tutti nomi che risalgono ai due cugini israeliani. Nel luglio del 1992 la Surge Productions, legata ad alcuni film di Yoran Globus, registra il copyright di un copione di O’Hara con il titolo Nightmare, e il titolo alternativo Eugenie’s Nightmare.
Intanto però c’è stata una scissione. Con la fine della Cannon, Menahem Golan ha fondato la 21st Century e il prodotto di punta è Il fantasma dell’Opera con Englund, che esce in 1.500 sale americane... per fare un tonfo colossale. È un flop su tutta la linea e la casa non ha futuro. Rimane una sceneggiatura pronta che però ora non può più essere girata: Phantom of Manhattan, il seguito della vicenda che ovviamente ora non ha senso concretizzare. Il copione viene riscritto all’infinito e poi, in un tentativo disperato di salvare la casa, Golan lo fa uscire come Danza macabra(1992), «una terribile fusione di Suspiriae Vestito per uccidere» lo definisce Towers, che si sbriga a far cancellare il proprio nome dai crediti.
Il rapporto fra Towers e Golan è finito, ma il contratto con la Cannon è ancora valido e la casa è ora gestita da Yoran Globus, che intanto ha anche la sua Global Pictures: dal 1992 dunque il produttore passa a lavorare con l’altro cugino di Tiberiade. C’è un progetto fresco fresco che lo attende: Anthony Perkins vuole a tutti costi girare un remake de La mummia, dove parlare egiziano con l’accento di Brooklyn...
Ispirato al racconto Chiaccherata con la mummia (1845) di Edgar Allan Poe, The Mummy Livespromette di essere un piccolo grande successo, con un nome di grande richiamo come Perkins protagonista e un maestro come Ken Russell alla regia: solo che l’attore muore nel settembre 1992 per complicazioni dovute all’AIDS e il regista molla la produzione. Per “tappare i buchi” viene chiamato Tony Curtis nel ruolo da protagonista e alla regia il già citato Gerry O’Hara. Il risultato è facilmente immaginabile.
Towers allora si avventa sul secondo progetto già in lista quando ha firmato: I Am Your Nightmare, un thriller con Robert Englund che esplora le paure che attanagliano dei giovani: in pratica un palese rimaneggiamento della saga di Nightmaredi cui Englund è il simbolo. Non è chiaro se questa palese evidenza abbia spinto per un cambio di programma, fatto sta che Towers decide di cambiare il titolo del progetto e ritornare ad atmosfere passate: decide che dopo vent’anni è ora di fare un remake di quanto ha già prodotto:
Night Terrors originariamente doveva essere un remake di De Sade 70, con un sacco di riferimenti alla Filosofia del boudoir di de Sade» dichiara il produttore nel 1996, «ma Yoram [Globus] aveva un accordo di distribuzione con la Warner Bros ed era abbastanza nervoso all’idea di fare un film erotico.

Forse memore dei problemi di censura avuti con i passati titoli desadiani, Towers decide di ridurre al minimo l’erotismo e sostituirlo con l’horror: in fondo hanno sotto contratto Robert Englund, che nell’horror ci sguazza. Globus apprezza e per l’occasione chiama un suo “ragazzo d’oro”: Tobe Hooper, che con i cugini israeliani ha già sfornato Space Vampires(1985), Invaders (1986), Non aprite quella porta 2 (1986) e ha già lavorato con Englund, quando non era nessuno in Quel motel vicino alla palude (1976) e nelle vesti del celebre Freddy Krueger nel primo episodio della devastantemente brutta serie TV “Freddy's Nightmares”. È una rimpatriata di amiconi, ma in realtà Towers non ha mai lavorato con il regista. «Tobe è molto originale», racconta al citato giornalista, «è molto introspettivo e ha bisogno di molto supporto, ma è capace di fare grandi cose, specialmente nell’horror, che è davvero il suo campo d’elezione.»
Del copione originale di Gerry O’Hara nessuno fa parola, ma è facile che sia stato fuso con alcune idee pensate per I Am Your Nightmarein uno sforzo di sceneggiatura ben poco professionale: se già l’attore Daniel Matmor non aveva alcuna esperienza in veste di scrittore, di sicuro non ha aiutato l’arrivo nel ruolo di co-sceneggiatore di Rom Globus, figlio di Yoran che per fortuna non ha continuato alcuna carriera cinematografica.
Al 25° Sitges International Fantasy Film Festival, nell’inverno del 1992, il regista Tobe Hooper rivela in una conferenza che sta montando un film girato a Tel Aviv dal titolo De Sade, che probabilmente sarà rinominato Nightmares. «Ci sono cinque storie parallele ma interconnesse con elementi della stessa chimica», cerca di spiegare il regista ad una platea confusa, com’è confusa la rivista “The Dark Side” che nel dicembre 1992 commenta la presentazione del film come «impenetrable description». C’è anche la giornalista Caroline Vié di “Fangoria” (il cui pezzo però aspetterà mesi prima di uscire) la quale testimonia un certo fastidio da parte di Hooper nel vedere confuso il titolo del suo nuovo film con la saga di Freddy Krueger: sventolare Nightmare o Nightmares in giro può plausibilmente portare a questo tipo di confusione.


Girato in fretta e furia in Israele, dunque, la pellicola viene ultimata solo tre settimane prima della sua presentazione mondiale: all’italiano “Dylan Dog Horror Fest”, all’epoca da alcuni anni faro internazionale per la presentazione delle novità in campo horror. L’anno precedente con grande enfasi era stata presentata una bozza incompleta di Hellraiser 3, per la gioia dei fan, che curiosamente non hanno avuto da ridire del fatto che il film fosse in lingua originale non sottotitolato, che mancassero gli effetti speciali e molte scene fossero in bianco e nero perché ancora non lavorate: al confronto, quando quel maggio 1993 viene proiettato Tobe Hooper’s Nightmare– titolo quanto meno acchiappa-spettatori – almeno il film è completo. Per quel che possa valere.
Le note in sottofondo dell’Ouverture de “La gazza ladra” sono soverchiate dagli schiocchi di un frustino fatto calare ritmicamente sulle piante nude dei piedi del marchese de Sade, che in realtà è morto da tre anni quando la celebre opera di Rossini viene eseguita per la prima volta: con un falso storico facilmente evitabile si apre l’incubo di Tobe Hooper.
«Grande entusiasmo, lo consiglio di cuore» esclama Englund a testa in giù: è in piena seduta di tortura alla Bastiglia ed è in pratica l’unica scena di tortura del film, per quanto incredibilmente eterea. A parte una testa mozzata e poco altro, la parte horror del film è a tutti gli effetti inesistente: la storia è in tutto e per tutto un racconto erotico che segue la giovane Eugenie detta Genie (interpretata dalla ballerina Zoe Trilling, nota anche come Geri Betzler, in uno dei suoi pochi film di una certa notorietà) arrivare in Israele dal padre archeologo ed iniziare un viaggio di scoperta della sessualità grazie a “guide locali” molto smaliziate, ma soprattutto poco oneste. I suoi viaggi erotici con Sabina (Alona Kimhi) e Mahmoud (Juliano Mer-Khamis) sono solo parte di una trappola ordita dal perfido Paul Chevalier (Robert Englund), discendente del marchese de Sade (Robert Englund) che vuole portare avanti alcune magiche e terribili tradizioni di famiglia. Il tutto verrà osteggiato da una confusa e abbastanza cialtronesca congrega di religiosi locali.
«Era un compromesso fra un normale film horror e un film erotico, e non credo che la combinazione abbia funzionato a dovere», confessa Towers e temo sia stato fin troppo tenero: è un film horror che non mostra nulla di horror ed è un film erotico che non mostra nulla di erotico. Quindi è solo un grande nulla.


«Erotic chiller» invece lo definisce Robert Englund quando viene intervistato da Allan Jones per la rivista specialistica “Shivers”, «l’ho interpretato con un eccesso speziato nello stile di Ken Russell»: purtroppo la sensazione è che quello sia l’unico modo con cui Englund sappia recitare, esagerato, abituato com’è ad indossare maschere e quindi ad agitarsi più del dovuto. L’attore però nell’intervista ci regala qualche primizia:
In origine è stato concepito come una specie di versione spaventosa e sado-masochistica de Le relazioni pericolose ambientato nel XVIII secolo. Quando poi sono arrivato nelle location a Tel Aviv, in Israele, tutto era stato cambiato agli anni Venti: non erano stati in grado di trovare veicoli così antichi o luoghi adatti all’epoca storica. Quindi ora il film aveva l’aspetto da Delitto sull’Orient Express e il produttore Yoran Globus mi ha convinto che avrebbe funzionato nella cornice cittadina di Tel Aviv.

Visto che una scritta ad inizio film ci specifica che siamo nel 1993, temo che la pellicola abbia subìto più rimaneggiamenti di quanto ne fosse a conoscenza l’attore. Englund comunque ci conferma che il progetto è stato iniziato da Gerry O’Hara, ma ci confessa anche che è tutto merito suo se Tobe Hooper è entrato in gioco: non si sa mai quanto credere alle affermazioni di semplici attori che affermano di essere stati così determinanti in decisioni molto più grandi di loro. «Tobe voleva creare il suo personale hallunogenic erotic fantasy», spiega Englund, «quindi il copione ha preso tutta un’altra strada: quelli che vediamo sono davvero sogni erotici di una ragazza o lei è davvero in pericolo per via di un culto sessuale perverso?»


Più interessante il momento in cui l’attore passa a parlare del suo impegno nei panni del Divin marchese.
Qualsiasi film che abbia a che fare con le imprese di de Sade corre il rischio di grandi problemi di censura, così dovevamo andarci cauti. La scena più forte è stata quella della tortura dell’acido nell’occhio. [...] Originariamente c’era anche una narrazione fuori campo, perché gli scritti di de Sade sono molto pungenti, ma proprio per questo allora (come ora) quei testi sono considerati troppo al limite e rischiavano di far sembrare il film più pericoloso di quanto volesse. Abbiamo usato passaggi dal racconto Eugenie, da cui il nome del personaggio interpretato da Zoe. È stato detto che il giovane pubblico europeo, il target di questo film, non sarebbe stato interessato a citazioni dai classici. Non sono d’accordo, e sono convinto che il film abbia perso qualcosa nel togliere la narrazione fuori campo. Non penso infatti che il pubblico in questo modo possa cogliere i paralleli fra le fantasie di Eugenie e quel che accade nel mondo reale. [...] Quelle scene in prigione sono state terribili da girare. La location era un vecchio magazzino pieno di pipistrelli e ratti, c’era guano ovunque e i pipistrelli continuavano a rovinare ripresa dopo ripresa. Era assente qualsiasi norma igienica e se guardate bene potete vedere dei topi che mi defecano addosso durante alcune scene di tortura. Ma Tobe ha fatto un eccezionale lavoro, dato il budget minuscolo.

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Tre film girati in tre decenni differenti ma tutti accomunati dalla stessa passione: quella di Harry Alan Towers per il Divin marchese. Difficile dire quanto il produttore sia stato soddisfatto dei risultati, ma di sicuro dimostra che dietro le grandi storie hollywoodiane ce ne sono tantissime, molto più piccole ma sempre accomunate da grandissima passione.


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Bibliografia

  • “Dark Side” n. 31 (aprile 1993)
  • Alexander Chris, Maria Rohm on Jess Franco, da “Delirium” n. 9 (dicembre 2015/gennaio 2016)
  • Jones Allan, Englund Swings, da “Shivers” n. 8 (agosto 1993)
  • Koetting Christopher, The Towers of London (Part 1), da “Fangoria” n. 151 (aprile 1996)
  • Koetting Christopher, Making Book for Fear (Part 2), da “Fangoria” n. 152 (maggio 1996)
  • Slaughter in Sitges, da “The Dark Side” n. 27 (dicembre 1992)
  • Vié Caroline, Monter Invasion, da “Fangoria” n. 123 (giugno 1993)

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Filmografia

Justine, ovvero Le disavventure della virtù (Marquis de Sade: Justine) di Jesús “Jess” Franco, prodotto da Harry Alan Towers e scritto da lui stesso dietro lo pseudonimo di Peter Welbeck, ispirandosi al romanzo omonimo del 1971 di D.A.F. de Sade.
La prima notizia di uscita in sala è in Italia, il 19 aprile 1969, ma dopo un brevissimo periodo di permanenza al cinema il film scompare dalla distribuzione italiana. Si ha notizia di un passaggio su un canale televisivo locale il 13 gennaio 1981 e di un altro su Rete4 nella notte del 13 luglio 2000.
De Sade 70 o Eugenie... the Story of Her Journey Into Perversion, di Jesús “Jess” Franco, prodotto da Harry Alan Towers e scritto da lui stesso dietro lo pseudonimo di Peter Welbeck, ispirandosi al romanzo La filosofia nel boudoir (1795) di D.A.F. de Sade.
Uscito in Spagna nel marzo del 1970, non è noto alcun tipo di distribuzione italiana.
Night Terrors (Tobe Hooper’s Night Terrors) di Tobe Hooper, con Robert Englund (de Sade) e Zoe Trilling (Eugenie), presentato in anteprima mondiale al “Dylan Dog Horror Fest” n. 4, nel maggio 1993: malgrado questo, non esiste traccia di alcun tipo di distribuzione italiana del film, né in sala né in TV, ad esclusione della VHS Warner Home Video/Cannon arrivata in videoteca nel gennaio del 1995. Avendo il film vari titoli alternativi più o meno ufficiali – come il fantomatico Le notti proibite del marchese de Sade, riportato da IMDb ma non si sa a che distribuzione si riferisca – è facile che sia uscito in sala o in TV sotto “mentite spoglie”. Anche in patria non sembra aver avuto una buona distribuzione, rilasciato dalla Warner in home video sempre nel 1995.
Dal 2010 la compianta Stormovie (Quadrifoglio) lo presenta in DVD italiano e dal luglio 2011 la Pulp Video (Cecchi Gori) lo ristampa in un’edizione più curata.

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Stavolta comincio col dire che nel mettere in bella copia, con corredo di immagini, questo secondo intervento di una delle colonne portanti di questo Speciale, Lucius Etruscus, mi sono sentito proprio a casa, almeno per i suoi primi due terzi. Tra i vari film che Lucius cita vi è infatti anche il trittico di ispirazione sadiana di Jess Franco che metterei senza dubbio in valigia nel caso dovessi trascorrere il classico periodo indeterminato di vacanza nella classica isola deserta. I primi due (in ordine cronologico), Justine e De Sade 70, sono ivi presentati da lui per esteso, mentre il terzo, Eugénie, conosciuto anche come De Sade 2000 per distinguerlo dal precedente Eugénie/De Sade 70, lo cita solo di passaggio. Nonostante però la semi-coincidenza di titoli, i due Eugénie raccontano storie completamente slegate tra loro, ispirate a due diverse opere di de Sade: il primo, come specificato nell'articolo, fa riferimento a La filosofia nel boudoir (e in effetti con questo titolo lo riporta la mia edizione in DVD, come mostra il fermo immagine qui sotto), mentre il secondo è tratto dal racconto Eugénie de Franval, incluso nella raccolta Crimes de l'amour, una delle poche opere non di teatro che de Sade ha potuto tranquillamente sbandierare come sua mentre era ancora in vita.


Ma non posso neanche abbandonare il breve spazio di questa postfazione senza prima aver fatto menzione di un secondo trittico, di splendide ragazze stavolta, ognuna delle quali riveste il ruolo della sfortunata eroina di uno dei tre film di Franco: Romina Power in Justine o le disavventure della virtù, la svedese Marie Liljedahl in Eugénie/De Sade 70 e Soledad Miranda in Eugénie/De Sade 2000. Delle tre, però, solo quest'ultima può essere considerata a ragione una musa del regista, presente in gran parte dei film da lui diretti a cavallo tra i '60 e i '70, prima che la morte prematura di lei, all'età di ventisette anni, interrompesse il sodalizio e la magia. E proprio a metà del girato di un nuovo film di ispirazione sadiana, quel Juliette o la prosperità del vizio che rappresenta il seguito di Justine.

Da sinistra a destra: Romina Power, Marie Liljiedahl, Soledad miranda

P.S. Aggiungo anche, per finire, che le due copertine di DVD posizionate all'inizio dei capitoletti su Justine e De Sade 70, sono quelle delle edizioni in mio possesso, da cui ho tratto i fermi immagine di questo post.
[I. L.]

The Pleasure of Pain II - Marquis de Sade's Justine: La versione di Franco /1

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Pubblico, in questo post, la prima di due parti di una mia traduzione di una serie di dichiarazioni rilasciate dal regista Jesús Franco a proposito del suo film del 1968 Justine o le disavventure della virtù (Marquis de Sade: Justine), film di cui si è occupato un paio di giorni fa Lucius Etruscus, nel suo secondo guest post per questa parte di The Pleasure of Pain. Lucius, nel parlare del film, si è concentrato in particolare sul resoconto che ne fa il principale protagonista del suo post, il produttore Harry Alan Towers, alle cui parole ho pensato non fosse una cattiva idea accostare quelle del regista, così da avere un quadro più completo circa le fasi di progetto e realizzazione del film.
Ho diviso in due parti il totale delle dichiarazioni di Franco sia per snellire il post, che rischiava altrimenti di risultare troppo lungo, sia per lasciarmi un po' di spazio a disposizione per un breve commento finale. La pubblicazione della seconda parte è in programma, salvo imprevisti, per venerdì.

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Marquis de Sade's Justine: La versione di Franco

Ad Harry [Alan Towers], Necronomicon* era piaciuto davvero molto e voleva fare con me un film di genere erotico. Così mi chiese: "Ti piacerebbe fare un film da de Sade?". Io gli risposi: "Sì, ma dipende tutto da cosa di de Sade. Se è Le centoventi giornate di Sodoma, allora no, perché quello non è un romanzo ma solo una lista di atrocità." E lui ribatté: "Justine". E subito mi consegnò una sceneggiatura che aveva scritto e che io lessi il giorno dopo. Mi sembrò molto buona, perché era davvero difficile, specie a quei tempi... dovevi andarci cauto, era come giocare con il fuoco... Harry aveva catturato alla perfezione lo spirito del romanzo.

Credo che Justine sia il film più costoso che io abbia mai realizzato. A occhio, non penso che sia costato più di un milione di dollari, almeno non molto di più, ma penso che per quei tempi fosse comunque parecchio. Costò molto a causa del numero enorme di costumi di scena, di set cinematografici, di cavalli, carrozze... di tante cose. Era un "big film", come si dice nel gergo dei produttori. Anche se in realtà non era un vero big film ma quello che all'epoca alla American International chiamavano un "fake big film". Ma questo lo sapevamo solo noi.

Allora, il governo spagnolo, sotto il regime di Franco, era politicamente... diciamolo, fascista! Completamente fascista! Per questo il potenziale co-produttore, Alcazar, il proprietario degli studi in cui stavamo girando, che era deliziato del cast che avevamo scritturato, dopo aver letto la sceneggiatura esclamò: "Non possiamo girare un film del genere in spagnolo. E' una follia".


Girammo in due edifici progettati dall'architetto Gaudì, e dovevamo stare molto attenti perché uno si trovava vicino a una scuola pubblica, con i bambini piccoli e tutto il resto. Così che avevamo per tutto il tempo una spia che ci diceva quando il terreno era libero e dovevamo interrompere le riprese durante l'ora della ricreazione! In generale, però, non incontrammo problemi, perché il film non era in spagnolo. In caso contrario ci avrebbero sbattuti tutti in galera. E potremmo ancora esserci.
Le riprese non durarono quattro mesi, che è la media per le grandi produzioni, ma girammo per sette settimane. Ma non per le sei ore canoniche, bensì per dieci-dodici ore al giorno. Avemmo a che fare con quasi cento diversi set cinematografici, una gran quantità di esterne, e con un cast.


Justine avrebbe dovuto essere interpretata da Rosemary Dexter, perché era lei l'ideale. Era con noi dall'inizio e aveva già provato le scene e tutto quanto, quando a un tratto il grande capo a Hollywood proclamò: "E' arrivata l'ora dei figli d'arte". E io: "Sarebbe a dire?". "Che sarà Romina Power l'attrice". E io: "Al diavolo! Non posso con Romina Power. Non ce la faccio a girare la storia di una ragazzina che viene coinvolta in certe cose, capisce quello che succede e comincia a piacerle, che diventa masochista e comincia a provare vero piacere nel frattempo che subisce un trattamento così atroce. Il massimo che posso fare è la storia di una povera bambinella sperduta nel bosco come Biancaneve". "Ottima idea!" mi risposero. "Procedi".


Ma io penso che se Rosemary Dexter avesse interpretato Justine, il film sarebbe riuscito molto meglio. Ma no, era arrivato il momento dei figli dei grandi attori. Lei [Romina] era, naturalmente, la figlia di Tyrone Power. Si presentò all'improvviso masticando chewing-gum e&nbspmi disse con la sua vocina: "Hello, Jessy!". Cazzo! Fu davvero difficile per me, perché aveva l'aria di una piovuta dal cielo che se ne va a zonzo nel bosco, e io mi sentivo come se stessi girando Bambi 2.

E così era arrivata Romina Power, accompagnata dalla sua mamma del cazzo e da una specie di fidanzato. Non so dire se era il fidanzato di tutte e due o solo della madre o solo della figlia, ma non ha importanza. Era un italiano, scattava fotografie ed era una testa di cazzo.

Quello a destra nell'immagine è, per chi non lo conoscesse, tio Jess in persona.

Era difficile girare con lei, non perché creasse problemi, ma perché era come un complemento d'arredo. Potevi prenderla, spostarla da qualche parte, e dirle: "Vieni qui; oppure: guarda in alto in quella direzione". Ci furono invece delle prove di recitazione eccezionali, come quella di Mercedes McCambridge nella scena in cui loro due sono insieme e lei deve picchiarla. E a ogni prova: "Pam! Pam!"... niente! Non potevamo salvare nulla perché lei [Romina] avrebbe dovuto reagire con molta forza all'esser picchiata così brutalmente. Così Mercedes Mc Cambridge mi chiese: "Dovrei forse provare a picchiarla sul serio?". E io le risposi: "Ma certo! Fai pure". Così cominciammo a girare e lei "Pam!", le dette un ceffone. C'ero proprio io in quel momento dietro la macchina da presa e catturai la sua reazione, che era la reazione di Romina Power che viene colpita da un'attrice e non di Justine, ma convenimmo che era comunque eccellente. Oggi la gente mi dice: "Ma è brava!". Sarà forse brava, ma allora dovrebbero tutti congratularsi con me e dirmi grazie, perché il più delle volte lei neanche sapeva che stavamo girando.
(1 - continua)

* Il film Necronomicon: Geträumte Sünden di Jesús Franco è conosciuto anche sotto altri titoli, il più noto dei quali è Succubus. In Italia è stato diffuso nel 1968 con il titolo Delirium.


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Ho soltanto un paio di cosette da aggiungere qui, in questo ormai mio consueto spazio commento. La prima riguarda, per quello che può valere, il mio parziale dissenso dalla tesi di Jess Franco su Romina Power. E' senza dubbio vero, come dice lui, che il film con Rosemary Dexter sarebbe stato un'altra cosa, e mettiamo pure che sarebbe entrato nella rosa dei suoi migliori film, ma chissà se sarebbe entrato nel cuore dei fan allo stesso modo di questo, grazie anche alla presenza, sarei pronto a scommetterci, di Romina Power nella parte di Biancaneve nel paese di de Sade. Franco può dire quel che vuole, ma è indubbio che ogni volta che Romina appare nel film, indifferentemente nuda o vestita, accanto a una qualsiasi altra delle attrici che recitano con lei, che sia Mercedes McCambridge o Rosalba Neri o l'appariscente Maria Rohm, è lei, la disorientata e afflitta Romina, a rubare la scena.



La seconda cosa che ho da dire riguarda invece la questione "masochismo". Se Franco la racconta giusta, allora significa che la sceneggiatura originale di Harry Alan Towers, che prevedeva una graduale conversione di Justine ai piaceri della sofferenza, si distanziava dal testo originale di de Sade ancor più di quanto già non faccia il film nella versione definitiva. Di una simile idea non si rinviene infatti la minima traccia nelle pagine del Marchese.

The Pleasure of Pain II - Marquis de Sade's Justine: La versione di Franco /2

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Marquis de Sade's Justine: La versione di Franco (finale)

Jack Palance era sempre ubriaco. Cominciava a bere vino... vino rosso, alle sette del mattino. Ma come attore era eccezionale, fuori di testa e pazzo. E come se non bastasse, arrivò sul set con la paura che gli avrei fatto recitare qualcosa di volgare. Ma come gli spiegai la prima scena che avrebbe girato, quella in cui gocciola sangue ed è come una statua in movimento all'interno del monumento di Gaudì, gli piacque immediatamente e si immedesimò a tal punto che dovetti fermarlo e tenerlo a freno. Ne uscì una cosa folle ma molto buona. Tutto andò a meraviglia con lui. Ha presenza! E io penso che un attore debba anche avere presenza. Di un certo tipo, però. Non intendo dire che debba essere o brutto o bello ma che sia di impatto. Jack Palance... è come un mostro.

Harry [Alan Towers] voleva che fosse Orson Welles a interpretare il Marchese de Sade. E Orson, con cui io andavo molto d'accordo, si dichiarò disponibile. Ma quando poi lesse la sceneggiatura, disse: "Ho giurato che non avrei mai interpretato niente di erotico, per cui mi dispiace molto ma non posso esserci". Così fu Klaus Kinski a interpretare il Marchese e io trovo straordinaria la sua performance.

Diventammo buoni amici. So che Klaus godeva, e ancora gode, della cattiva reputazione di essere un attore molto difficile. Ma con me non lo è mai stato. Ci capivamo al volo. Dopo questo film ne abbiamo fatti molti altri insieme ed era sempre pronto a farne ancora, ed io anche. Ci comprendevamo molto bene e ridevamo un sacco durante le riprese. Non c'è mai stato un solo problema tra noi. Perché? Analizziamo a fondo la cosa. Klaus è un vero attore e un vero attore non può essere trattato come, per esempio, gli Italiani o gli Spagnoli trattavano in genere gli attori allora. Come se fossero degli oggetti. "Cammina fino a quel segno, guarda in alto, dì questo...". E Klaus metteva sempre in questione ogni idea. Diceva: "Non è che sono contrario, ma spiegami perché. Dimmi perché devo essere qui e guardare lassù. Chi devo guardare? E dopo possiamo cominciare a lavorare insieme". "No. Sono io il regista. Fa come dico io!". "E allora va a farti fottere!" rispondeva lui. Ed ecco come nascono i problemi con Klaus. Perché un attore con il tipo di sensibilità di cui stiamo parlando, se sente che lo ami e che non gli nascondi nulla, se gli spieghi: "E' per via di questo e di quest'altro", allora non si tira mai indietro.

Avevamo a disposizione un giorno per le riprese in esterna e un giorno per le riprese interne. Ci chiudemmo nel set. Pensai di seguire un poco l'ispirazione dei miei maestri, di fare qualcosa leggermente nello stile di Marat/Sade, usando il tipo di illuminazione di Marat/Sade, come se fossero le luci di un teatro. Così dissi all'operatore: "Sistema le luci. Facciamo una scena qui, un'altra qua, un'altra là. Sistema tutte le luci, poi lasciami da solo con Klaus. Lavorai con lui [Klaus] per l'intera giornata, senza neanche mangiare, fermandoci per cambiare i rulli nella macchina da presa e basta. E tutto andò a meraviglia. La comunicazione tra noi fu eccellente, il lavoro fu eccellente, ogni cosa fu eccellente.
Ho fatto un buon numero di film con Bruno [Nicolai]. Deke Eyward* all'inizio non voleva usare Bruno Nicolai perché pensava che gli Italiani avessero uno stile troppo "spaghetti". Ma io dissi a Harry: "E' un compositore fantastico. Di cosa stanno a parlare quei bastardi idioti?". Così lo portai a Roma, dove Bruno Nicolai aveva preparato alcuni brani di musica da fargli ascoltare. Bastarono cinque minuti! Perché era questa la cosa buona dei tipi della AIP... erano franchi e diretti. Dopo cinque minuti gli disse: "Bravo, un ottimo lavoro" e se ne andò, vergognandosi quasi di aver dubitato di lui. Nicolai, in Justine, fece tutto da solo. Venne a incontrarmi, pranzammo insieme, parlammo e scegliemmo un po' di materiale buttando giù alcune idee al pianoforte.** Dopodiché fece tutto da solo e creò della musica straordinaria.***

Penso che la versione [di Justine] meno censurata in circolazione, quasi al 100% integrale, sia quella italiana. Penso che sia una versione quasi perfetta. Subito dopo viene quella francese, anch'essa molto buona. La versione inglese è invece pesantemente censurata. Io penso che ci sia, dappertutto nel mondo, come una specie di dittatura. Provano a tarparti le ali, è una vera rottura di palle. Odio questa cosa. A me piace la libertà. A me è sempre piaciuta la libertà. Lasciai la Spagna perché mi piaceva la libertà. Se c'è qualcuno che mi dice: " Devi tagliare qua perché si vede il piede"... Al diavolo! Non l'ho mai potuto sopportare. Quando dico che non l'ho mai potuto sopportare... lasciai la Spagna una seconda volta per questo motivo e volli incontrare il capo censura per dirgli: "Sappi che lascio questo paese perché ci sei tu. Sei uno stronzo! Mi stai sui coglioni e me ne vado". E salii sull'aereo. Che senso ha tutto ciò? Chi giudica? Chi è il giudice? Chi decide? Chi ha la verità in tasca? Chi ha la verità con la V maiuscola? Nessuno. Per questo non esiste nulla di peggio di queste stronzate che tarpano le ali alle persone.

* * *

Note al testo

* "Deke" Heyward (Louis Mortimere Heyward, 1920-2002) fu capo produzione della divisione estera della American International Pictures (AIP) dal 1966 al 1972, anno in cui lasciò la compagnia.

** Lo stesso Jesús Franco è un musicista autore di oltre settanta colonne sonore per i suoi film, spesso composte sotto gli pseudonimi  di David Khune o Pablo Villa.

*** Ho presentato un paio di esempi della colonna sonora di Justine scritta da Bruno Nicolai nel mio Incantesimo cinemusicale n. 10.

Crediti

Tutte le dichiarazioni di Jesús Franco presenti in questo post e nel precedente The Pleasure of Pain II - Marquis de Sade's Justine: La versione di Franco /1, sono state da me estrapolate e tradotte dal documentario di David Gregory, The Perils and Pleasures of Justine (Blue Underground, 2002).

The Pleasure of Pain II - Marquis de Sade's Eugenie: La versione di Franco

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Forse ricorderete come l'articolo sul produttore cinematografico Harry Alan Towers, scritto da Lucius Etruscus e pubblicato in questo blog meno di una settimana fa, presentasse, oltre a Justine, un secondo film tratto da de Sade e diretto da Jesús Franco: un adattamento del romanzo La filosofia nel boudoir conosciuto con vari titoli, tra cui quello stesso del romanzo, ma che in origine si chiama De Sade 70. Ho creduto una buona idea proporvi, come per Justine, una raccolta di dichiarazioni del regista anche al riguardo di questo secondo film.


* * *

De Sade 70: La versione di Franco 

Io e Harry eravamo d'accordo sul fare ancora qualcos'altro tratto da de Sade. Così ci decidemmo per La filosofia nel boudoir. E' la storia della degenerazione di una giovane che nel giro di un fine settimana si trasforma da innocente e pura in un vero mostro, finché non finisce per uccidere se stessa. E' una storia atroce. Immaginata e scritta con la tipica mentalità sadiana, per così dire. Troppo esplicita per essere girata così come era scritta. Ecco perché Harry Towers ha fatto un buon lavoro con il suo adattamento, che conserva tutti gli elementi della vicenda senza essere per questo qualcosa di proiettabile solo a mezzanotte, in oscuri cinema a luci rosse, bensì una storia valida per tutti.

Non fu facile metterla in scena, ma non per me, per gli attori. Perché a quei tempi gli attori shakespeariani rifiutavano di apparire ne La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade.
Ma io penso che de Sade sia uno scrittore straordinario. Le sue storie brevi sono eccezionali. Ed è così piacevole scordarsi di tutti i problemi e i tabù che de Sade ha rappresentato per i cineasti di tutto il mondo e scoprirlo semplicemente come un grande scrittore.

Quindi la storia è quella di una povera fanciulla [di nome Eugénie], che mentre è alla scoperta dell'amore affoga in un mare di peccato. Marie Liljedahl era fantastica, adattissima alla parte. Così ero completamente d'accordo con l'idea di Harry Towers di ingaggiarla.


Harry provò anche a arruolare un attore tedesco, Bernard Peters, che era un eccellente attore e aveva accettato la parte, ma che rimase ucciso in un incidente aereo quindici giorni prima dell'inizio delle riprese. Cosa potevamo fare? "Prendo un volo per Londra" disse Harry. Parlò con Christopher Lee e lo convinse ad accettare il ruolo [di Dolmancé], sebbene con delle restrizioni. Lee non voleva recitare in nessuna scena di sesso. Non c'era però modo che ci creasse problemi a meno che non fosse un fanatico, cosa che lui non era. Christopher non è uno stupido. Si accordò su tutto con Harry. Anche se, ovviamente, fece osservazioni del tipo: "Ricordatevi che io non bacio nessuna attrice sulla bocca... non dimenticatevelo".


Le riprese andarono bene, filò tutto liscio. Girammo nel Sud-est della Spagna, nella provincia di Murcia, per poi completare le riprese negli studi Alcazar di Barcellona.


Harry mi chiese: "Va bene se affido questa parte [di Madame Saint-Ange] a Maria Rohm?". "Certo che sì" gli risposi, perché davvero sentivo che era la cosa giusta. E lei nel film si è dimostrata sia incantevole che molto brava.


All'inizio la gente, i tecnici, pensavano che fosse lì soltanto perché era la moglie del produttore. Ma non era vero. Era molto seria e meticolosa nel proprio lavoro, oltre che di grande aiuto a Harry nel suo. All'inizio era una spia, poi una sua collaboratrice. Una figura sotto ogni aspetto positiva, per Harry come per chiunque altro... per il film, per me, per chiunque.


Quando c'è affiatamento, quando c'è lavoro di squadra, quando tutti lavorano in modo professionale, c'è tutto. Ognuno di noi aveva un entusiasmo incredibile per questo film. E impiegammo pochissimo tempo a girarlo, tre o quattro settimane al massimo. Poi, una volta a casa, lo montammo con altrettanta rapidità e il film fu distribuito poco dopo. Jerry Gross, che era l'addetto alla distribuzione negli Stati Uniti, quando vide il film, dapprima non lo voleva. "Che film è questo?" protestò "Non si vede un pene in questo film". Io gli ribattei: "Non è quello il genere di film che volevo fare. Non ho mai voluto fare un film porno per dei cinemini porno. A chi interessa vedere il pene di Jack Taylor? A tre culattoni americani, forse?". E lui: "Tre? Quattro milioni!". "Anche se sono quattro milioni" gli risposi, "non tutti quei quattro milioni andranno a vedere il film". In definitiva, non era per nulla soddisfatto. Penso che stesse cercando anche un modo per tirarsi fuori da tutto. Ma quando poi il film debuttò al Chinese Theatre di Hollywood ebbe un successo incredibile. Andò davvero benissimo. Così quando poi lo rividi, chiesi a Gross: "Sei ancora arrabbiato perché non ho mostrato il pene di Jack Taylor?". E lui: "Scusami. Ho fatto uno sbaglio. Ho troppo minimizzato il film. Non pensavo che avrebbe ottenuto tutta questa considerazione, ecc.".


Penso che non si parli abbastanza della differenza tra porno ed erotico. Penso che il modo in cui noi abbiamo adattato de Sade è abbastanza esplicito perché le persone capiscano esattamente cosa succede senza dover per forza mostrare primi piani di genitali e altre stronzate del genere. Del resto, nella mia opinione, quando mostri troppo diventa meno sexy. Meno erotico rispetto a ciò che va in scena in un film come il nostro. Perché deve crearsi un'atmosfera, e questo richiede delle persone pensanti e non degli idioti. Ecco il motivo perché di tutti i miei film questo è quello che detesto di meno. A me i miei film in generale non piacciono. Non mi piacciono perché vedo tutti i loro difetti, meglio di chiunque altro. E' complicato, perché anche se pensi che alcuni sono ben fatti, non sono mai così ben fatti come avresti voluto. In conclusione, ho fatto bene alcuni film e altri no... i consueti alti e bassi. Ma non ho mai fatto un film pensando a vincere il Grand Prix a Cannes. Mai. Ho sempre pensato a quanto è bello essere proiettati nei cinema di periferia, con la sala affollata di gente che si gode i miei film. Ecco, questo mi basta e avanza.



* * *


Come with the "Inga" girl, recita l'insegna all'ingresso del cinema nell'ultima immagine; così da sfruttare, per il lancio del film di Towers e Franco, la vasta risonanza ottenuta un anno prima dal controverso Jag - en oskuld (Io - una vergine), il secondo film di Marie Liljedahl. Il film svedese, apparso nelle nostre sale con il titolo di Inga, io ho voglia... è un erotico di discreta fattura, diretto dallo specialista Joseph W. Sarno, che racconta della diciassettenne Inga che manda in fumo i piani della previdente zia innamorandosi di un ragazzo qualunque, mentre la parente voleva farla sposa di un suo vicino di casa danaroso.
Il film ebbe un sequel l'anno successivo (1968) dal titolo Någon att älska (Qualcuno da amare), divenuto in Italia Una ragazza dal corpo caldo. La locandina qui a sinistra, che pubblicizza la "maratona Inga", si riferisce appunto alla proiezione in un unico spettacolo dei due film.

Sinceramente non saprei dire se ho conosciuto la prima volta Marie Liljedahl grazie ai due Inga o al film di Franco, o addirittura attraverso Il dio chiamato Dorian, film che ha segnato, nelle produzioni di Harry Alan Towers, il passaggio del testimone dalle mani di Jesús Franco a quelle del nostro Massimo Dallamano. Proprio in questo film, Il dio chiamato Dorian, il penultimo della sua breve carriera nel cinema, l'attrice svedese torna a recitare al fianco di Maria Rohm, che, dal canto suo, ci ha lasciati per sempre poco meno di sei mesi fa, all'età di settantadue anni, dopo una vita interamente dedicata al cinema e tutta trascorsa, almeno fino alla morte di lui nel 2009, al fianco dell'inseparabile Towers.
[I. L.]


* * *

Crediti

Tutte le dichiarazioni di Jesús Franco presenti in questo post sono state da me estrapolate e tradotte dal documentario di David Gregory, Perversion Stories (Blue Underground, 2002).

The Pleasure of Pain II - Ichi the killer: L'amore fa male (ma Miike di più) [Cassidy]

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Il 2001 è stato un anno magico per Takashi Miike, il prolifico pazzoide giapponese, classe 1960, che ha da poco sfondato il muro dei cento film diretti in carriera e ancora non accenna a rallentare. Se non bastasse la sua incredibile produttività, a far parlare di Miike è la sua fama che lo precede in tutto il mondo fin da quel capolavoro di Audition (1999). Nel 2001 il buon Takashi ha leggerissimamente esagerato sfornando sette film (!), cosette come Visitor Q, una pellicola che dovreste proprio vedere se pensate che la vostra famiglia sia strana e che, comunque, sembra un film da prima serata di Canale 5 se confrontato con The Happiness of the Katakuris, una roba che mescola splatter, animazione a passo uno e... ehm, Karaoke.
Ma senza ombra di dubbio il film che ha definitivamente sdoganato il folle genio di Takashi Miike è stato Ichi the killer che, visto il tema trattato, casca a fagiolo per la rubrica “The Pleasure of pain” ed ancora oggi, a diciassette anni dalla sua uscita, resta uno dei titoli in grado di prendere a sberle anche gli stomaci più tosti.

"Diamoci una mossa, abbiamo qualche stomaco da prendere a sberle".

Takashi Miike, per quanto mi riguarda, ha un solo difetto. Beh, due a dire la verità, ma visto che per la sua congenita follia non possiamo farci niente, limitiamoci ai difetti cinematografici. Al pari di Quentin Tarantino (che, non a caso, va pazzo per il cinema di Miike), i suoi estimatori sono in grado di fare più danni della grandine al cinema stesso. Sì, perché in troppi hanno capito che per fare film come Miike, sia sufficiente sbudellare personaggi sul grande schermo per risultare autoriali, quando, invece, quello che dovrebbe essere chiaro è che Miike riesce ad andare all’essenza dei personaggi, a fare poesia con le budella: un’idea personalissima di cinema che riesce bene solo a lui, per cui gli imitatori dovrebbero astenersi.


“Ecco, è passato Miike a fare un altro massacro. Poi tocca sempre a me pulire!”.

Inoltre, poiché il frullatore mentale di Takashi frulla e spara fuori materiale rielaborato senza distinzione tra cultura cosiddetta alta o cultura bassa, non è inusuale vederlo adattare per il grande schermo qualche Manga, come nel caso di Ichi the killer(KoroshiyaIchi), scritto da Hideo Yamamoto, da non confondere con il direttore della fotografia di fiducia di Miike che si chiama nello stesso modo; ma è solo un caso di omonimia e non cominciate a dire che tanto gli Orientali sono tutti uguali perché non è vero, ok?

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Che mettono in chiaro tutto l’andamento. Quelli di Ichi the killer sono il biglietto da visita di tutta la follia che vedremo nei 120 successivi minuti. Il boss del crimine Anjo viene rapito e brutalmente massacrato, e noi spettatori sappiamo fin da subito che l’uomo è più morto della disco music; a non saperlo, ma soprattutto a non volerci credere, è il più fedele dei suoi uomini, lo yakuza sfregiato e sadomasochista Kakihara, e quando dico sadomasochista parlo anche del modo in cui va conciato in giro che da solo provoca dolore.


“Ah quindi non ti piace la mia giacca? Va bene, non me la lego certo al dito”.

L’omicidio viene attribuito al letale assassino Ichi, misteriosissimo, ma famigerato per i suoi metodi “sbudellosi” di far fuori la gente. Viene da pensare che un assassino che costringe quasi sempre una squadra con tute e mascherine a dover ripulire dopo il suo passaggio («Anche questa volta ha fatto un macello») sia una specie di bestia, un incrocio tra Hannibal Lecter e una granata a frammentazione soltanto più incazzata; beh, più o meno, perché in realtà Ichi è un ragazzo che definire problematico sarebbe peccare di ottimismo, mettiamola così, i ragazzi di Mery per sempre (1989) a suo confronto sembrano studenti modelli, ecco.

Anni di Judo mi hanno lasciato delle cose e prima di sentirvi iniziare... Sì, facevo Judo come in una canzone di Elio e le storie tese, allora? Dicevo, il Judo mi ha insegnato come far volare a terra qualcuno in modo creativo e a contare fino a dieci in giapponese. Nozione che mi torna utile oggi, perché Ichi, oltre ad essere un nome molto popolare in Giappone vuol dire anche uno, quindi stiamo parlando di Ichi, l’assassino numero uno.


Ricky Bobby Ichi, la storia di un uomo che sapeva contare fino a uno.

Peccato che il nostro numero uno entri in scena dopo un paio di minuti di film, con una tuta in gomma (ovviamente con un enorme numero uno giallo sulla schiena) che lo fa sembrare la parodia di un supereroe e la cosa più eroica che fa è... Beh, diciamo masturbarsi mentre spia un disgraziato gonfiare di botte una prostituta. Non proprio Batman, se vogliamo dirla tutta. Come fa Miike a mettere in chiaro cosa stava facendo Ichi nascosto dietro la finestra? Vi prego non fatemelo descrivere, ma se tenete duro dopo i primi cinque minuti di film, tranquilli, tanto dopo peggiora (storia vera).

Non è per la trama che Ichi the killer verrà ricordato, di suo sarebbe uno Yakuza Movie (genere popolarissimo in Giappone) piuttosto lineare: hanno ucciso il boss, il suo fedelissimo deve vendicarlo e al massimo staremmo qui ad aspettare lo scontro finale tra Kakihara e Ichi. A voler essere generosi, ci sarebbe la sottotrama di chi ha incastrato Ichi per l’omicidio. Insomma, niente di rivoluzionario, se non fosse che tutto è stato elaborato dal cervello a frullatore di Takashi Miike e il risultato finale è ancora qualcosa di unico nel suo genere.


“No, non esco stasera, sto guardando un film di Takashi Miike. Hai del Travelgum per caso? Sai per la nausea”.

Dettaglio fondamentale prima di continuare. A differenza di noi Occidentali, i Giapponesi, quando adattano per il grande schermo un’opera di fantasia, come potrebbe essere uno dei loro Manga, non si fanno troppi problemi per risultare realistici a tutti i costi, un limite da cui noi Occidentali non riusciamo a svincolarci. Per i Giapponesi, invece, se storia di fantasia dev'essere che lo sia e quindi Ichi, con le sue lame retrattili sui talloni, può dividere a metà le persone come faceva Goemon con la sua spada in quasi tutti gli episodi di Lupin. Immaginate questa mancanza di limiti, nelle mani di uno come Takashi Miike cosa può generare!

Senza troppi vincoli di realismo, quindi, Miike apre il film con una regia acidissima e popola la pellicola di personaggi assurdi, partendo da Karen, la prostituta dalla parlata Nippo/Yankee interpretata dalla bellissima Paulyn Sun (nota anche come “Alien Sun” e ci sarebbe da indagare su questo soprannome), oppure il viscido e manipolatore Jijii, interpretato da un altro che, quando distribuivano la follia, era tra i primi della fila insieme a Miike, ovvero Shinya Tsukamoto, il regista della trilogia Cyberpunk di Tetsuo. Insomma, una bella banda di matti!


Siamo una banda di bastardi, al soldo dell’uomo del Giappone (Cit.)

Eppure, il più colorito di tutti resta Kakihara (Tadanobu Asano); capello alla Billy Idol, guance sfregiate ben prima del Joker di Heath (detto BIP) Ledger e una serie di giacche e giacchette, molte delle quali color viola che davvero sembrano state scippate dall’armadio della storica nemesi dell’Uomo Pipistrello. Sulla questione guance, poi, Takashi Miike regala al personaggio un’entrata in scena memorabile: lo vediamo di spalle intento a fumare una sigaretta, con il fumo che invece di uscire come dovrebbe da sopra, viene sparato fuori dai lati della faccia, entrambi tenuti insieme da un paio di graffette… alla faccia di chi dice che il Punk è morto.


“Fumare fa male. Ma io posso farvene di più”

Kakihara è pronto a tutto pur di ritrovare il suo Boss, anche a pestare i piedi fregandosene della gerarchia interna della Yakuza. Lo scopre molto presto Suzuki (Susumu Terajima) vittima dell’interrogatorio fatto in puro stile Kakihara. Il poveretto finisce appeso per la pelle della schiena a dei ganci appesi al soffitto, un po’ come se fosse uno dei quarti di bue di Rocky, purtroppo per lui ancora vivo. Bisogna dire che persone appese al soffitto e un uso, diciamo libertino, degli spuntoni acuminati è un po’ un marchio di fabbrica del cinema di Takashi Miike (se avete visto Audition non potete certo dimenticarlo), ma tutto questo serve a raccontarci Kakihara, un sadomasochista che ama l’olio da frittura e se la ride felice mentre tortura Suzuki. Nemmeno l’intervento dello Yakuza più alto in grado lo preoccupa; anzi, se la ridacchia felice come se il dolore di Suzuki sia spassoso come l’ultima puntata dei Simpson.


"Dehihiho, mitico! Guarda come si agita, nemmeno lo stessero punzecchiando con uno spillone. Ah no! Lo sto facendo!".

Il rapporto con il dolore di Kakihara lo caratterizza, e per farsi perdonare la mancanza di rispetto nei confronti di Suzuki fa gioiosamente ammenda, sacrificando qualcosa che gli dà piacere. Per sua fortuna, Kakihara si definisce un tipo goloso, quindi si affetta la punta della lingua (il tutto in favore di macchina da presa) per poi donarla come se nulla fosse a Suzuki. Non oso pensare cos'avrebbe fatto se fosse stato lussurioso invece che goloso, così che dobbiamo ancora considerarci fortunati, perché di sicuro sulla violenza Miike non tira mai via la mano. Ma nemmeno Kakihara!


"Lo sai che carne ci vuole per il bollito alla piemontese?".

In tutto questo, non mancano dosi abbondanti di umorismo (nerissimo!) e un attimo dopo essersi asportato un pezzo di lingua, Kakihara risponde al cellulare come se nulla fosse. Di ancora più spassoso, se riuscite a stare al gioco, c’è la dichiarazione d’amore a Kakihara di Karen, che, pur di diventare la sua donna, inizia a dargli supporto nello strappare le guance ad un poveretto in cambio di informazioni.


Tipo quando vostra zia vi dava i pizzicotti sulle guanciotte da bambini.

Ed è qui che Ichi the killer inizia a trovare un senso. Kakihara compie una ricerca disperata del suo Boss, non perché sia innamorato di lui nel senso omosessuale (o in qualunque modo sessuale) del termine, quanto perché da sadomasochista puro, aveva trovato nel Boss l’unico in grado di picchiarlo e malmenarlo nel modo in cui ha bisogno. Questo diventa chiaro quando Karen cerca di prenderlo a frustate con tutta la sua forza, ma lasciando Kakihara molto annoiato. Le sue parole alla ragazza sono il manifesto programmatico del personaggio: «Se vuoi fare male a qualcuno, non devi provare empatia per lui, devi provare la gioia del dolore che gli fai provare. Questa è la forma più alta di compassione». Purtroppo, Karen non è abbastanza per un professionista del dolore come Kakihara, che inizia seriamente a pensare che Ichi, il temibile assassino, potrebbe essere l’unico in grado di massacrarlo come davvero desidera.


“Mia nonna mi picchiava più forte, mettici un po’ d’amore in quelle botte”.

Allora, parliamo di questo Ichi. Il personaggio interpretato da Nao Omoriè una macchietta quasi fantozziana, un sfigato della peggio specie pressato e maltrattato da tutti, capace di andare in loop come un disco rotto quando, sbagliando qualcosa, fa partire la cantilena delle scuse. L’unica cosa che smuove il ragazzo sono i bulli: appena vede qualcuno trattare male un innocente, si trasforma in una bomba atomica capace di sbudellare tutto e tutti, salvo poi sprofondare nuovamente nei suoi sensi di colpa.

Alla base di questa mente devastata c’è un trauma, avvenuto come accade sempre ai Giapponesi a scuola, perché nella loro cultura votata al lavoro, gli abitanti del Paese del Sol Levante fanno tutte le loro esperienze (buone o cattive che siano) a scuola, per poi iniziare a lavorare dedicandosi solo a quello. Nel caso di Ichi, il trauma è aver assistito allo stupro di Tachibana, un’amica intervenuta per difenderlo dai bulli e finita lei stessa vittima nel modo più terribile, in una scena che Miike ci mostra solo come flashback e che a sua volta è un omaggio alla stessa (tremenda) scena di quel capolavoro di Sonatine di Takeshi Kitano, perché nel frullatore cerebrale di Miike ci finisce dentro tutto, anche il cinema.

Ichi da allora è un sociopatico che si eccita solo davanti alla violenza perpetuata contro i deboli, ma impossibilitato a raggiungere una vera soddisfazione, perché in un attimo, PUFF! ha già massacrato tutti dentro la stanza. Lo scenario, quindi, è chiaro: Ichi e Kakihara sono poli opposti magneticamente attratti, ma allo stesso tempo sono personaggi che non troveranno mai l’amore di cui avrebbero bisogno.


Anime gemelle o nemici mortali? Sicuramente entrambi ben vestiti.

Sì, perché alla fine Ichi the Killerè questo: una storia di amori non corrisposti, di metà della mela che sembrano combaciare anche se non proprio in maniera perfetta; solo che per raccontare questa trama, Takashi Miike pare non salvaguardare nemmeno una parte del corpo dei suoi personaggi. In 125 minuti assistiamo a lingue e capezzoli affettati, pugni ingoiati (in una mossa marziale di difesa capace di spiazzare ogni avversario), gole e arti recisi; insomma un bagno di sangue in cui il dolore fisico dei personaggi va di pari passo con il piacere che provano nel massacrare o essere massacrati.

L’apice non può che essere lo scontro finale tra Ichi e Kakihara, che avviene sul tetto e vede lo Yakuza ossigenato in fibrillazione come uno scolaretto, perché è chiaro che non ti può capitare di incontrare la tua potenziale anima gemella due volte nella vita, ma con due personaggi così scombinati è altrettanto chiaro che non può essere tutto pesche e crema. Il vero dolore per loro sarà quello di continuare a non trovare reciproca soddisfazione uno dall’altro, una delusione così grande che si traduce in un suicidio tragico, che normalmente si direbbe shakespeariano, se non fosse già tutto così Miikiano; quindi occhio alla ferita in mezzo alla fronte di Kakihara, che è rivelatrice su come si sono svolti davvero i fatti.


“Takashi ma cosa ti fumi per fare film così?”. “Rosmarino”.

Con tutti questi morti ammazzati male e coppie di sicari assassini, di cui uno vestito da cane (eh!?) Ichi the killer è una storia di amore e dolore, soprattutto dolore, capace di mettere alla prova il vostro fegato in fatto di film. Per “The Pleasure of pain” non poteva però esserci titolo migliore… Amatevi come ama soffrire e far soffrire Kakihara, sono sicuro che questo in vita vostra non ve lo ha augurato mai nessuno!


* * *


Non potevo quasi credere a quel che vedevo, quando ho posato per la prima volta gli occhi su questo post che Cassidy - il blogger super esperto di cinema (e fumetto) amministratore de La bara volante - ha preparato per The Pleasure of Pain II. Tra i candidati, fin dall'inizio, a fare da sigillo allo Speciale, a causa della progressione dei temi che avevo in mente, non potevo ancora sapere che avrebbe magicamente richiuso il cerchio riportando The Pleasure of Pain al suo post delle origini, Il piacere della sofferenza, apparso lo scorso primo maggio su The Obsidian Mirror. Tutto era allora cominciato con degli uncini (quelli del ciclo di Hellraiser) e tutto a degli uncini ora ritornava. Degli uncini che per di più sono forse la sola cosa che, graficamente parlando, ha attraversato immutata, accompagnandosi al logo del titolo, le due fasi dell'iniziativa. Cosa chiedere quindi di meglio a un finale?


Ma vi sarete forse anche accorti di qualcos'altro. Ossia che il discorso da me iniziato sotto l'insegna di Dal sadismo a Sadeè arrivato appena al suo secondo post ed è ancora abbastanza lontano dal potersi considerare concluso. Credo anzi che potrebbe tranquillamente arrivare a dieci parti, se prendessi in considerazione tutti gli appunti che ho messo su carta. Ho invece intenzione di limitarmi a esaurire il discorso avviato su Le centoventi giornate di Sodoma, in particolare in relazione al Salò di Pier Paolo Pasolini, e poi mettere il discorso de Sade a riposo, almeno per un po' di tempo. Detto in altri termini, The Pleasure of Pain II termina oggi come previsto, ma dalla prossima settimana prenderà il via una sua extension di breve durata, la minima necessaria.
Il punto è che una buona parte dei guest-post che mi sono stati proposti dai validi collaboratori allo Speciale, che approfitto per ringraziare tutti di nuovo, mi ha invogliato ad aggiungere qualcosa sull'argomento specifico, così che si può dire che alla fine io abbia lavorato soprattutto "a braccio". Che è poi il mio modo consueto di lavorare con il blog.
Non mi resta quindi che invitarvi a seguirmi anche per la breve durata di The Pleasure of Pain II Extended, oltre che, se qualcuno di voi, chiunque di voi, che legge queste righe si sentisse stimolato a farlo, invitarvi ad inviarmi un nuovo guest-post in tema da pubblicare al suo interno.

[I. L.]

Anno VI - Anno nuovo... testata nuova: Indice delle immagini

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Oggi 24 novembre il mio blog compie cinque anni ed entra così nel suo sesto anno di vita, un passaggio che ho voluto anche questa volta sancire, come è ormai mia consuetudine, con un cambio di immaginette della testata. Come sempre ho pescato dal mio archivio di immagini per il blog, che ne comprende ormai diverse migliaia, in gran parte da me già utilizzate mentre altre le utilizzerò forse in futuri post.
Procedo a intuito nella scelta di quelle che andranno a comporre la nuova testata, con il minimo possibile di filtro mentale. Ne seleziono una ventina tra quelle che sul momento mi risuonano di più, le riduco di formato e le accosto tra loro, aggiungendole o togliendole finché non ottengo una composizione che giudico sufficientemente armonica. L'unico vero prerequisito nella scelta è che le immagini rimangano ben leggibili anche dopo ridotte di dimensioni.
A questo punto produco poi tre diverse versioni della testata: la prima con immagini semitrasparenti su sfondo trasparente; la seconda, che è quella destinata ad accompagnare il blog per l'intero anno, con le stesse caratteristiche della prima ma con l'aggiunta delle scritte; la terza, che mi serve appunto da riferimento per l'indice che segue, con immagini senza trasparenza e numerate.

Indice delle immagini

1. Dettaglio di una foto di uno dei miei fotografi preferiti da sempre, Jock Sturges, tratta dal suo libro The Last Day of Summer (1991).


Ho utilizzato la foto intera nel 2016, nel tag-post estivo Summer Cocktail: I benefici dell'adulterio, la Top Five dell'estate e chi più ne ha...



2. Ritaglio della copertina del libro per ragazzi Sussi e Biribissi di Collodi Nipote (1876-1958), che oltre a essere nipote dell'autore di Pinocchio è stato anche, negli anni trenta, il primo direttore del Topolino Nerbini.



Ho pubblicato la copertina del libro sul mio blog nell'ormai lontano 2014, nel tag-post bibliofilo Una mina inesplosa: Il Premio UNIA.


3.Edipo e la Sfinge, immagine tratta dal volume 12 della prima edizione italiana (1967) dell'enciclopedia per ragazzi I quindici.


Ho utilizzato l'illustrazione nel 2014, nel post a tema autobiobibliografico Quel che debbo ai Quindici /1: Dalla Preistoria all'Enigma.


4. Particolare della vignetta finale della Sunday Page di Tarzan di Russ Manning (1929-1981) del 14/10/1973.


L'ho utilizzata nel 2016, come immagine di apertura del post-segnalazione libraria The complete Russ Manning - Volume uno.


5. Fermo immagine dall'ultimo episodio della serie tv Picnic at Hanging Rock (2018). Per l'occasione ho rovesciato il fotogramma che in origine appare come qui sotto.


Ho utilizzato l'immagine, nel suo verso giusto, nel post Il primato della visione: Picnic at Hanging Rock TV series.


6. Un'altra immagine tratta da I quindici, dal volume 2 stavolta, dove illustra la fiaba La fiaccola dei desideri di Guido Gozzano.
L'ho utilizzata nel post del 2015 I misteriosi Quindici.


7. Una delle più famose scene dello sceneggiato RAI Odissea (1968), tratta dall'episodio di Ulisse alle prese con il ciclope Polifemo firmato da Mario Bava (1914-1980).
L'ho pubblicata, a colori, nel post della primavera scorsa Segnalazione: I grandi sceneggiati della televisione italiana. Qui l'ho invece ripubblicata in bianco e nero in omaggio alla mia prima visione dello sceneggiato, nel lontano 1968.


8. Illustrazione del pittore toscano Memo Vagaggini (1892-1955) per l'edizione Corticelli de Il libro della giungla di Rudyard Kipling.
L'ho pubblicata nel post di apertura dell'anno 2018 Sui sentieri dell'Autobiobibliografia con Memo Vagaggini.

La mia pagina Pinterest dedicata al pittore Memo Vagaggini


9. Dettaglio della copertina di Robinson Crusoe nell'edizione Giunti-Bemporad Marzocco del 1969.
Non ho ancora utilizzato questa immagine in nessun post del blog.


10. Illustrazione dell'artista svedese Tyra Kleen (1874-1951) per il racconto di Ingeborg Kleen Midsommarvaka (Vigilia di Mezza Estate), apparso nel 1899 sul periodico svedese Ord och Bild (Parola e Immagine).


Ero convinto di aver pubblicato l'immagine nel 2015, all'interno della mia Serie di post su Tyra Kleen, ma a quanto pare non è così.


11.La quercia ospitaleè il volume numero 66 della collana di libri per ragazzi La stella d'oro (1965-68).
Ho parlato di questa collana di libri illustrati di piccolo formato nel post del 2014 La mia prima libreria /1 - La stella d'oro.


12. Un'illustrazione di Alex Raymond (1909-1956), celebre disegnatore di fumetti creatore di personaggi quali Gordon (con la collaborazione ai testi di Don Moore), Jim della giungla, Agente segreto X-9 (con Dashiell Hammet) e Rip Kirby (con Ward Greene). Grande appassionato di macchine da corsa, Raymond muore in un incidente mentre prova l'auto sportiva di un amico.

Alex Raymond all'opera. La modella è probabilmente la stessa
ritratta nell'illustrazione da me utilizzata.

Ho parlato di lui nel 2015, nel post in assoluto più letto del mio blog: 10 serie a fumetti che hanno scandito i miei anni '70.


13. The Woman in White di Frederick Walker (1840-1875).


Ho usato questa illustrazione, che in origine pubblicizzava la versione teatrale dell'omonimo romanzo del 1859 di Wilkie Collins, in un post del 2016 intitolato Sette opere d'arte per sette poesie, per accompagnare i versi de I Sonetti a Orfeo II, 29 di Rainer Maria Rilke.


* * *


Dopodiché non mi resta che invitarvi a seguire il mio blog anche in questo suo sesto anno di vita, che temo sarà tuttavia, con ogni probabilità, più a intermittenza del solito, con alcuni periodi di stand-by in cui mi dedicherò ad altro. Grazie a chi vorrà esserci comunque.

The Pleasure of Pain II Extended - Dal sadismo a Sade /3: La bibliografia di Salò o le 120 giornate di Sodoma

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La lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. Invece un regista esprime la realtà attraverso la realtà. Ecco, questa è forse la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco alla letteratura.

(Pier Paolo Pasolini)
* * *
Salò sarà un film "crudele", talmente crudele che (suppongo) dovrò per forza distanziarmene, fingere di non crederci e giocare un po' in modo agghiacciante.
(Pier Paolo Pasolini)

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Salò o le 120 giornate di Sodoma rimane forse ancora oggi il caso unico al mondo di un film che presenta nei titoli di testa una bibliografia essenziale, l'elenco dei testi consultati da Pier Paolo Pasolini per la sua realizzazione.


Ricordo che la prima cosa che mi balzò all'occhio a suo tempo di questo fu l'assenza del nome di Georges Bataille, che io non riesco mai, quando si tratta di Sade, a non citare accanto a Blanchot e Klossowski. A maggior ragione se mi trovo davanti a frasi come questa:
In ogni opera in cui l’individualità, la singolarità si afferma con originalità e violenza c’è qualcosa di inintegrabile dalla società.

E' un'affermazione che ho sentito da Pasolini¹, ma se mi dicessero che citava Bataille potrei anche crederci. Come, in fin dei conti, se mi dicessero che citava Blanchot o Klossowski. In ogni caso, quel che più conta è che calza a pennello per definire un'opera letteraria come quella del Marchese de Sade, la cui inintegrabilità si è spinta a un punto tale da convincere la società del suo tempo a relegare a vita ai suoi margini lo scrittore (sebbene con Pasolini, alla fine, ci si sia spinti ancora oltre).

Ma degno di nota è, nell'elenco in immagine, anche l'avviso finale sui brani citati nel film dai quattro libertini suoi protagonisti: il Duca, il Vescovo, l'Eccellenza e il Presidente, che sono brani tratti da due testi ancora inesistenti all'epoca di ambientazione del film. Mentre infatti la vicenda ha luogo (come ci avvisa il primo di due cartelli che seguono i titoli di testa) nell'Italia settentrionale tra il 1944 e il 1945, le due opere citate di Klossowski e Barthes appaiono rispettivamente per la prima volta solo nel 1947 e nel 1971.
Anche in questo caso, però, niente di male, visto che a Pasolini, che era ben cosciente di tale discrepanza temporale, andava bene così. Mentre, per quel che mi riguarda, partirò proprio da questo avviso finale per mostrare quali siano esattamente queste citazioni e in che forma sono diventate parte del testo definitivo di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Per fortuna, trattandosi in genere di brani privi di collegamenti diretti con gli eventi del film ma che funzionano piuttosto come massime di filosofia libertina, sono del tutto presentabili anche a sé stanti come mi appresto appunto a fare. Un'eccezione è rappresentata dalla scena della finta minaccia di uccisione di una delle vittime maschili, per cui ho deciso in tal caso di replicare la citazione anche nella didascalia dell'immagine di accompagnamento.

Cominciando dal saggio di Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, sembra che Pasolini abbia tratto da questo testo un'unica citazione, enunciata dal Vescovo:
Deliziosa creatura, vuoi le mie mutande sporche, le mie vecchie mutande? Sai che ciò è di una raffinatezza impareggiabile? Vedi come sono sensibile al valore delle cose. Ascolta, angelo mio, io ho il più grande desiderio del mondo di contentarti in questo, poiché sai che rispetto i gusti, i capricci: per barocchi che essi siano li trovo tutti rispettabili, sia perché non ne siamo arbitri, sia perché anche il più singolare e il più bizzarro, a bene analizzarlo, risale sempre a un principe de délicatesse.

Che è a sua volta la citazione letterale, da parte di Barthes, di un passo di una lettera del prigioniero de Sade alla moglie che gli aveva richiesto le mutande sporche da lavare.
Ben più numerose sono invece le citazioni riconducibili al saggio di Pierre Klossowski, Sade prossimo mio/Il filosofo scellerato. Comincio in questo caso dalla seguente citazione del Duca, proveniente in parte dal capitoletto "Critica del perverso in Sade, preliminare alla creazione del personaggio sadiano", che occupa le pagine 27-34 dell'opera nell'edizione ES:
Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti la sola vera anarchia è quella del potere. Tuttavia guardi lì, la gesticolazione oscena è come un linguaggio dei sordomuti, col suo codice che nessuno di noi, malgrado il suo illimitato arbitrio può trasgredire. Non c'è niente da fare. La nostra scelta è categorica: noi dobbiamo subordinare il nostro godimento a un gesto unico.²

Così come dalla stessa sezione del libro proviene anche questa citazione del Duca:
Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana, e il più ambiguo perché accetta le norme sociali per infrangerle.

Alla quale il Vescovo così replica:
C'è qualcosa di più mostruoso del gesto del sodomita, ed è il gesto del carnefice.
E' vero - ribatte il Duca -, ma il gesto del sodomita ha il vantaggio di poter essere ripetuto migliaia di volte.


Ed ecco come si presenta, in questo caso, il passo originale di Klossowski (op. cit., pag. 31):
Cercando di decifrare il gesto del perverso, Sade istituirà il codice della perversione. Il segno chiave gli viene rivelato dalla sua stessa costituzione, ed è quello del gesto sodomita. Per Sade tutto gravita, da vicino o da lontano, attorno a questo gesto, il più assoluto per quel che di mortale ha per le norme della specie, e in certo qual modo d'immortale per il suo ricominciare; il più ambiguo, in quanto concepibile unicamente grazie all'esistenza di quelle norme; il più atto alla trasgressione, che può effettuarsi soltanto tramite l'ostacolo di quelle norme.³

Sulla mostruosità poi, qui tirata in ballo dal Vescovo, si era in precedenza espressa una delle narratrici degli esempi delle passioni, la Signora Maggi, che cita ancora da Klossowski (stavolta direttamente in francese, che è la lingua madre dell'attrice):
Notre délice, c'est de ré-introduire le caractère divin de la mostruosité, à travers des actes réitérés, c'est-à-dire des rites.

Ed ecco, per il confronto, come si presenta, in italiano, il testo integrale di Klossowski (op. cit., pag. 14):
...l'ateismo sadiano reintroduce il carattere divino della mostruosità - divino nel senso che la sua "presenza reale" si attua sempre attraverso dei riti - ossia degli atti reiterati.


Tutti i brani di Klossowski fin qui citati, provengono interamente dal breve saggio Il filosofo scellerato, premesso a Sade prossimo mio solo a partire dall'edizione riveduta del 1967. Da una parte diversa del libro è invece tratta la seguente citazione del Duca:
Ebbene, Eccellenza, si è convinto? E' dalla vista di coloro che non godono ciò che godo io e che soffrono i peggiori disagi che deriva il fascino di poter dire a se stessi: "Comunque io sono più felice di questa canaglia che si chiama popolo": dovunque gli uomini siano uguali, e non esista questa differenza, nemmeno la felicità esisterà mai.

E di nuovo, per il confronto, il corrispondente passo di Klossowski (op. cit., pag. 91):
Il personaggio di Saint-Fond rivela un ulteriore tratto caratteristico della coscienza libertina: l'orgoglio della sua condizione, il disprezzo del suo simile, e infine l'odio, misto a timore, nei confronti di "questa vile canaglia chiamata popolo".

Passiamo adesso a un'altra citazione ancora, del Vescovo stavolta, che nel secondo dei due volumi della collana Meridiani (Mondadori) comprendenti tutti gli scritti per il cinema di Pasolini è anch'essa attribuita a Klossowski:
Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell'eternità, se l'eternità potesse avere dei limiti?

Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte,
fino ai limiti dell'eternità, se l'eternità potesse avere dei limiti?

A me sembra invece che la fonte di questa citazione sia da ricercarsi altrove, e precisamente nel saggio di Maurice Blanchot Lautréamont e Sade, dove, a pagina 38 (dell'edizione SE), è citato un passo della Histoire de Juliette di Sade in cui Lady Clairwill così rimprovera il ministro Saint-Fond:
"Sostituisci l'idea voluttuosa che ti infiamma la mente - l'idea di prolungare all'infinito i supplizi dell'essere che è stato votato alla morte -, sostituiscila con un maggior numero di omicidi; non devi far durare più a lungo la morte di uno stesso individuo, cosa che è impossibile, ma assassinarne molti altri, il che è fattibile."⁴

Brano forse usato da Pasolini anche per la citazione in tedesco sul lupo mannaro, spesso considerata oscura, con cui la Signora Castelli conclude le sue descrizioni delle passioni di tipo omicida e prepara la strada alla parte finale del film, quella nota soprattutto per le realistiche scene di tortura:
Werwolf, es ist nicht genug denselben Menschen immer wieder zu totën. Es ist dagegen zu empfehlen, soviel Wesen wie möglich umzubringen.

E il riferimento al lupo mannaro? La fonte è forse da ricercarsi (ma è solo una mia tesi) nella prima stanza di una poesia di Charles Baudelaire intitolata Il crepuscolo della sera (I Fiori del male XCV), che Pasolini aveva evidenziato a matita, sulla sua copia del libro con le poesie di Baudelaire, proprio in vista di un possibile utilizzo nel film⁵:
L'incantevole sera, amica del delitto, ecco venire
a complici passi di lupo. L'orizzonte
si chiude lentamente come un'immensa alcova,
l'uomo impaziente si trasforma in belva.


Se si escludono infatti i numerosi estratti da Le centoventi giornate di Sodoma, riportati spesso alla lettera⁶, le altre citazioni da opere di Sade utilizzate da Pasolini provengono tutte non dalle opere stesse ma dai saggi citati nella bibliografia di apertura. Figurano inoltre nel film, a completare il collage della sceneggiatura, alcune citazioni letterarie extra-sadiane, tra le quali voglio ricordare almeno quella tratta dal Quarto dei Canti di Maldoror di Lautréamont, che non ho finora trovata evidenziata in nessuno dei saggi e articoli che ho letto, e che recita così:
Era giunto finalmente il giorno...
dice a un certo punto il libertino sempre designato nel film come Eccellenza e corrispondente al Curval del romanzo di Sade.
...in cui fui io un maiale, provavo i denti sulla corteccia degli alberi, il grugno me lo contemplavo con delizia.
Continua e conclude la Signora Castelli.


* * *

Note al testo


¹ Da Pasolini prossimo nostro, Cinemazero/Ripley's Film 2006. Regia di Bernardo Bertolucci.

² Pierre Klossowski, Sade prossimo mio. Es, 2003. Traduzione di Gaia Amaducci.
Pasolini utilizzava invece l'edizione Garzanti del 1975.

³ Così invece Pasolini in Le regole di un'illusione, pag. 317: "Di Klossowski ho scelto alcuni brani, là dove parla della gesticolazione dell'amore, dell'eros. Eternamente uguale e di qui il codice della ripetitività. Sorge però il problema della gesticolazione sodomitica, che è la più tipica di tutte perché la più inutile. La più gratuita perché meglio riassume la ripetitività infinita dell'atto. E poi, in tutto ciò, si inserisce la gesticolazione del carnefice, che è anomala in quanto può ripetere il gesto una sola volta. E soprattutto ho preso da Klossowski - ripreso poi da Palazzolo - il modello di Dio. Tutti questi superuomini nietzscheani ante litteram, nell'adoperare i corpi come cose, in realtà non sono che dèi in terra. Cioè, il loro modello è sempre Dio. Nel momento in cui lo negano non freddamente - diciamo così secondo la filosofia razionale, libertina - ma con passione, lo rendono reale. Lo accettano come modello."

⁴ Maurice Blanchot, Lautréamont e Sade, 2003 SE. Traduzione di Vincenzo Del Ninno.

⁵ Come mostrato nel video-documento La fine di Salò (2005), ideato e diretto da Mario Sesti.

⁶ Da Pasolini prossimo nostro: "Non ho aggiunto una parola a ciò che dicono i personaggi di Sade, né alcun particolare estraneo alle azioni che compiono. Il solo riferimento all’attualità è il loro modo di vestirsi, di comportarsi, la scenografia, ecc. insomma, il mondo materiale del 1944."

Crediti delle immagini

Le foto di scena in bianco e nero sono di Deborah Imogen Beer, fotografa ufficiale sul set del film, e sono tratte dal film citato Pasolini prossimo nostro.

The Pleasure of Pain II Extended - Dal sadismo a Sade /4: Inferno (Dante, Sade, Pasolini)

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Dopo i titoli di testa, dopo la bibliografia essenziale, e dopo la specifica che ci troviamo nell'Italia Settentrionale a cavallo tra il 1944 e il 1945, segue in Salò o le 120 giornate di Sodoma un cartello con la scritta "ANTINFERNO", che segna l'inizio vero e proprio del film e sta a indicare tutta la sua prima parte, quella relativa alla fase di preparazione dell'orgia e quindi corrispondente alla parte iniziale del romanzo di Sade a cui ho dedicato il post sulla Scuola del libertinaggio.


Ed è proprio questa diversa forma di suddivisione delle parti a rappresentare, dopo la ricollocazione degli eventi in un diverso contesto temporale e geografico, la seconda deviazione significativa di Pier Paolo Pasolini regista dal testo sadiano: le quattro fasi con i quattro differenti tipi di passioni - semplici, composte, criminali e omicide - presenti nel libro, lasciano il posto nel film a una struttura in tre gironi: delle manie, della merda e del sangue, ognuno preceduto dall'apparizione del cartello con la relativa scritta.


Ma Pasolini considera a questo proposito, e credo del tutto a ragione, di non essersi discostato di molto da de Sade con questa sua scelta di utilizzare una terminologia dantesca, poiché con ogni probabilità lo scrittore francese aveva a sua volta trovato, in fase di composizione del romanzo, larga ispirazione nella Commedia di Dante.nbsp;La miglior prova di questo ce l'ha del resto fornita il Marchese stesso, in occasione del racconto della centoventesima giornata dell'orgia e della descrizione dell'ultima passione delle seicento complessive, quella che fa da coronamento al romanzo e consiste di un lungo e articolato supplizio intitolato, non a caso, "Inferno".

Così, quel che farò adesso, nel seguito di questo post, sarà proprio di produrre un riassunto-analisi di tale supplizio, alternando a una serie di estratti dal libro i miei commenti. Ed è per noi una vera fortuna che sebbene questa descrizione si trovi in realtà in una sezione dell'opera lontanissima dalla forma definitiva, de Sade l'abbia portata abbastanza avanti da rendercela pienamente fruibile. Aggiungo soltanto che qui, come nel resto del brano, il Marchese, che si esprime per bocca dell'ultima e della più crudele delle quattro narratrici, Madame Desgranges:¹
Per questa passione, [un gran signore ricchissimo, molto feroce e crudele] ha una casa alla periferia di Parigi, estremamente isolata. Il luogo in cui soddisfa la sua voluttà è un grande salone molto semplice ma interamente foderato e imbottito; una grande vetrata è l'unica apertura di questa stanza; si affaccia su un vasto sotterraneo, alla profondità di venti piedi sotto il pavimento del salone, e, sotto la vetrata, sono disposti materassi per accogliere le ragazze quando verranno gettate nel sotterraneo, che in seguito descriveremo. Per questa partita gli servono quindici ragazze tra i quindici e i diciassette anni, non minori né maggiori. Sei adescatrici lavorano a Parigi e dodici nelle province per cercargli tutto ciò che di più incantevole possa trovarsi in questa età, e poi le si riunisce in un vivaio, via via che le si trova, in un convento di campagna di sua proprietà, e qui seleziona i quindici soggetti per la sua passione, a cui si abbandona regolarmente ogni quindici giorni. Esamina personalmente, la sera prima, ogni soggetto; il suo pur minimo difetto causa l'esclusione; vuole che siano, in assoluto, dei modelli di bellezza.

Dopo una lunga serie di preliminari di varia natura, ma comunque incentrati sulla deflorazione, in entrambe le vie (così che il libertino riesce a cogliere in un solo giorno trenta verginità - ma senza perdere una sola goccia di sperma, specifica il Marchese), e su una serie di torture "minori", arriva il momento in cui le quindici ragazze sono precipitate nel sotterraneo.
[Il libertino] Apre la vetrata che si affaccia sul sotterraneo, costringe la ragazza a star ritta con il culo rivolto verso di lui, in mezzo al salone, di fronte alla vetrata; le sferra infine un calcio in culo così violento da farla volare attraverso la vetrata, e va a cadere sui materassi. Ma prima di farla così precipitare, le lega al collo un nastro, e questo nastro indica il supplizio che ritiene le si addica maggiormente, o che sarà il più voluttuoso da infliggerle, ed è incredibile quale intuito e quale conoscenza abbia in questo.

Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975) - Immagine dal Girone delle manie

Abbiamo già visto come anche i quattro libertini protagonisti del romanzo si accontentassero di nulla di meno che della perfezione delle loro vittime. Ed è vero che i grandi libertini, una classe di "superuomini nietzscheani ante litteram" (per citare Pasolini) che si può forse far corrispondere a quella dei grandi predatori della savana africana, non si accontentano volentieri di prede minori, come possono essere quelle sottratte al grasso, e sempre disponibile, serbatoio del popolo, ma giunge un momento in cui preferiscono piuttosto mettere a repentaglio la loro potenza e impunità pur di sottrarre alle famiglie legittime le figlie e i figli dell'aristocrazia. Ed è curioso notare, a questo proposito, come anche la famosa "contessa sanguinaria" Erzsébet Báthory, la cui figura avrebbe sicuramente infiammato l'immaginazione di de Sade se gli fosse stato possibile sapere di lei, abbia seguito una progressione analoga nella scelta dei soggetti dei suoi crimini, dimostrando così con i fatti, e con due secoli di anticipo, la realtà di questa "verità" del mondo sadico. Non ci sono del resto dubbi che l'opera di negazione di cui il libertino si fa portatore sia tanto più incisiva quanto più è perfetto ed elevato l'oggetto su cui è esercitata.
Ritengo poi degna di nota la precisazione del marchese a proposito del gran signore che deflora le ragazze "senza perdere una sola goccia di sperma". Perché de Sade si sofferma su un simile dettaglio? La risposta è che perdere sperma in un rapporto sessuale relativamente normale è un vero affronto per i grandi libertini, che trattano il loro sperma come se fosse un vino d'annata da riservare per le grandi occasioni, ossia per i grandi crimini.

Infine, terzo punto e forse il più significativo, anche se finora non ho trovato nessuno che abbia svolto una simile considerazione, a me pare di poter individuare una volontà, in de Sade, di "incarnare" nel proprio universo letterario, con la figura di questo misterioso "gran signore", nientemeno che il Minosse dantesco, cioè il giudice infernale che destina senza errore ogni anima dannata a "qual loco d'inferno è da essa":

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia;
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno è da essa:
cignesi con la coda tante volte,
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte. 

(Inferno, Canto V, 1-15)


William Blake, Minosse (1824-27)

Difficile pensare che l'intuito e la conoscenza manifestata da questo particolare libertino siano solo una coincidenza, soprattutto dopo che Sade ha scelto di chiamare proprio "Inferno" questa sua particolare invenzione narrativa. Vero che la prima traduzione francese dell'Inferno di Dante, a cura di Antoine Rivaroli, è del 1785, vale a dire dello stesso anno della composizione, tra le mura della Bastiglia, de Le centoventi giornate di Sodoma, ma echi della Comedia erano già da tempo trapelati negli ambienti colti parigini frequentati dal Marchese, che aveva inoltre anche compiuto il suo personale "viaggio in Italia".

Ma riprendiamo adesso, dopo questa serie di mie precisazioni/supposizioni, il racconto dell'Inferno di Sade.
Il sotterraneo in cui le ragazze precipitano è fornito di quindici diversi strumenti per le torture più spaventose, e un boia con maschera ed emblema demoniaci presiede a ogni supplizio, vestito con il colore corrispondente a quel supplizio.

Colori che naturalmente corrispondono anche a quelli dei nastri che le vittime portano al collo. Il supplizio ha però inizio solo dopo che tutte le ragazze sono cadute nel sotterraneo, nel momento in cui il gran signore, al culmine dell'eccitazione, vi discende a sua volta.
In quell'istante tutto si mette in moto, e tutte le torture entrano in funzione, e funzionano contemporaneamente.
La prima tortura è una ruota su cui è la ragazza, e che continua a girare sfiorando un cerchio coperto di lame di rasoio contro le quali l'infelice si ferisce e taglia in tutti i sensi a ogni giro; ma poiché è solo scalfita ruota per almeno due ore prima di morire.
La 2. La ragazza è distesa a due pollici di distanza da una lastra rovente che la consuma lentamente.
3. E' fissata per il coccige sopra una lastra di ferro rovente, e le sue membra vengono slogate in modo spaventoso.
4. Ha le membra legate a quattro molle che si aprono a poco a poco, e la tendono lentamente, finché le membra si lacerano e il tronco precipita in un braciere.
5. Una campana di ferro rovente le fa da berretto, che però resta sospeso, per cui il suo cervello fonde lentamente mentre la testa arrostisce.
6. E' in un recipiente pieno di olio bollente, incatenata.
7. E' in piedi davanti a una macchina che scocca sei volte ogni minuto una freccia acuminata nel suo corpo, e sempre in punti diversi; la macchina si ferma solo quando lei è totalmente trafitta.
8. Ha i piedi in una fornace, e un blocco di piombo sulla testa la preme verso il basso, via via che lei si consuma.
9. Il suo carnefice la colpisce continuamente con un ferro rovente; è legata di fronte a lui; le colpisce così a poco a poco ogni parte del corpo.
10. E' incatenata a una colonna sotto un globo di vetro, e venti serpenti affamati la divorano viva.
11. E' appesa per una mano, e ha due palle di cannone ai piedi; se cade, viene divorata da una fornace.
12. E' impalata per la bocca e a gambe all'aria; una pioggia di lapilli le cade continuamente sul corpo.
13. Le hanno cavati i nervi dal corpo, e li hanno legati a corde che li allungano; nel frattempo li tormentano con punte di ferro rovente.
14. Viene alternativamente dilaniata e frustata sulla fica e sul culo con sferze di ferro dalle punte di acciaio rovente e di tanto in tanto è graffiata con unghie di ferro arroventato.
15. Viene avvelenata con una droga che le brucia e le strazia le interiora, che le procura convulsioni spaventevoli, che le fa lanciare urla strazianti, e lei deve essere l'ultima a morire. Questo supplizio è uno dei più terribili.

Solo a questo punto, dopo aver osservato a lungo ogni tortura, "bestemmiando come un dannato e coprendo la vittima di invettive", il gran signore si permette di perdere sperma, "lanciando urla che coprono totalmente quelle delle quindici vittime".

Henry Chapront
Illustration pour La Bas de J.K. Huysmans
La natura schematica dell'esposizione in quindici punti delle quindici torture non deve trarre in inganno: non è da Sade e la si deve senza dubbio imputare alla natura di abbozzo dello scritto. Come ho già accennato altrove, solo la prima delle quattro parti dell'opera, comprendente la descrizione degli avvenimenti delle prime trenta giornate e l'esposizione dei primi centocinquanta tipi di passioni - le passioni semplici - è giunta a noi in una veste vicina a quella definitiva, mentre delle successive novanta giornate, con i restanti quattrocentocinquanta tipi di passioni, esiste uno schema di massima con soltanto alcuni punti, tra cui quelli compresi in questo estratto, presentati in una forma abbastanza compiuta.
Non è quindi neanche possibile avere la certezza che le quindici torture dell'Inferno sarebbero rimaste le stesse anche a revisione ultimata da parte di de Sade. Pasolini, dal canto suo, in Salò o le centoventi giornate di Sodoma fa un primo tentativo di sviluppo in un senso più discorsivo, senza neanche mancare di concedersi alcune variazioni:
E clic, zirkel im verstehen. Il nostro uomo evidentemente conosceva non solo Nietzsche ma anche Huysmans. Un boia vestito con la maschera e gli emblemi del demonio presiede gravemente a quegli orribili apparati.

Quando tutte le fanciulle sono riunite, il nostro uomo, straordinariamente eccitato per aver avuto trenta contatti senza mai liberarsi, è del tutto nudo e il suo membro è come incollato al ventre.
Tutto è pronto, tutti i macchinari vengono azionati, e le torture cominciano contemporaneamente, provocando un terribile frastuono.

La prima è una ruota enorme, da cui spuntano taglienti rasoi e sulla quale viene legata una ragazza per essere scorticata viva. A un'altra viene cucito un topo vivo dentro la vagina. Un'altra ragazza è legata a una lastra di ferro rovente. Un'altra ha i piedi imprigionati in un forno, nel quale viene fatta scivolare lentamente da un pesantissimo oggetto posto sopra la sua testa. Ad un'altra vengono saldamente legate le quattro estremità ad altrettanti ingranaggi che a poco a poco si allontanano dal suo corpo...
[Una delle mogli: Dio, Dio, perché ci hai abbandonati?]
...sottoponendo a una terribile tensione le braccia e le gambe che finiscono per staccarsi. Il tronco viene poi gettato in un braciere. Ad un'altra ancora le infilano la testa sotto una campana di ferro rovente le cui pareti non la toccano direttamente ma il cui calore dissolve gradatamente la sua materia cerebrale.

E' a questo punto che si interrompe, nel film, l'elencazione delle torture da parte della Signora Castelli. Come si vede, la seconda tortura differisce nei due elenchi, ma anche la tortura citata da Pasolini proviene dal romanzo Le centoventi giornate di Sodoma, o meglio dagli appunti di Sade presentati, nell'edizione corrente dell'opera, alla voce "supplizi supplementari", dove vi figura in questi termini:
Per mezzo di un tubo le si introduce un topo nella fica; si toglie il tubo, si cuce la fica e l'animale, non potendo uscire, le divora le viscere.

Venendo poi al resto del brano, nel zirkel im verstehen (circolo ermeneutico) è forse da ipotizzarsi un riferimento a un'opera fondamentale di Pierre Klossowski del 1969, Nietzsche e il circolo vizioso.² E di nuovo sull'ambiguità temporale gioca, infine, la citazione di Huysmans come ispiratore dei boia con le maschere e gli emblemi del demonio. Ovviamente il "gran signore" di de Sade, a differenza di quello di Pasolini, vivendo ed esercitando in un secolo antecedente, nulla poteva sapere né di Huysmans né della sua opera.

Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975) - Immagine dal Girone del sangue

Trecentosessantacinque ragazze all'anno (quindici ogni quindici giorni), di età compresa tra i quindici e i diciassette anni, e di grande bellezza, finiscono così sacrificate sull'altare di un solo libertino tra le miriadi che popolano il mondo di de Sade, con echi inevitabilmente grotteschi. Si può d'altronde essere tranquillamente d'accordo con Maurice Blanchot quando parla del mondo sadico come di "uno strano mondo", quasi altrettanto strano e improbabile, aggiungerei, del mondo letterario di un Lovecraft. Il crimine continua a esservi perseguito, d'accordo, ma di questo il libertino non ha troppo di che dispiacersi, poiché sebbene a parole possa teorizzare un'ideale di società in cui il crimine ha mano libera, se le cose stessero davvero così si priverebbe di raffinati piaceri come quelli della trasgressione delle norme e dell'agire all'interno di piccole confraternite segrete che si mantengono all'ombra della società. Senza per questo tralasciare di schierarsi, ogni volta che le circostanze lo rendono possibile, dalla parte della forza, non solo nel proprio privato ma anche nel pubblico.


* * *

Note al testo

¹ Da D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, ES 1991. Traduzione di Giuseppe De Col.

² Ma sono anche tentato di avvicinarlo a questo passo, sempre di Pierre Klossowski, in Sade prossimo mio
Corruzione, putrefazione, dissoluzione, esaurimento e annientamento; sono questi gli aspetti dei fenomeni della vita che avranno per Sade un significato sia morale che fisico. Soltanto il movimento è quindi reale: le creature non ne rappresentano che le fasi cangianti: si è tentati di avvicinare, sia pur con molte riserve, tale concezione a quella del movimento perpetuo della dottrina hindu del Samsara. Quest'aspirazione della natura a sfuggirsi, a ritrovare il lato incondizionato, non è forse un sogno vicino a quello del Nirvana - pur sempre nella misura in cui ne è suscettibile un sognatore occidentale? Ma Sade, invece di inoltrarsi nella via cercata da Schopenhauer, apre a quella a cui arriverà Nietzsche: l'accettazione del Samsara - dell'eterno ritorno dell'uguale. (Traduzione di Gaia Amaducci. ES, 2003, pag. 103).

* L'immagine di apertura del post è un dettaglio del Giudizio universale di Michelangelo raffigurante Minosse nella su veste di giudice infernale.


The Pleasure of Pain II Extended - Dal sadismo a Sade /5: Contro il Potere (Sade e Pasolini)

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La ragione profonda che mi ha spinto a fare il film è il vedere ciò che oggi il Potere fa della gente: la manipolazione totale, completa, che il potere sta facendo delle coscienze e dei corpi della gente.

(Pier Paolo Pasolini)

Bisogna essere prudenti quando si scrive, perché mai il dispotismo ha censurato tante lettere quante oggi la libertà.
(Donatien-Alphonse-François de Sade)

* * *


Pier Paolo Pasolini regista di Salò e Le 120 giornate di Sodoma si incontra con il Marchese de Sade autore de Le centoventi giornate di Sodoma, da un lato, sul piano del comune interesse per la componente sadomasochistica dell'esperienza sessuale e, dall'altro, e in misura maggiore, su quello della critica alla violenza e all'arbitrio del potere. Con il suo ultimo film, Pasolini porta infatti avanti, con assoluta coerenza, quella critica al potere che conduceva da anni e che è stata probabilmente la causa prima della sua morte.

Così in particolare il cineasta, in un'intervista rilasciata al critico, fotografo e documentarista tedesco Gideon Bachmann (1927-2016), spiega il rapporto tra il suo film e il romanzo di de Sade:
Il sadomasochismo è una categoria eterna dell’uomo – c’era al tempo di de Sade, c’è oggi, eccetera eccetera, ma non è questo che mi importa… cioè, mi importa anche questo, ma il reale senso del sesso del mio film è una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto, e quindi vale in realtà per tutti i tempi. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi io odio con particolare veemenza il potere di questi giorni, oggi 1975. E’ un potere che manipola i corpi in modo orribile che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono valori alienanti e falsi. Sono i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti.¹

Non ho idea se Pasolini abbia mai letto Gilbert Lely, autore, nel 1953, della prima vera biografia del Marchese de Sade, ma trovo in ogni caso significativo l'effetto dell'accostamento tra una frase del libro di Lely, Vita del Marchese de Sade, e alcune altre dichiarazioni del regista tratte dalla stessa intervista.

Ecco cosa scrive Lely, a proposito del particolare tipo di ateismo di de Sade:
De Sade contro Dio, significa de Sade contro la monarchia assoluta, contro Robespierre, contro Napoleone, contro tutto ciò che costituisce in modo esplicito e implicito un'ipoteca qualsiasi sullo splendido dominio della soggettività umana.²

E proviamo appunto adesso a confrontare questa frase con altri due estratti dall'intervista di Pasolini citata:
Se io al posto della parola "Dio" in de Sade metto la parola "Potere" viene fuori una strana ideologia, estremamente attuale, e questa attualità segna un salto, un vero e proprio salto rispetto ai film precedenti che ho fatto finora, cioè la Trilogia della vita (il Decameron, I Racconti di Canterbury, Le Mille e una notte). È Marxismo puro, cioè il Manifesto di Marx dice proprio questo: il potere mercifica i corpi, trasforma il corpo in merce. Quando Marx parla dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo parla effettivamente di un rapporto sadico.

E ancora:
[La nostra] è una civiltà omologatrice, che rende tutto uguale da cima a fondo. E' quindi chiaro che cadono i confini tra i piccoli gruppi… E’ una depauperazione dell’individualità che si maschera attraverso una sua valorizzazione.

Gideon Bachmann: Pasolini sul set di Salò o Le 120 giornate di Sodoma.

E questo stesso abuso del potere e questa stessa depauperazione dell'individuo è ciò che de Sade, vittima di ogni potere e in rivolta contro ogni potere, denunciava a sua volta senza tregua. Nel giro di poco, aveva dovuto ricredersi su ogni speranza che aveva riposto nella Rivoluzione e a cui aveva dato voce nel finale di Francesi, ancora uno sforzo se volete essere Repubblicani (Français, encore un effort pour être républicains), in quella che è forse da considerarsi l'unica parte non parodistica del pamphlet, ed ammettere che i nuovi arrivati al potere erano - al di là dei principi che professavano - non meno dispotici e sanguinari di coloro che avevano spodestato.
Nelle stesse lettere private da lui scritte negli anni seguenti alla sua liberazione dalla Bastiglia, de Sade non si esime dal render nota ai suoi interlocutori, con tangibile indignazione, ogni notizia che gli giungeva delle atrocità commesse dai nuovi "antropofagi" al potere. Fino allo sfogo amarissimo contenuto in una lettera indirizzata all'amico di infanzia, e amministratore dei suoi beni, Gauffridy, e scritta dal Marchese dopo la sua liberazione da Charenton. Nell'ospizio di Charenton, trasformato in prigione di lusso dai suoi ex liberatori, de Sade aveva goduto di agi e di una semilibertà neanche sognati alla Bastiglia. Ma poiché era anche stato costretto ad assistere al rituale quotidiano delle decapitazioni, eseguito alla ghigliottina che era stata eretta nel cortile della struttura, ecco che scrive a Gauffridy:
La mia prigionia nazionale con la ghigliottina davanti agli occhi, mi ha fatto più male di quanto non me ne avessero arrecato tutte le bastiglie immaginabili.

E non andrà meglio sotto l'Impero, con Napoleone, la cui ascesa e le conseguenze della stessa de Sade sembrava aver previsto nello stesso finale di Francesi, ancora uno sforzo... Ciò che de Sade infatti più temeva era che, una volta che i Francesi si fossero convinti di aver fondato un modello superiore di civiltà, si sentissero anche legittimati a esportarlo altrove e imporlo ad altri popoli e altre nazioni:
Ma io non vorrei che, dopo aver cacciato il nemico dalle vostre terre, o Francesi, foste trascinati oltre dall'ardore di propagare i vostri principi; infatti solo col ferro e col fuoco potreste portarli in capo al mondo! Prima di imbarcarvi in certe imprese, ricordatevi del disgraziato esito delle Crociate. Datemi ascolto!

Ed è quantomeno curioso che su questo vizio - che è stato a lungo tipicamente francese, con il Razionalismo a far le veci del Cristianesimo di Cortés e Pissarro, prima di passare in altre mani - si soffermi a lungo Pasolini stesso, in uno dei passi più densi e importanti dell'intervista:
Oltre che sull’anarchia del potere, il mio film è anche un film sull’eventuale inesistenza della storia. È un film in polemica contro l’idea della storia che ha la cultura eurocentrica, cioè il Razionalismo, o anche l’empirismo borghese da una parte e il Marxismo dall’altra. Prenda la Francia, con i suoi rapporti con l’Algeria e con il terzo mondo in generale, la Francia che è arrivata al massimo della razionalizzazione del mondo. Per la Francia, la parola libertà corrisponde con la parola razionalità.Ora la Francia è arrivata a una specie di saturazione della propria razionalità, e allora, come si pone davanti a questo irrompere di irrazionalità che porta con sé il terzo mondo della fame? Nel terzo mondo le popolazioni, appunto perché represse e tenute ai margini della vita pubblica e della vita politica, hanno conservato, come tutte le aree marginali, un tipo di cultura precedente, che è evidentemente un tipo di cultura in qualche modo preistorica. La Francia si pone come ammaestratrice di razionalità ai popoli coloniali. E infatti li educa benissimo. La Francia non ha preso niente da loro, ha soltanto dato, dato un modello di educazione, di razionalità, di civiltà, ma non ha saputo imparare niente da loro, perché questo tipo di religioso, irrazionale, preistorico che il terzo mondo porta con sé non è razionalizzabile, e quindi i Francesi devono modificare la loro ragione se vogliono comprendere, se non vogliono restare indietro… In questa modifica consiste la modernità.

O meglio, in questa modifica dovrebbe consistere la modernità, se la modernità, così come è oggi, consiste in quasi nient'altro che in uno sradicamento totale dell'uomo dal mondo reale, operato dal potere attraverso la costante manipolazione dei corpi e delle coscienze su dei sudditi fin troppo volenterosi di sottostarvi.


Ma andiamo avanti. Ancora Lely, nel suo libro si interroga poche pagine dopo su quello che è forse il più grande mistero de Le centoventi giornate di de Sade:
...sui seicento casi anormali raccontati dalle narratrici, senza contare l'azione che si svolge al castello, dove questa pratica ripugnante è ben rappresentata, più della metà offre l'immagine della ingestione degli escrementi, in forma autonoma o associata a altre passioni. Ora se la coprolagnia visiva, olfattiva o tattile (che sembra derivare dal feticismo e dal sadomasochismo) è relativamente frequente, la sua gemella parossistica, la coprofagia, non può essere inclusa che nel numero delle perversioni sessuali meno diffuse. Ricordata una sola volta nelle novecento pagine in-quarto della raccolta del Kraft-Ebing, essa dipende prima di tutto dalla alienazione mentale, dominio che non dovrebbe interessare l'indagine del marchese. Così nelle 120 journées la verosimiglianza è spesso rotta dalla supremazia gratuita della perversione più di tutte schifosa, che avrebbe potuto essere sostituita opportunamente da altre varianti squisitamente erotiche.³

Lely non tenta neppure di dare una spiegazione a una simile incongruenza, e in questo è in buona compagnia, visto che neanche i più noti interpreti di de Sade si sono dimostrati granché volenterosi di cimentarsi nell'impresa. Maurice Blanchot, per esempio, preferisce porre la sodomia come perversione centrale dell'opera del Marchese ed è a essa che dedica pagine pagine su pagine del suo pur breve saggio La raison de Sade⁴. E anche Georges Bataille e Pierre Klossowski sembrano preferire dedicarsi ad altro.
A me sembra in ogni caso che questa incongruenza, già da sola, dovrebbe bastare a scoraggiare ogni tentativo di vedere in de Sade un enciclopedista della perversione all'opera. Le sue mire devono essere state altre e lui si è guardato bene dal rendercele evidenti.

Può forse dirci qualcosa di più l'uso che Pasolini fa della coprofagia nel suo film? In questo caso le dichiarazioni del regista, almeno sulle sue proprie intenzioni, non lasciano dubbi:
Un vecchio contadino tradizionalista e religioso non consumava delle sciocchezze preconizzate dalla televisione. Bisognava fare in modo che invece le consumasse. In realtà, i produttori costringono i consumatori a mangiare merda. Il brodo Knapp è merda! Danno delle cose sofisticate, cattive, le robioline, i formaggini per bambini, tutte cose orrende che sono merda.

La coprofagia è quindi, nel film di Pasolini, metafora di quel che il consumismo produce reclamizza e fa mangiare. Ma cosa avrebbe preteso di metaforizzare de Sade, con il suo costante ricorso allo stesso soggetto nella sua scrittura? Forse tutta la merda che il potere gli faceva ingoiare, giorno dopo giorno, nella sua vita da carcerato? E' una tesi non del tutto improponibile, ma anche senza dubbio difficile da sostenere e impossibile da documentare.


Foto di Deborah Imogen Beer dal Girone della merda.


Torniamo dunque a Pasolini, che così continua:
Se facessi un film su un industriale milanese che produce biscotti, li reclamizzasse e li facesse mangiare a dei consumatori, verrebbe fuori un film terribile, sull'inquinamento, la sofisticazione, l'olio fatto con le ossa delle carogne. Potrei fare un film così, ma non posso! Come faccio a stare lì un anno prima a pensarci e poi a girare? Sarebbe più utile, nel senso diretto, pratico della parola, farlo proprio così com'è, ma chi me lo fa fare? Sarebbe autolesionismo.

Meglio quindi puntare tutto sulla metafora, pur con il rischio di non essere compreso. E i giovani?, gli chiede a un certo punto Bachmann.
Non mi illudo di essere capito dai giovani, perché con i giovani è impossibile instaurare un rapporto di carattere culturale. I giovani vivono nuovi valori, con cui i vecchi valori, a nome dei quali io parlo, sono incommensurabili.

Vecchi valori che coincidono in questo caso con quelli espressi dall'ultima cultura vivente e reale fiorita sul suolo italiano, cioè la cultura contadina:
«Io chino la testa in nome di Dio» è già una grande frase. Mentre adesso il consumatore non sa affatto di chinare la testa, anzi crede stupidamente di non chinarla e avere i suoi diritti. Anzi, è sempre lì a pretendere i suoi diritti, a crederci, invece è un povero cretino. Non credo ci sarà mai un tipo di società in cui l' uomo sia libero. Quindi, è inutile sperarci. Non bisogna mai sperare in niente. La speranza è una cosa orrenda, inventata dai partiti per tener buoni i loro iscritti.

* * *

Note al testo

¹ Eccetto la citazione di apertura, tratta da una conferenza stampa di presentazione del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, questa citazione è tutte le successive di Pasolini provengono da: Pasolini prossimo nostro. Cinemazero/Ripley's Film, 2006. Regia di Bernardo Bertolucci.

² Gilbert Lely, Vita del Marchese de Sade, il profeta dell'erotismo. Feltrinelli, 1983; pag. 285.

³ Gilbert Lely, op. cit., pag. 290.

⁴ Maurice Blanchot, La ragione di Sade. In: Maurice Blanchot, Lautréamont e Sade. SE, 2003.

* L'immagine di apertura del post è un fotogramma di Salò o Le 120 giornate di Sodoma tratto dal Girone del Sangue.

The Pleasure of Pain II Extended - Dal sadismo a Sade /6: Salò o le 120 giornate di Sodoma, i nomi e i volti

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Questo è il film dell'adattamento. Ho finito col dimenticare com'era l'Italia fino a una decina di anni fa e anche meno, e, poiché non ho altra alternativa, ho finito con l'accettare l'Italia com'è diventata. Una immensa fossa di serpenti, dove, salvo qualche eccezione e alcune misere élites, tutti gli altri sono appunto dei serpenti, stupidi e feroci, indistinguibili, ambigui, sgradevoli.
(Pier Paolo Pasolini)

Questo film va talmente al di là dei limiti che ciò che dicono sempre di me dovranno poi esprimerlo in altri termini. E' un nuovo scatto. Un nuovo regista. Pronto per il mondo moderno.
(Pier Paolo Pasolini)


* * *


Salò o Le 120 giornate di Sodomaè l'unico film di Pier Paolo Pasolini a non avere una sceneggiatura completa scritta di suo pugno, nonostante di sceneggiature del film ne esistano ben tre.
E' senza dubbio curioso notare come tutto sia incominciato, nel 1972, dall'idea di Enrico Lucherini, capo ufficio stampa della Euro Film, di trarre da Le centoventi giornate di Sodoma del Marchese de Sade un tipico erotico all'italiana, in linea con la più classica produzione di quegli anni. Per questo il primo regista a essere interpellato fu Vittorio De Sisti, reduce di fresco dalla regia del decamerotico Fiorina la vacca, vale a dire di uno di quei numerosi film, non proprio all'altezza del loro capostipite, che sfruttavano a fini di cassetta l'attenzione ottenuta dal Decameron di Pasolini. Incaricati di scrivere la sceneggiatura furono Pupi Avati, Antonio Troisi e Claudio Masenza. Ma per quanto provassero ad attenuare la carica di sesso e violenza del testo di de Sade, non c'era modo di attenuarla abbastanza da produrre una sceneggiatura adatta a essere messa in scena da un regista con le caratteristiche di De Sisti.
Avati suggerì così alla Euro Film di proporre la regia a Sergio Citti, e fu allora che Pasolini, che servì da intermediario per far pervenire la sceneggiatura a Citti, ebbe occasione di leggere la prima sceneggiatura de Le 120 giornate. Non la trovò per nulla buona, ma rimase incuriosito dalla storia al punto da sentirsi spinto a leggere il romanzo di de Sade. Dopodiché propose ad Avati e a Citti di scrivere insieme una sceneggiatura a sei mani. Il risultato fu una seconda sceneggiatura, intitolata I 120 giorni di Sodoma, che comprendeva l'Antinferno, il Girone delle manie e il Girone della Merda. Del terzo e ultimo girone esisteva invece un dattiloscritto separato intitolato Girone del sangue.

Le tre giovani vittime in questa foto di scena di Deborah Imogen Beer sono Antinisca (Antiniska Nemour,
seduta a sinistra), Franco e Renata (Franco Merli e Renata Moar, seduti sul pavimento).

Ma le cose erano in rapido e costante mutamento. Pupi Avati a un certo punto decise di tirarsi fuori dal progetto (e anche in seguito scelse di non vedere mai il film di Pasolini); la Euro Film, entrata in crisi finanziaria, decise di rinunciare al progetto; Sergio Citti, che continuava a essere a tutti gli effetti il regista incaricato, era sempre più preso da altre idee e sempre più disamorato dell'idea. Il che era l'esatto opposto di quel che stava accadendo a Pasolini, che ne era invece sempre più catturato. Soprattutto dopo che aveva avuto l'illuminazione di trasporre la vicenda dalla Francia del tempo di de Sade all'Italia dell'occupazione nazifascista e della Repubblica di Salò (cosa di cui Citti non voleva sentir parlare)¹. Andò così a finire che dopo il ritiro definitivo di Citti, e anche a causa della circostanza che l'altro suo progetto in corso, un film su San Paolo, non riusciva a decollare, Pasolini propose l'idea di Salò ad Aurelio Grimaldi, direttore della PEA (Produzioni Europee Associate), ottenendo da lui il via libera. Ne nacque anche una terza sceneggiatura, intitolata stavolta Salò o le Centoventi giornate della città di Sodoma, che non era però nient'altro che una nuova trascrittura, probabilmente a opera di un incaricato della PEA, della precedente sceneggiatura a sei mani, con incorporate tutte le variazioni che Pasolini vi aveva apposto a margine di suo pugno.
Pasolini la utilizzò di fatto in fase di regia, assieme al fascicolo del Girone del sangue, sebbene poi in realtà il risultato finale del film trascenda di molto entrambi i dattiloscritti. Risultano infatti aggiunte nel corso delle riprese - che durarono poco più di due mesi, dal 3 marzo al 9 maggio 1975 - e/o in fase di montaggio, molte situazioni della pellicola, tra cui: le citazioni da Klossowski, le freddure raccontate dai quattro libertini², la scenetta teatrale tratta dal film Femmes, femmes di Vecchiali con protagoniste due delle narratrici - che sono poi le stesse due attrici francesi che avevano interpretato il film francese (vedi, nel seguito del post, l'Autointervista di Pasolini) - e altre scene cardine come quella del giovane che fa il saluto comunista prima di essere ucciso e quella del grido evangelico "Dio, Dio, perché ci hai abbandonato?" urlato da una delle mogli dei libertini (che sono coloro che, nel film come nel romanzo, subiscono il trattamento più crudele).



In quanto all'inconveniente di ritrovarsi con una narratrice in più, dovuto alla sua scelta di mutare la struttura di base del romanzo di de Sade riducendo da quattro a tre i cicli di racconti delle passioni, Pasolini lo risolse affidando a una delle attrici il ruolo di accompagnatrice al piano dei racconti delle altre tre.

Nel complesso, tuttavia, Pasolini ridusse di sei unità il numero dei protagonisti totali del romanzo, portandoli nel film da quarantasei a quaranta.
Ecco lo schema dei raffronti:

In de Sade
In Pasolini
4 libertini
4 libertini
4 narratrici
4 narratrici
4 mogli dei libertini
4 mogli dei libertini
4 vecchie di guardia ai serragli
4 militi
4 fottitori principali
4 collaborazionisti
4 fottitori secondari
8 ragazzi del serraglio maschile
9 ragazzi del serraglio maschile
8 ragazze del serraglio femminile
9 ragazze del serraglio femminile
6 addette al servizio del castello
6 addette e addetti al servizio del castello


Riguardo agli attori, Pasolini così li presenta nella sua Autointervista³:

Domanda: Chi sono gli attori che rappresentano i quattro mostri?
Risposta: Non so se saranno mostri. Comunque non meno e non più delle vittime. Nello scegliere gli attori ho fatto la solita contaminazione: si tratta di un generico che in più di vent'anni di lavoro non ha mai detto una battuta, Aldo Valletti [doppiato da Marco Bellocchio]; di un mio vecchio amico delle borgate romane (conosciuto ai tempi di Accattone), Giorgio Cataldi [doppiato da Giorgio Caproni]; di uno scrittore, Uberto Paolo Quintavalle, e infine anche di un attore, Paolo Bonacelli.


D.: E chi saranno le quattro "megere" narratrici?
R.: Saranno tre bellissime donne (la quarta nel mio film fa la pianista, perché i gironi sono appunto tre): Hélène Surgère [doppiata da Laura Betti], Caterina Boratto e Elsa De' Giorgi. La pianista sarà Sonia Saviange. Le due attrici francesi le ho scelte dopo aver visto a Venezia il film Femmes femmes di Vecchiali: bellissimo film in cui le due attrici, per restare nel contesto linguistico francese, sono "sublimi" (ma veramente).
D.: E le vittime?
R.: Tutti ragazzi e ragazze non professionisti (almeno in parte: le ragazze le ho scelte tra le fotomodelle, perché naturalmente dovevano essere dei bei corpi e, soprattutto, non dovevano avere paura di mostrarli).
D.: Dove gira?
R.: A Salò (esterni), a Mantova (interni ed esterni in cui si svolgono rastrellamenti e rapimenti), a Bologna e dintorni: il paesetto sul Reno sostituirà il distrutto Marzabotto...³


Si tratta di un film un po' diverso perché vorrei, per una volta, che gli attori non professionisti recitassero come attori professionisti. Le parole devono essere dette correttamente dalla prima all'ultima: esatte. Una colonna guida esatta. Voglio montarlo perfettamente. Voglio un film che sia un cristallo, formalmente. Non deve essere magmatico, caotico o inventato, sproporzionato. Tutto deve essere molto calcolato: i movimenti, le composizioni, i trucchi.
Una volta li facevo un po' così..., adesso no. Se uno deve cadere a terra morto, glielo faccio ripetere mille volte finché sembra proprio un corpo che cade morto. Insomma un punto di perfezione formale che mi serve per chiudere in una sorta di involucro le cose terribili di de Sade, del fascismo.

Pasolini qui la fa breve, ma in realtà alcune delle vittime, soprattutto tra le ragazze, sono interpretate da nomi noti a tutti gli appassionati del cinema di genere italiano degli anni '70, in particolare per quel riguarda il poliziottesco, i nazi movies (dei quali proprio Salò o le 120 giornate di Sodomaè l'ignaro capostipite) e l'erotico in genere.
Tra loro voglio almeno ricordare:

Franco Merli (n. 1956, Franco in Salò) aveva già lavorato con Pasolini interpretando Nur Ed Din ne Il fiore delle Mille e una notte (1974), per poi, dopo Salò, recitare ancora ne La collegiale (Gianni Martucci, 1975) e in Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976), prima di concludere la sua breve carriera cinematografica con una particina ne Il malato immaginario (Tonino Cervi, 1979).

Franco Merli ne Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini (1974).


Antonio Orlando (1960–1988, Tonino in Salò), ha fatto il mestiere di attore per tutta la durata della sua breve vita. Prima di Salò aveva già recitato nei poliziotteschi I guappi (Pasquale Squitieri, 1974) e Il testimone deve tacere (Giuseppe Rosati, 1974).

Antonio Orlando nel ruolo di Rufus in Ars Amandi - L'arte di amare di Walerian Borowczyk (1983).


Dorit Henke (n. 1953) attiva come attrice tra il 1971 e il 1977, prima di Salò aveva già recitato in una dozzina di erotici in lingua tedesca. L'anno dopo Salò interpretò la vittima di Dracula nel primo segmento (La cavallona) del film a episodi 40 gradi all'ombra del lenzuolo (Sergio Martino, 1976).

Dorit Henke nel ruolo della vampirizzata in 40 gradi all'ombra del lenzuolo di Sergio Martino (1976)


Renata Moar (Renata in Salò) era già apparsa l'anno prima in La polizia chiede aiuto (Massimo Dallamano, 1974) e in seguito avrebbe interpretato, come suo terzo e ultimo film, La svastica nel ventre (Mario Caiano, 1977).

Renata Moar nel ruolo di Laura in La polizia chiede aiuto di Massimo Dallamano (1974) 


Antiniska Nemour (n. 1957, Antinisca in Salò), tra il 1974 e il 1978 interpretò dieci film, tra cui alcuni classici dell'exploitation italiana degli anni '70: Il giudice e la minorenne (Franco Nucci, 1974), Storie di vita e malavita (Carlo Lizzani, 1975), L'ultima orgia del III Reich (Cesare Canevari, 1977), La sorella di Ursula (Enzo Milioni, 1978).
Nella sua scheda biografica sul sito IMDB è riportato: "She was 18 when Pasolini found her in a model agency and gave her her role in the movie where she, like the rest of the young cast, played a character with her own name". Circostanza altamente improbabile, visto che, essendo lei nata il 31 maggio 1957, compì quell'età a riprese del film già ultimate.

Antiniska Nemour nel ruolo di Chiara (la sposina) in La sposina di Sergio Bergonzelli (1976).


Ines Pellegrini (n. 1954), nata a Massaua da padre italiano e madre eritrea, si trasferì in Italia a diciotto anni. Lavorò come attrice e modella dal 1973 al 1985. Prima di Salò, Pasolini l'aveva già chiamata a recitare nel ruolo di Zumurrud ne Il fiore delle Mille e una notte (1974) e aveva anche ottenuto una parte di rilievo nel thriller Gatti rossi in un labirinto di vetro (Umberto Lenzi, 1975).

Ines Pellegrini nel ruolo di Naiba in Gatti rossi in un labirinto di vetro di Umberto Lenzi (1975)


* * *

Note al testo


¹ "La ragione pratica dice che durante la repubblica di Salò era particolarmente facile e 'in atmosfera' organizzare ciò che hanno organizzato gli eroi di de Sade: una grande orgia in una villa presidiata dalle SS." (Pier Paolo Pasolini, Le regole di un'illusione, pag. 317-18):

² "In tal senso la regia si esprime soprattutto nel montaggio: è lì che avviene il dosaggio tra serietà e impossibilità della serietà, fra un truce sanguinolento Thanatos e un Baubon cheap (Baubon o Bauba era una divinità greca, non ben definita, del riso liberatore: o meglio osceno e liberatore). A ogni inquadratura, si può dire, devo pormi il problema di rendere lo spettatore intollerante e subito dopo smontarlo." (Ibid, pag. 318-19).

³ Auto intervista: il sesso come metafora del potere (Corriere della Sera, 25 marzo 1975). In: Pier Paolo Pasolini, Le regole di un'illusione, pag. 316-17.

Crediti delle immagini

Le foto di scena in bianco e nero sono di Deborah Imogen Beer, fotografa ufficiale sul set del film, e sono tratte dal film Pasolini prossimo nostro. Cinemazero/Ripley's Film, 2006. Regia di Bernardo Bertolucci.

The Pleasure of Pain II Extended - Dal sadismo a Sade /7: Vittime e superstiti delle Centoventi giornate

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Salò è un mistero medievale, una sacra rappresentazione, molto enigmatica. Quindi non deve essere capito, guai se fosse capito. Voglio dire il film. Certo che rischio io stesso di essere capito male, ma è intrinseco al film anche questo.
(Pier Paolo Pasolini)

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Avvertenza! Questo post contiene alcune foto dal contenuto violento e potenzialmente offensivo.

Nel post precedente ho messo a confronto, in una tabella, il numero complessivo dei personaggi del romanzo de Le centoventi giornate di Sodoma con quelli del film di Pier Paolo PasoliniSalò o le 120 giornate di Sodoma. Vale la pena, adesso, fare un confronto analogo anche tra il numero delle vittime e dei superstiti al termine delle centoventi giornate. Chi sono questi superstiti e in accordo a quali logica hanno risparmiata la vita? Vediamolo, cominciando dal romanzo del Marchese de Sade.
Naturalmente sono salvi i quattro libertini organizzatori di tutto, così come è abbastanza naturale, anche se non del tutto scontato, che escano salve le quattro narratrici. Vanno poi aggiunti, tra i superstiti, i quattro fottitori principali, la figlia maggiore del Duca de Blangis e moglie del Presidente de Curval, Julie, e, per finire, le tre cuoche. Non vengono invece risparmiati i quattro fottitori secondari, le quattro vecchie guardiane dei serragli e le tre sguattere, che vanno ad aggiungersi alle sedici vittime designate dei serragli maschile e femminile e alle altre tre mogli/figlie dei libertini. Questo in risposta al "chi sono", mentre per la logica che sottostà alla loro salvezza la discriminante principale, se non unica, sembra essere rappresentata dall'eccellenza nei rispettivi campi. Sarebbe a dire che le quattro narratrici si salvano per la loro abilità nell'assolvere il loro compito di esporre i centocinquanta esempi dei rispettivi tipi di passioni, i quattro fottitori maggiori si salvano per la loro bravura nel soddisfare le brame sodomitiche dei quattro libertini, e le tre cuoche si salvano per la loro arte gastronomica, come attesta chiaramente lo stesso de Sade in due occasioni. In quanto a Julie, deve la vita all'essersi convertita, strada facendo, alla pratica del libertinaggio.
Così, quattro feroci e perversi libertini che non rispettano nessun codice morale, né tengono in alcuna considerazione il valore della vita altrui, si dimostrano tuttavia sensibili al talento e lo rispettano. Come dimostra anche il regolamento da loro promulgato alla vigilia dell'inizio delle centoventi giornate - regolamento che serve, da un lato, a disciplinare le loro stesse brame e azioni, e dall'altro, e soprattutto, a stabilire un codice di comportamento a cui i loro soggetti devono attenersi pena severe sanzioni - che così recita:
Quanto alle colpe delle novellatrici, la loro punizione verrà dimezzata rispetto a quella dei fanciulli, essendo il loro talento essenziale e dovendo sempre rispettare il talento.¹
E di nuovo l'importanza del talento è ribadita quando si tratterà, dopo la centoventesima giornata, di decidere del destino del personale della cucina.
...si decide di suppliziare le tre sguattere perché certamente ne varrà la pena, e di salvare le tre cuoche per il loro talento.²

Questa foto, come tutti gli altri scatti in bianco e nero del post, è di Deborah Imogen Beer.

Ma va anche detto che il far scempio di un numero così elevato dei loro soggetti (30 in totale) non sembrava rientrare necessariamente nei piani originali dei quattro aguzzini. Almeno a stare a quel che afferma il Duca il 31 ottobre, giorno antecedente l'inizio delle centoventi giornate, nel rivolgersi alle donne rinchiuse nel castello che ha riunite tutte insieme nella sala dei racconti:
Saranno pochi, non dubitatene, gli eccessi a cui non ci abbandoneremo: che nessuno di questi vi ripugni, offritevi senza batter ciglio, e opponete ad essi la pazienza, la rassegnazione e il coraggio. Se disgraziatamente qualcuna tra voi soccomberà all'intemperanza delle nostre passioni, che affronti coraggiosamente la propria sorte; non siamo al mondo per esistere in eterno, e quel che può accadere di più felice a una donna, è di morire giovane. Vi abbiamo letto dei regolamenti molto saggi e molto favorevoli alla vostra sicurezza e al nostro piacere; seguiteli ciecamente, ma attendetevi da noi il peggio se per sventura ci irriterete con un comportamento sgradito.³

E in effetti, alla fine di febbraio, cioè delle centoventi giornate, sono "soltanto" dieci i personaggi del romanzo hanno perduto la vita a causa degli eccessi dei quattro libertini: tre delle quattro mogli/figlie, quattro fanciulle, due fanciulli e un fottitore secondario resosi colpevole di un tentativo di rivolta. Mentre l'uccisione finale degli altri venti soggetti (tra cui le tre sguattere citate sopra) sembra dipendere dall'impossibilità di lasciare il castello nella data prevista:
Il primo marzo, vedendo che le nevi non si erano ancora sciolte, si decise di eliminare tutti i sopravvissuti, a uno a uno. Gli amici [i quattro libertini] stabiliscono nuove disposizioni per le loro camere, e decidono di dare un nastro verde a chi è destinato a tornare in Francia, purché collabori al supplizio degli altri.⁴

E' quindi possibile, anche se non certo (quell'"uno a uno" che significa un'uccisione al giorno, può anche indicare, in alternativa, che i destinati alla morte sarebbero stati uccisi tutti insieme prima della partenza), che se fosse stato possibile lasciare il castello nei tempi previsti, vi sarebbero stati più sopravvissuti. E in particolare le tre sguattere: "Le cuoche e le sguattere verranno rispettate, e se un signore infrangerà questa legge dovrà pagare una multa di mille luigi" recita infatti il regolamento.

Che a soccombere per primi per mano dei loro aguzzini siano, in genere, quei soggetti che suscitano in loro le passioni più violente (indifferentemente in senso positivo o negativo), è una delle tante specie di leggi del libertinaggio. I libertini si vendicano in tal modo dell'esser stati distolti dalla loro apatia, condizione che è una delle conquiste principali che de Sade assegna ai suoi "filosofi".⁵


Proviamo adesso a vedere come Pasolini traspone dal romanzo al suo film tutto questo discorso di condanna, punizione e salvezza. E posso solo ricollegarmi, a questo punto, al lavoro certosino di Davide Pulici che, nel 2008, in un dossier della rivista Nocturno, ha provato a mettere in ordine quel che succede nell'intricata parte finale del Girone del sangue, la parte cosiddetta "delle torture" e di colmarne i vuoti. Il suo sforzo, davvero notevole, mi permetterà così di non dovermi cimentare ex novo nell'impresa e di concentrarmi interamente sul confronto con il testo di de Sade.
Ciò detto, non si può non tener conto dell'avvertenza dello stesso Pulici contenuta nel suo più recente (2015) Il conto è chiuso: torture e morte a Salò.
Ma dire che la ricostruzione tentata [nel 2008] si è dimostrata verosimile potendo riscontrare le supposizioni con i dati sensibili, non significa sostenere che tutto quel che c’era da scoprire su questa sezione finale del film, sia stato scoperto. Che i misteri siano stati elucidati. Anzi. I grandi buchi neri, le lacune che si aprono nella tradizione di Salò e che attendono di essere colmate, restano le stesse di qualche anno fa. Come si è arrivati all’edizione del film che attualmente conosciamo? Cosa distingue la copia che venne vista a Parigi alcune settimane prima dello screening ufficiale – avvenuto il 22 novembre del 1975, a venti giorni dalla morte di Pasolini – dalle versioni successive? Chi si occupò di ridurre, aggiustare, modificare, rimontare tale versione, che fece infuriare i comunisti francesi, a quanto si sa, per ricavarne il montaggio poi vulgato? Quanto c’entrò Pasolini in questo e quanto invece fu fatto senza che il regista sapesse?

Così come non si può non tenere conto delle sue conclusioni nello stesso articolo: 
...manca soprattutto la voglia di capire come siano andate effettivamente le cose ex ante, non ex post. Perché si è sollevata un mucchio di polvere intorno alle vicende censorie del film, a quello che è successo dopo, quando il Salò che conosciamo è uscito nelle sale italiane. Ma non si sa, invece, praticamente niente di ciò che è accaduto prima, del furto durante le riprese o alla fine di esse, del primo montaggio – Tatiana Casini Morigi, la montatrice di Sordi, fu la prima ad andare in moviola ma abbandonò disgustata – della fatidica proiezione francese antecedente il 22 novembre, della versione più lunga vista nell’occasione, con molte più torture. Un director’s cut che ha fatto scendere i propri segreti nella tomba insieme al cadavere di Pier Paolo Pasolini.

La mancanza che si sente più di tutto è, in altre parole, quella di un impossibile director’s cut, la cui sola alternativa valida è forse quella progettata un tempo, ma purtroppo mai realizzata, da Giuseppe Bertolucci e ricordata anche da Pulici: utilizzare i quasi 8.000 scatti di scena di Deborah Imogen Beer per creare un fotofilm di Salò che documenti ciò che Pasolini effettivamente mise in scena.

Ecco intanto il probabile ordine originale delle quattro sessioni in cui è divisa la scena delle torture⁶, così come Pulici lo ha ricostruito sulla scorta dei dati a sua disposizione nel 2008 (i link rimandano, per chi fosse interessato alla ricostruzione dettagliata delle sessioni, ai corrispondenti articoli del dossier di Nocturno):

Prima sessione: nel ruolo di voyeur alla finestra, armato di binocolo, vi è il Duca (interpretato da Paolo Bonacelli). Mentre l'Eccellenza (il Durcet del romanzo di de Sade, interpretato da Aldo Valletti) è il sacrificatore, aiutato da quattro assistenti muniti di protesi falliche. Con lui, nel quadrato delle torture, ci sono anche il Monsignore (il Vescovo, interpretato da Giorgio Cataldi) e il Presidente (de Curval, interpretato dallo scrittore Umberto P. Quintavalle). Le quattro vittime di turno sono: Franco merli, Antonio Orlando (Tonino) e Renata Moar tra i giovani dei serragli e Susanna Redaelli (Susy) tra le figlie.


Seconda sessione: al binocolo, nel ruolo di voyeur, figura l'Eccellenza. Il sacrificatore è il Presidente. Le tre vittime dei serragli sono Faridah Malik (Fatma), Bruno Musso (Carlo), Antiniska Nemour (Antinisca). La seconda vittima tra le figlie è Tatiana Mogilanky.
Questa seconda sessione appare fuori posto, come terza e ultima, nel montaggio finale del film.

Terza sessione: alla postazione alla finestra, e al binocolo, vi è il Presidente. Il sacrificatore è il Monsignore. Le tre vittime dei serragli sono Dorit Henke (Doris), Benedetta Gaetani e Sergio Fascetti. La terza vittima tra le figlie è Giuliana Orlandi.
Questa terza sessione appare come seconda nel montaggio finale del film.

Quarta sessione: il voyeur è il Monsignore. Il sacrificatore è il Duca. Le tre vittime dei serragli sono Lamberto Book, Claudio Cicchetti e Giuliana Melis. La quarta figlia sacrificata è Liana Acquaviva.
Quest'ultima sessione è del tutto assente dal montaggio finale del film ed è ricostruibile solo sulla scorta delle foto di scena di Deborah Imogen Beer e Fabian Cevallos.

Una fase della quarta sessione delle torture, completamente assente nella versione finale del film.
(Foto: Fabian Cevallos).

Nel film vi è in ogni caso un'incongruenza. Quando il Duca fa l'elenco dei condannati al supplizio finale, i nomi da lui citati sono quindici anziché sedici: le quattro figlie Susy, Giuliana, Liana, Tatiana; i sei ragazzi di nome Sergio, Lamberto, Claudio, Carlo, Franco, Tonino; e le cinque ragazze di nome Antinisca, Renata, Doris, Fatma, Giuliana.
Manca tra i nomi quello di Benedetta (Gaetani), che pure è tra le vittime della terza sessione di torture (la seconda nel film), come conferma anche la panoramica del quadrato al termine di tutte le sessioni, con sedici corpi distesi a terra. E in effetti, cosa strana, il nome di Benedetta è anche l'unico, tra quelli delle sedici vittime, a non essere mai citato in nessun'altra parte del film sebbene appaia regolarmente nei titoli d'apertura, tra i nomi delle otto vittime di sesso femminile. Ed è, questo, un piccolo mistero che sembra destinato a rimanere tale, visto che Benedetta Gaetani non ha mai accettato di rilasciare dichiarazioni sulla sua esperienza in Salò.


In realtà, come si sarà notato, mancano anche i nomi di due altri ragazzi e due altre ragazze (dei serragli), ma in questo caso l'assenza ha una spiegazione. Dei primi, Umberto Chessari e Rino (Gaspare di Jenno) passano dalla parte dei carnefici ed entrano nel numero dei destinati a raggiungere con loro Salò, così come Graziella Aniceto tra le ragazze; mentre Eva (Olga Andreis) muore per mano dei quattro libertini dopo aver loro rivelato degli incontri clandestini tra il collaborazionista Ezio e la serva di colore (Ines Pellegrini).⁷ Umberto e Graziella, nella sequenza delle torture, figurano come testimoni impassibili a lato della scena, l'uno accanto all'altra, lui nudo e lei vestita.⁸


Più nel dettaglio, oltre a Eva, le altre vittime disseminate nella parte di film antecedente alla sequenza delle torture sono nell'ordine:
il nono ragazzo (Ferruccio Tonna) del serraglio maschile, ucciso già nell'Antinferno, mitragliato durante un suo tentativo di fuga;
la nona ragazza (senza nome) del serraglio femminile, che (forse) muore suicida tagliandosi la gola nel Girone delle manie;
il collaborazionista Ezio, ucciso insieme alla serva di colore con cui intrattiene una relazione clandestina (è lui il giovane che fa il saluto comunista prima di morire).
A questi quattro decessi va poi aggiunto il suicidio, in contemporanea con la sequenza delle torture, della pianista, che fa le veci di una delle quattro narratrici del romanzo di de Sade.

Tutta questa macabra contabilità ha naturalmente come unico scopo quello di un confronto con i numeri presentati da de Sade nel suo romanzo. E il risultato, inevitabilmente macabro anch'esso, è il seguente:

Deceduti in de Sade
Deceduti in Pasolini
0 (di 4) libertini
0 (di 4) libertini
0 (di 4) narratrici
1 (di 4) narratrici
3 (di 4) mogli/figlie dei libertini
4 (di 4) figlie dei libertini
4 (di 4) vecchie di guardia ai serragli
0 (di 4) militi
0 (di 4) fottitori principali
1 (di 4) collaborazionisti
4 (di 4) fottitori secondari
8 (di 8) ragazzi del serraglio maschile
7 (di 9) ragazzi del serraglio maschile
8 (di 8) ragazze del serraglio femminile
8 (di 9) ragazze del serraglio femminile
3 (di 6) addette al servizio del castello
1 (di 6) addette/i al servizio alla villa


Come si vede de Sade, a differenza di Pasolini, non fa sconti ai ragazzi e alle ragazze, mentre in compenso il regista non salva nessuna delle figlie dei libertini. Va comunque detto che Pasolini si rivela nel finale del suo film più sadiano dello stesso Sade, nel senso della fedeltà alla cabala del numero 4, che il Marchese sembra invece abbandonare del tutto nel finale del libro. A meno che non la si voglia rintracciare nel numero dei sopravvissuti che fanno ritorno a Parigi, che è di 16 sui 46 soggetti presenti inizialmente nel castello, rispetto ai 22 su 44 di Pasolini.


* * *

Note al testo

¹ D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma. ES, 1991; pag. 55. Traduzione di Giuseppe De Col.
Ecco un esempio dei divieti stabiliti dal regolamento, tratta dalla stessa pagina:
"Il minimo accenno al riso, o la più piccola mancanza di attenzione, rispetto, di sottomissione durante le orge, sarà una delle colpe più gravi e più crudelmente punite. L'uomo colto in fragrante delitto con una donna sarà punito con la perdita di un arto, qualora non abbia ottenuto il permesso di godere di quella donna. Il sia pur minimo atto di devozione religiosa da parte di un suddito, chiunque egli sia, sarà punito con la morte."
Esiste anche un registro delle colpe in cui i quattro libertini annotano ogni mancanza in vista della sua punizione.

² Ibid., pag. 366.

³ Ibid., pag. 57.

Ibid., pag. 366.

"Giunta, come noi, alla perfezione dello stoicismo, in tale apatia sentirai nascere una moltitudine di nuovi piaceri, ben altrimenti deliziosi di quelli nei quali credi trovar la fonte nella tua funesta sensibilità.", spiega Bressac a Justine ne La nuova Justine.
Vedi anche Maurice Blanchot ne La ragione di Sade: "Si potrebbe dire che questo mondo così strano non sia costituito da individui ma da sistemi di forza con una tensione più o meno alta. Là ove si verifica un abbassamento della tensione la catastrofe diviene inevitabile."

Non solo nel montaggio finale di Salò o le 120 giornate di Sodoma, manca un'intera sessione, la quarta, ma un po' tutte le torture presenti nelle altre tre sessioni non sono mostrate per intero fino alla loro conclusione come le aveva girate Pasolini.

 Riguardo al tema delle delazioni, tema già presente nel romanzo di de Sade, così scrive Pulici: "La catena delle delazioni si dipana da Cicchetti a Graziella Aniceto – come abbiamo già detto – e culmina con Olga Andreis (Eva), che, trovata nel letto ad amoreggiare con Antiniska Nemour, per salvarsi non esita a rivelare la tresca di Ezio e della serva negra e addirittura accompagna i quattro signori sul posto, assistendo all’esecuzione dei due amanti."
E sempre secondo la ricostruzione di Pulici sulla base delle foto di Deborah Igemon Beer: "Eva veniva ammazzata sparandole nella schiena mentre correva da qualche parte (che le avessero fatto balenare la prospettiva della libertà?) verosimilmente appena dopo la sua delazione."

Le ragioni della scelta dei quattro libertini, di risparmiare determinati soggetti piuttosto che altri, non sono ben specificate da Pasolini come lo sono da de Sade. Una interessante spiegazione del possibile metodo utilizzato dal regista la offre ancora Davide Pulici nel suo ottimo articolo Salò: la personalità delle vittime.

* Nell'immagine di apertura del post: Olga Andreis (Eva, vittima) e Graziella Aniceto (superstite) in un momento del Girone delle manie.

The Pleasure of Pain II - Le quaranta giornate di Sade & PoP II Extended: Bilancio in breve di uno Speciale

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Considero che sia ormai tempo, alle soglie della pausa invernale, di fare un bilancio di questa lunga cavalcata autunnale che ha visto sommarsi insieme lo speciale The Pleasure of Pain II: Le quaranta giornate di Sade e il suo Extended, per un totale di 70 giorni e 22 post - 14 miei e 8 a opera dei seguenti guest-blogger (in ordine di pubblicazione): Max, T.O.M., Ariano Geta, Alessia H.V., Lucius Etruscus (2 post), Simona B, Cassidy. Settanta giorni e ventidue post a cui vanno poi aggiunti i trenta giorni e i diciassette post dello Speciale primaverile del blog The Obsidian Mirror, The Pleasure of Pain: inside, outside and all around the hellbound heart, di cui il mio Speciale è la prosecuzione autorizzata. Per un totale complessivo - e per oggi è l'ultima operazione aritmetica - di 100 giorni e 39 post di piacere e sofferenza.


Riandando ora indietro con il pensiero a circa cinque mesi fa, ossia al vero inizio del mio lavoro sullo Speciale, posso dire che di quel che avevo in mente allora ho realizzato abbastanza ma non proprio tutto. La mia idea originale era infatti di produrre due serie distinte, di quattro post ciascuna, ognuna delle quali avrebbe costituito, assieme a quattro guest-post, una metà delle Quaranta giornate di Sade: Dal sadismo a Sade e uno speciale su Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini - un film su cui sono già stati spesi fiumi e fiumi di inchiostro, per cui l'unico modo che avevo di aggiungere qualcosa di abbastanza inedito era di concentrarmi sulle fonti, a cominciare dalla sua fonte più diretta, il romanzo di Sade da cui il film è tratto, che è paradossalmente anche la meno esplorata.
Quel che è invece successo è che mi sono alla fine ritrovato con sette post (tra cui questo) di argomento vario e scritti sull'impulso del momento, spesso dietro stimolo dei post dei guest-blogger, e sette post della serie Dal sadismo a Sade ma che sono in realtà, tutti a eccezione del primo e in parte del secondo, dedicati al film di Pasolini. Così che ho anche tutta l'intenzione di modificarne presto il titolo in Da Sade a Pasolini, in modo da renderlo più coerente con i contenuti.

Foto di scena di Deborah Imogen Beer dal film Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975).

In quanto ai post che avrebbe dovuto formare Dal sadismo a Sade, sono rimasti in gran parte allo stato di abbozzo, nonostante avessi in mente un percorso abbastanza definito e soprattutto avessi chiaro il traguardo: la mia personale conferma alle considerazioni che Yukio Mishima affida all'eloquio della Marchesa de Sade nel finale del suo Madame de Sade:
Quando io lessi il suo romanzo [Justine], compresi per la prima volta che cosa lui stesse facendo in prigione. Mentre la folla sciamava nella Bastiglia da fuori, lui ne aveva già abbattute le mura da dentro, ed era rimasto in prigione per sua libera scelta. Voleva erigere una imperiscibile cattedrale del vizio. Piuttosto che dedicarsi al male, voleva creare un codice del male. Non le azioni, ma i princìpi. Non i piaceri notturni, ma l'idea di un'unica notte infinita. Non gli schiavi della frusta, ma la legge della frusta. Ossessionato dalla distruzione, creò invece qualcosa. Qualcosa di inspiegabile, di congenito in lui - che produceva forme trasparenti del male. Il mondo in cui noi viviamo adesso è una creazione del Marchese de Sade.

Fermo immagine dal film Markisinnan de Sade di Ingmar Bergman (1992).

E tuttora noi continuiamo a vivere in un mondo che è stato creato dal Marchese de Sade e da cui non sappiamo quando usciremo. Non perché vi siano più delitti sadici adesso di quanti ve ne erano prima che fossero scritte le opere che sono le colonne portanti del mondo sadico, Justine et Juliette e Le centoventi giornate di Sodoma... cioè, non per le azioni, che come aveva ben compreso de Sade hanno un'importanza secondaria, ma per i princìpi. Così che per  quanto grande potesse essere la sua aspirazione a tornare un uomo libero - Gli intervalli tra un atto e l'altro della mia vita sono stati troppo lunghi, ebbe a lamentarsi il Marchese in una sua lettera - ciò che lui non era in alcun modo disposto a fare era barattare i suoi princìpi per la libertà, o per la vita.
E "Dal sadismo a Sade" significava appunto: separare gli atti sadici, del sadismo, dai princìpi che hanno dato forma al mondo in cui viviamo.

Chiarito questo, ed evidenziata così l'incompiutezza di fondo di questo Speciale, significa forse che nel 2019 ci aspettano ancora altre Giornate di Sade? Magari fino a raggiungere proprio il fatidico numero Centoventi? Tutto dipenderà dalla motivazione che avrò a riprendere il discorso. Se cioè avrò ancora voglia di cimentarmi sulla figura e sull'opera Marchese de Sade dopo essermici già soffermato sopra così a lungo. Può darsi di sì, ma può anche darsi di no.


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L'immagine di apertura del post è: J.M. Capuletti, La bottiglia delle Danaidi (particolare, n.d.)

Solstizio d'inverno 2018 - It's Resting Time

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Le 05:19, ora italiana, del 22 dicembre, segnano in questo 2018 il momento del solstizio d'inverno e, secondo una tradizione che ho inaugurato lo scorso anno, l'inizio della pausa invernale di questo blog.
Salvo sorprese o imprevisti, tornerò attivo nella blogosfera a fine gennaio, con il mio post di partecipazione al Franken-meme 2018 di Nocturnia. Fino ad allora, e sempre salvo sorprese, l'attività del blog è completamente sospesa, abilitazione ai commenti inclusa.

And so...

Buone Feste e Buona Pausa a chi come me pauseggia e Buone Feste e Buon Blogging a chi invece prosegue imperterrito come prima, incurante di solstizi e feste comandate.


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