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Breve visita guidata ad alcuni luoghi naturali della letteratura (cum figuris)

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Ed eccomi qua, credo per la quarta volta, a proporre un post sulla scia del blog Il Manoscritto del Cavaliere di Maria Cristina Cavaliere, brava blogger che ha tra le sue virtù riconosciute quella di proporre suggestivi abbinamenti tra opere letterarie, dipinti, paesaggi, emozioni, ecc. Stavolta si è trattato di abbinare cinque luoghi naturali a un libro e a un dipinto. Lei per il suo post I quadri, i romanzi e i luoghi naturali ha scelto, nell'ordine: Montagna, Isola, Fiume, Mare e Lago; io ho invece optato per: Isola, Fiume, Palude, Altopiano e (dall'alto di una) Rupe. Ne è uscito qualcosa di sterminato che mi ha anche permesso di sconfinare in un'altra delle mie passioni e fare riferimento a due dei miei film preferiti di sempre.

* * *


1. L'isola: King Kong (Delos Wheeler Lovelace, 1932)


Pag. 44: La nebbia che stava quasi per scomparire e diveniva ormai impercettibile, improvvisamente, mentre essi erano in ascolto, si fece più densa. Quando però si alzò un leggero venticello, essa si diradò e si dissolse del tutto. La distesa azzurra del mare ora appariva chiara sotto un sole leggermente velato. E poco distante, a circa un quarto di miglio, proprio davanti alla nave si vedeva un'isola ricca di vegetazione con una montagna a forma di teschio e un lungo promontorio coperto di boscaglia, sabbia e roccia.

La mia isola è l'Isola del Teschio di King Kong. Luogo senza dubbio più filmico che letterario, ma presente tuttavia anche in un adattamento in forma di romanzo della prima versione della sceneggiatura del film. Entrambi, prima versione della sceneggiatura e suo adattamento, sono stati spesso attribuiti a Edgar Wallace, sebbene per puri fini commerciali. Anche ammesso che Edgar Wallace abbia davvero scritto una sceneggiatura del film prima di ammalarsi e tirare le cuoia poco dopo il suo arrivo a Hollywood, di certo non è l'autore della sua novelization, apparsa a puntate nel 1932 sulla rivista pulp Mystery Magazine a firma dello scrittore e giornalista Delos Wheeler Lovelace (1894 – 1967) e solo in seguito pubblicata in volume a nome del ben più noto giallista.
Sembra comunque che siano state necessarie almeno quattro successive versioni della sceneggiatura a cura di James Ashmore Creelman, Horace McCoy e Ruth Rose, per arrivare alla definitiva usata per il film (e accreditata a James A. Creelman, Ruth Rose, Edgar Wallace e Meriam C. Cooper). Mi sto riferendo, ovviamente, al capolavoro del 1933, mentre le successive due pellicole che narrano la stessa storia - quella prodotta da Dino De Laurentis negli anni settanta e quella di Peter Jackson del 2005 - sono all'incirca trascurabili. A cominciare dal loro mostruoso protagonista, che in ambedue queste versioni altro non è che una scimmia troppo cresciuta, lontana dall'antropoide del 1933, dall'aria altrettanto preistorica dei dinosauri con cui divide gli spazi del suo regno. E se è vero che il film di Jackson mi aveva per un momento illuso, partendo alla grandissima, si sa che in King Kong i guai veri cominciano nel momento in cui la nave esce dal banco di nebbia, e in questo caso il discorso vale anche per il pubblico pagante.


1933 - The King is Here!

1976 - Naufragato da Il pianeta delle scimmie?

2005 - Smarrito da Gorilla nella nebbia?


Ma veniamo ora al nostro luogo. La mappa riprodotta qui sotto mostra chiaramente come l'isola di King Kong sia, oltre che protetta da una barriera naturale che rende difficile approdarvi, anche divisa in due da una gigantesca palizzata di tronchi, il cui scopo è di separare la lingua di terra abitata dalla tribù aborigena, che venera il gigantesco antropoide e periodicamente gli offre belle fanciulle come spose, dalla parte più profonda dell'isola: il regno di Kong.

 

Dall'alto della Montagna del Teschio, rilievo che ha eletto a suo trono e dimora, King Kong domina una terra lussureggiante e selvaggia, popolata da un assortimento di rettili preistorici delle principali specie allora conosciute, oltre che da creature più assimilabili, come lo stesso Kong, al repertorio dei mostri.


Opera d'arte abbinata:
David Young Cameron (1865-1945), The Summer Isles




Questo dipinto mi è saltato subito all'occhio per la primitiva bellezza delle forme e il modo in cui si succedono sui differenti piani della visione, oltre che per le scelte cromatiche. Trovo bellissime le strisce di colore che occupano il primo piano e la profondità dei blu di cielo, mare e isole.

* * *


2. Il fiume: Il vento nei salici (Kenneth Grahame, 1908)



Pag. 115 (Capitolo VII - Inizio): Lo scricciolo dei salici stava cinguettando la sua canzoncina, nascosto tra la scura vegetazione lungo l'argine del fiume. Sebbene fossero le dieci di sera passate, il cielo si avvinghiava ancora ad alcuni residui di luce del giorno trascorso e riusciva a trattenerli; e l'astiosa calura del torrido pomeriggio si frantumava e rotolava via disperdendosi al contatto delle dita fresche della breve notte di mezza estate.
Talpa giaceva lungo disteso sulla riva, ancora ansimante per il soffoco dell'infuocata giornata che era rimasta senza una nube dall'alba al tardivo tramonto, e aspettava il ritorno dell'amico. Aveva deciso di trattenersi sul fiume con alcuni compagni, lasciando Topo d'Acqua libero di andare a un appuntamento fissato da un pezzo con Lontra; al ritorno si era trovato di fronte a una casa buia e deserta, senza alcun indizio della presenza di Topo, che senza dubbio si stava trattenendo fino a tardi con il vecchio compagno. Faceva ancora troppo caldo per rimanere chiusi in casa e pertanto egli se ne stava sdraiato su alcune fresche foglie di acetosa, pensando alla giornata trascorsa, a quello che aveva fatto e a come tutto fosse stato divertentissimo.


Come ben evidenziano il mio estratto e la "mappa ufficiale" dell'opera, c'è il fiume al centro del mondo de Il vento nei salici. Le sue rive ospitano le case di Lontra e Topo d'Acqua, mentre degli altri protagonisti principali Tasso abita le profondità del Bosco Selvaggio (Wild Wood), Talpa un campo coltivato sul lato opposto del fiume (Mole End), non distante da un insediamento umano, e Rospo, infine, una ricca magione signorile (Toad Hall). Sì, perché l'universo incantato di Wind in the Willows sfugge a ogni possibile categorizzazione e se gli altri animali hanno, seppur vagamente, qualcosa ancora da spartire con i loro corrispettivi in natura, le abitudini e le manie di Rospo sono da considerarsi al 100% umane.

Ma non è solo questo a fare de Il vento nei salici un'opera anomala, fuori dagli schemi. Se il lirismo è il tono dominante di una gran parte della narrazione, nella parte centrale del libro si è colti del tutto di sorpresa da un improvviso ampliamento di prospettiva. Siamo al capitolo VII, Il suonatore di Siringa alle porte dell'alba, e Topo d'Acqua e Talpa, divenuti compagni inseparabili, sono alla ricerca dello scomparso Agilino, figlio di Lontra. Mentre percorrono il fiume in barca, Topo d'Acqua si trova ad ascoltare un suono "bello e strano e nuovo" che si ripete a intervalli e sembra spronarlo a procedere nella sua direzione. Talpa non sente ancora niente ma segue le indicazioni dell'amico e rema fino ai pressi di una chiusa, nel cui abbraccio si trova "un'isoletta fittamente frangiata da salici e betulle argentee e ontani". I due vi sbarcano e risalgono la sponda fiorita fino ad arrivare a "un praticello dal verde meraviglioso" che Topo d'Acqua riconosce subito come il luogo suggeritogli dalla canzone-sogno, il luogo sacro dove ritroveranno il disperso Agilino.
Pag 121: Allora, improvvisamente, Talpa sentì un grande timore reverenziale pervaderlo, un timore che gli tramutò i muscoli in acqua, lo costrinse a chinare il capo e gli radicò i piedi al suolo. Non si trattava di un terrore panico - anzi egli si sentiva mirabilmente sereno e felice - ma era un timore che lo travolgeva immobilizzandolo e, pur senza nulla vedere, egli sapeva come tutto ciò potesse significare soltanto che una qualche augusta Presenza era molto, molto vicina. A stento si voltò a cercare con lo sguardo l'amico e lo vide al suo fianco farsi piccolo, come se fosse atterrito, e tremare violentemente.

I due sono appena giunti al cospetto dell'Amico e Soccorritore.
Pag. 122: [Talpa] vide l'incurvarsi all'indietro delle corna, splendenti nella crescente luce del giorno; vide il severo naso aquilino tra gli occhi buoni che li stavano contemplando dall'alto divertiti, mentre la bocca barbuta si incurvava agli angoli in un mezzo sorriso; vide l'ondularsi dei muscoli sul braccio posto diagonalmente davanti all'ampio petto, la lunga e duttile mano che ancora stringeva la siringa appena scostata dalle labbra socchiuse; vide le splendide curve delle gambe pelose abbandonate con maestosa disinvoltura sul tappeto erboso; e vide in ultimo, annidato tra gli stessi zoccoli, profondamente immerso in un sonno sereno e soddisfatto, il minuscolo, tondo, grassoccio, infantile corpo del piccolo Agilino. Tutte queste cose vide, in un attimo intenso, a fiato sospeso, vivide sotto il cielo mattutino; eppure, mentre guardava, seppe di vivere e mentre viveva si meravigliò.

Ma poi, quando il disco solare sorge sull'orizzonte, i suoi primi raggi colpiscono dritto negli occhi i due animali e disperdono la visione, che se ne andrà senza lasciare nessuna traccia di sé nella loro memoria. E' la dimenticanza l'ultimo misericordioso dono del grande dio innominato ai due piccoli amici.


Opera d'arte abbinata:
Pierre Auguste Renoir, La Senna ad Asnieres (1879)




* * *


3. La palude - Martha Peake (Patrick McGrath, 2000)



Siamo nel XVIII secolo, a Londra. All'inizio del capitolo 11 del romanzo, Martha Peake, nel tentativo di ricongiungersi con il padre, attraversa il Ponte Nuovo di Westminster, supera un villaggio del Surrey situato sulla riva meridionale del Tamigi, e raggiunge il Lambeth settentrionale, un'area paludosa bonificata all'inizio dell'800 e inglobata, dal 1889, nella Grande Londra.
Pag. 102: Là fuori, in quella landa aperta ai venti, faceva più freddo che in città e Martha si strinse nel cappotto, mentre procedeva in mezzo agli acquitrini diretta a sud. Il cielo era grigio e la foschia aleggiava sulla palude come un soffice lenzuolo bianco, che qua e là appariva più o meno spesso, conferendo a ogni cosa la strana nebulosità del sogno; terra e acqua, aria e cielo si fondevano in una diffusa materialità lattiginosa. Non si udiva il canto di un uccello in quella vuota distesa, né alcun altro suono. Martha s'inoltrava nella palude e la sua baldanza scemava sempre più dinanzi al silente chiarore di quello strano mondo. Un'ora dopo giunse in cima a un dosso, e guardando a oriente scorse in lontananza, ai piedi di una collina boscosa, alcuni edifici raggruppati intorno a una grande casa bianca: Drogo Hall.

Martha Peake, terzo e per ora ultimo libro di Patrick McGrath che ho letto, mi ha confermato, per la terza volta di seguito, le grandi doti narrative dello scrittore. Scordatevi però l'assai più noto Follia, sebbene neanche stavolta l'autore rinunci a quel suo vero e proprio marchio di fabbrica che è il tema del decadimento psichico e morale. Qui la cornice è quella del romanzo storico, almeno per quel che riguarda la parte centrale della storia, dedicata ai primordi della rivoluzione americana con Martha Peake che fugge dall'Inghilterra per abbracciarne la causa e ne diventa un'eroina. La precoce uscita di scena della donna, tuttavia, che precede abbondantemente il finale, è uno dei motivi, ma non l'unico, che mi hanno fatto apparire il titolo del libro come uno dei meno appropriati in cui mi sia imbattuto nella mia storia di lettore. Vera protagonista è, secondo me, la vicenda che ruota dentro e intorno lo spettrale maniero di Drogo Hall, che fa anche sì che a farla da padrone nelle pagine di Martha Peake siano sopratutto gli elementi e le atmosfere del romanzo gotico.

Opera d'arte abbinata: Aleksej Kondrat'evič Savrasov (1830-1897), Moonlit Night Marsh




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4. L’altopiano – Olalla (Robert Luis Stevenson, 1885)


Pagg. 26-27: La residencia era adagiata sulla cima di un altopiano sassoso, cinta tutt’intorno da catene di monti; soltanto dal tetto, da cui spuntava una torretta, si poteva vedere, tra due cime, un minuscolo pezzo di pianura, azzurro in lontananza. A questa altitudine l’aria soffiava liberamente e parecchio; grandi nuvole si ammassavano in cielo, scacciate dal vento e lasciate a brandelli sulla cima delle colline; tutto intorno si sentiva il rombo rauco e insieme debole dei torrenti; e laggiù si potevano studiare tutti i caratteri più rudi e antichi della natura, che continuavano a mantenere intatto qualcosa della loro forza primigenia. Sin dall’inizio rimasi affascinato dal clima mutevole; come del resto anche dall’antica magione ormai in rovina in cui alloggiavo.

Può succedermi di scoprire, a distanza di molti o anche pochi anni dalla prima lettura di un libro, di non essere più in grado di raccontarmi la sua trama e/o di non conservare nessun vero ricordo dei suoi protagonisti. E' il caso di questo bizzarro racconto di Robert Luis Stevenson, del quale ricordavo in modo vago una serie di elementi, tutti essenziali ma allo stesso tempo assolutamente non in grado di permettermi di ricomporre tutto il mosaico: una grande dimora abitata da una strana famiglia; un tipo straniero (in realtà scozzese come lo scrittore) che si trova a trascorrere un periodo di riposo tra le sue mura; un crocefisso che si erge da qualche parte su una roccia. Mi rimaneva, in compenso - unica vera sopravvissuta alla lettura - la percezione quasi fisica dell'assolato altopiano sassoso che fa da cornice ambientale alla storia, così che mi è apparso perfino inevitabile assegnarle un posto in questo elenco di luoghi naturali letterari.
Ma ho anche appena terminato di esporre, per fortuna, un genere di situazione che non posso tollerare a lungo, soprattutto quando vi si accompagna la percezione di aver comunque letto qualcosa di molto valido. Ho quindi ripreso in mano Olalla per una seconda lettura, del tutto deciso stavolta a concentrarmi su trama e personaggi. E che shock è stato imbattermi nel punto di massimo climax del libro, assolutamente indimenticabile, e scoprire che lo avevo invece dimenticato! E che dire dello struggente, amarissimo finale, con i suoi elevati toni mistici?
Non intendo fare spoiler per una storia di novanta pagine scarse (nell'edizione Passigli che ho io, con i caratteri grandi) e non affronterò nessun dettaglio della trama (per i curiosi esiste in ogni caso una pagina di Wikipedia inglese dedicata). Dico solo che Olalla è il nome di una donna e che la storia ha, per una coincidenza, più punti di contatto con il libro di McGrath al punto precedente. Come in Martha Peake, anche in Olalla il perno centrale della storia è un'antica, vasta residenza situata nel cuore di un paesaggio desolato. E come in Martha Peake, anche in Olalla abbondano gli elementi caratteristici della letteratura gotica. Contiene addirittura una scena - quella che ho definito di massimo climax - che potrebbe esser servita di ispirazione a Bram Stoker per il suo Dracula, pubblicato dodici anni dopo, nel 1897, sebbene il racconto di Stevenson venga piuttosto accostato al tema della licantropia che del vampirismo.


Opera d'arte abbinata:
Camille Corot, Mont Soracte (1826)




Avrei voluto un quadro che raffigurasse la Meseta spagnola descritta nel libro, ma sembra che non abbia mai interessato alcun pittore. Ho quindi ripiegato su questo dipinto di Camille Corot che credo raffiguri un paesaggio italico ma che mi sembra renda ugualmente bene quei "caratteri più rudi e antichi della natura, che continuano a mantenere intatto qualcosa della loro forza primigenia" descritti da Stevenson.

* * *


5. Dall'alto di una rupe - Valeria e la settimana delle meraviglie (Vítězslav Nezval, 1945)


Pag. 153: Da un alto poggio su di una rupe sopra un freddo fiumiciattolo dove la sera aveva già bagnato la sua scarpetta da cavaliere, in una regione che contava, dalla mattina alla sera, i propri cuculi appoggiati alle antiche merlature di un ben conservato castelletto da caccia, per molti anni residenza dei guardaboschi, un ragazzo e una ragazza guardavano le cime dei boschi, da dove un sole esausto, come uno scoiattolo rosa, penetrava nel buio delle selve e sulle quali il cielo passava nello smeraldo dell'infinito.

Potrei sbagliarmi, ma poche volte come nel caso di questa affascinante lettura ho avuto nitida la sensazione che l'autore in fase di scrittura abbia navigato a vista. Qualcosa sembra del resto insinuare lui stesso, nella sua prefazione, quando scrive:
...mi rivolgo a quanti, di tanto in tanto, si soffermano come me sul mistero di certi cortili, di certi sotterranei, di certi villini e sul mistero degli intrichi della mente attorno a ciò che è arcano. Se riuscirò, con questo mio libro, a evocare in loro quei sentimenti rari e preziosi che mi hanno costretto a scrivere un racconto che rasenta il ridicolo e la futilità, sarò soddisfatto.
La mia sensazione è appunto quella che questo breve romanzo onirico si sia come costruito da solo, attorno all'impalcatura offerta dalla volontà dello scrittore di evocare i "sentimenti rari e preziosi" risvegliati in lui da determinati luoghi e atmosfere, così come un sogno attorno a chi dorme nel proprio letto. Ancor più inatteso giunge perciò, nel finale del libro, l'inno alla natura che gli ha garantito l'ingresso in questo post, pervaso di tutto il lirismo di cui è capace il grande poeta ceco.

Per il resto, quella di questo libro è la storia, spiccatamente weird, di due gemelli diciassettenni, Valerie e Orlìk, che si trovano, per una settimana, a dover affrontare un vampiro con una spiccata predilezione per il sangue delle galline e altre equivoche comparse. Ad andarci a nozze è stato il regista ceco Jaromil Jires che ne ha tratto, nel 1970, un bellissimo film che più slavo non si può. Il titolo originale del film è lo stesso dell'opera scritta, Valerie a týden divu, ma da noi è diventato, per qualche ragione, il ben più prosaico Fantasie di una tredicenne. Il regista Jires ha infatti scelto, tra le numerose sue varianti al testo madre, anche di abbassare l'età di Valerie (e solo di lei) da diciassette a tredici anni, garantendo così, tra le altre cose, un debutto con il botto alla allora giovanissima Jaroslava Schallerová.


Opera d'arte abbinata n° 1:
Lawren S. Harris, Algoma Hill (1920).




In realtà è un dipinto canadese, ma a me non manca di evocare lo stile di certe illustrazioni di fiabe dell'Europa orientale.


Opera d'arte abbinata n° 2:
Jaroslava Schallerová




Non ho proprio potuto resistere.

* * *


Fonti dei brani citati:

  • Edgar Wallace, King Kong. Longanesi & C., 1976. Traduzione di Alberto Siani.

  • Kenneth Grahame, Il vento tra i salici. Arnoldo Mondadori Editore, 1984. Traduzione di Bruno Oddera.

  • Patrick McGrath, Martha Peake. Bompiani, 2001. Traduzione di Annamaria Raffo.

  • Robert Luis Stevenson, Olalla. Passigli editori, 2006. Traduzione di Simone Garzella.

  • Vítězslav Nezval, Valeria e la settimana delle meraviglie. Edizioni e/o, 1982. Traduzione di Giuseppe Dierna.

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